La quinta stagione non è un’opera apocrifa di Vivaldi, ma il titolo di Dylan Dog #117, mensile di successo pubblicato da quattro decenni dalla Sergio Bonelli Editore: e la quinta stagione è proprio quella che stiamo vivendo sulle pagine del fumetto che, nella più classica tradizione italiana, si rinnova per restare sempre uguale a sé stesso.
Ma è proprio così? E se si, in che misura, e come?
A due anni ormai dall’arrivo come curatrice del personaggio di Barbara Baraldi, scrittrice di thriller di successo nonché già autrice di diverse storie del personaggio, cogliamo l’occasione per approfondire alcuni mutamenti di uno dei fumetti più letti d’Italia.
Dylan Dog e il crollo dell’eroe moderno
Sono molto pochi i fumetti italiani – e relativi protagonisti – ad aver saputo resistere all’usura del tempo diventando leggende e icone anche mediatiche: sicuramente Tex e Diabolik, personaggi profondamente figli del loro tempo che hanno interpretato una certa italianità (il ranger è del 1948 e mentre il ladro assassino del 1962) restando più o meno invariati negli anni, ma rinnovando periodicamente i loro abiti culturali.
Nell’elenco va di certo inserito poi Dylan Dog, l’indagatore dell’incubo creato nel 1986 da Tiziano Sclavi, antieroe che incarna la crisi dell’uomo – ma anche del maschio – del tardo Novecento reinterpretando a modo suo il revisionismo supereroico statunitense un po’ à là Alan Moore, e creandone a tutti gli effetti uno all’italiana. In cosa è però diverso il buon londinese acchiappa mostri dai suoi altri colleghi del fumetto?
Con quarant’anni di storie alle spalle è inevitabile che Dylan Dog sia cambiato da come l’aveva inquadrato il suo ideatore, eppure quella che è rimasta invariata è la stessa caratteristica che ha fatto sì che, contrariamente ai personaggi creati da Gianluigi Bonelli e dalle sorelle Giussani, gli abbia permesso di uscire (in maniera modesta, è vero, ma è avvenuto) dai confini della nostra penisola e diventare star di un film americano – il grottesco Dylan Dog di Kevin Munroe del 2011, forse da rivalutare rispetto a quando uscito, ma pur sempre un film modesto – e prima o poi (?) protagonista di un serial prodotto da James Wan.
È questa la forza, il nucleo ribollente di Dylan, cioè essere il prototipo dell’uomo comune: un po’ come l’archetipo hitchcockiano incarnato dall’attore James Stewart, uno che ha l’aspetto di una persona qualunque e che a differenza degli eroi tradizionali non cerca l’avventura, ma suo malgrado vi viene catapultato dentro, e che dietro l’apparenza di normalità è appunto vulnerabile, umano, vicino ai lettori che possono immedesimarsi nelle sue paure e nel suo senso di smarrimento.
Ma è proprio per questo che il geniale Sclavi lo ha pensato indagatore dell’incubo, perennemente faccia a faccia con l’orrore: perché in questo modo si poteva accentuare la reazione del personaggio all’evento straordinario (rappresentato da un uomo lupo o da un qualunque mostro), reazione caratterizzata da angoscia, ansia e profondo senso di insicurezza, in contrasto con la natura ordinaria delle cose.
Abbiamo citato il fumetto americano – nel quale però la tipizzazione del personaggio seriale si basa sul perenne cambiamento (circostanza che gli permette di mutare restando però sempre fedele a sé stesso). In Italia il rapporto è inverso: se i personaggi da edicola sono obbligatoriamente, anzi ontologicamente destinati per definizione una cristallizzazione eterna, cambiare anche una piccola virgola del loro status quo vorrebbe dire decentrare l’attenzione e la natura stessa dell’eroe.
Tex nasce nel dopoguerra, quando il lettore ha bisogno di figure di riferimento, salde, coerenti e ben riconoscibili perché sempre uguali; Diabolik è figlio della scossa degli anni Sessanta, esorcizza la realtà che circonda il lettore e se è cattivo, anzi cattivissimo, fa apparire meno cattivi tutti gli altri.
E Dylan Dog? Lui è diverso, differente da tutto e tutti, così come differente è l’ambientazione, il modo di vedere la vita, il pericolo costante che lo circonda. Erano insomma i fumetti di Sclavi essere diversi da ogni altra cosa letta in quel periodo, fumetti che non scendevano a compromessi, che sbattevano in faccia al lettore sangue e frattaglie come mai in un prodotto così mainstream diffuso nelle edicole, alla portata di adulti e bambini. Dylan Dog diventa pian piano, anzi si scopre essere fumetto d’autore e popolare insieme, sollevando dibattiti culturali importanti, celebrato come vero e proprio fenomeno di costume.
Tiziano Sclavi: un nome che è davvero ormai leggenda, anche perché l’uomo ci è sprofondato dentro con tutti i piedi, consapevolmente e forse anche come strumento di autodifesa.
Perché Dylan Dog, per tanti versi, è Tiziano Sclavi: come difficilmente capita nel fumetto popolare (ma a conferma che Dylan Dog non è solo popolare, ma anche d’autore), la distinzione tra i due sta solo nella dimensione in cui si muovono, perché Sclavi sa che il successo della sua creatura deriva proprio dal fatto che ha riversato in lei le sue paure, le sue ossessioni, le sue fobie, insomma tutte quelle fragilità che difficilmente nell’eroe classico erano evidenziate.
Ora facciamo un passo avanti.
Forse non tutti sanno che (anche!) i mensili Bonelli hanno un “curatore”: tecnicamente è il supervisore editoriale che si occupa del progetto, seleziona gli autori da pubblicare, coordina le fasi creative, garantisce insomma coerenza all’opera. Insomma, una sorta di showrunner – per chi conosce il lessico delle serie tv americane – che dà delle linee guida molto generali sulle quali viaggiare.
Facendo un po’ di attenzione, allora, leggere i nomi dei curatori che negli anni si sono occupati di Dylan Dog può far capire molte cose:
- Tiziano Sclavi dal #1 al #99 (1986/1993);
- Mauro Marcheselli dal #101 al #279 (1993/2009);
- Giovanni Gualdoni dal #280 al #324 (2009/2013)
- Roberto Recchioni dal #325 al #441 (2013/2023)
- Barbara Baraldi dal #442 (2023/corrente).
Due conti: Sclavi, Marcheselli e Recchioni una media di dieci anni ciascuno, Gualdoni la metà.
Uno: la genesi del mito
È quasi una barzelletta, sui social, parlare dei “primi 100” di Dylan Dog: non tutti scritti da Sclavi, ovviamente, che fino al numero 23 non ne salta uno, ma tutti sotto la sua saldissima supervisione. È qui che si crea il mito, si fonda la leggenda, vengono scritte e stampate alcune storie che entrano a pieno titolo tra le più belle di quegli anni e di tutta la storia della serie (Attraverso lo specchio, Dopo Mezzanotte, I segreti di Ramblyn, Il fantasma di Anna Never, Ti ho vista morire), e una manciata di altre (Memorie dell’invisibile, Storia di Nessuno, Morgana), tutte scritte da Sclavi, che riscrivono la grammatica del fumetto seriale.
Psicoanalisi e filosofia sono alla base di tante storie, che non per questo però risultano ingessate ma anzi scorrono fluide; la credibilità psicologica di ogni personaggio, dal principali al comprimari, è luminosa; infine, Sclavi è maestro nel confondere il lettore, depistarlo, con la sua narrativa profondamente postmoderna nel momento in cui scompone la linearità narrativa per ricomporla in uno schema tutto suo, che lambisce a volte il flusso di coscienza ma non perde mai né freschezza né ritmo.
Sono gli anni in cui il mensile arriva a vendere 700.000 copie in un solo mese, dà la spinta per creare un vero e proprio festival (il Dylan Dog Horror Fest, a Milano), compare su tutti i quotidiani, tutte le riviste di cultura “alta” fino a essere trattato da personalità del calibro di Umberto Eco e Filippo La Porta.
A posteriori, era chiaro come Sclavi non potesse reggere la pressione di un successo così soverchiante, considerando anche che si andava verso il 2000 con conseguente deflagrazione dei social e della comunicazione perforante.
Da Il Mondo Perfetto (#163, con i pennelli di Roi) la sua presenza sulla collana inizia a diradarsi sempre di più: il successivo è il #176, per poi tornare solo nel #240, cinque anni dopo; per poi allontanarsi di nuovo dopo solo tre albi (#243, #244 e #250) e tornare un’ultima volta – almeno, a oggi- nel 2016, dieci anni dopo, con il #362.
Qualche nome di disegnatori?
In questo primo “ciclo”, debuttano alcuni tra i più grandi fumettisti italiani, spesso per la prima volta alla prova su un fumetto mainstream, una delle caratteristiche fondanti e vincenti di Dylan: Angelo Stano (con tutta la Secessione viennese, Klimt e Schiele in prima linea, al seguito), Gustavo Trigo e le suggestioni sudamericane, Montanari & Grassani con le loro linee chiare e rotonde; il maestro delle ombre, Corrado Roi, Carlo Ambrosini e il suo futurismo, Claudio Castellini con gli influssi anatomici da comics supereroico, Bruno Brindisi e il suo stile classico e moderno insieme o Giovanni Freghieri con i suoi personaggi gentili e tristi.
Due e Tre: la fortezza del Mito e la caduta rovinosa
Ma con l’assenza sempre più sentita del deus ex machina, come fare per poter tenere saldo il timone e mantenere le posizioni conquistate sul mercato?
Le redini della curatela della testata passano allora a Mauro Marcheselli, che lungo la strada si era fatto notare per uno dei numeri più belli per il personaggio (#74, Il lungo addio) e per uno di quelli storicamente importanti (#121, Finché morte non vi separi), ma che soprattutto era capace di recuperare quel mood sclaviano di guardare al mondo.
Malinconia da depressione post adolescenziale, critica verso un mondo cinico e spietato, avversione verso ogni forma di progresso “senz’anima” come cellulari, internet, e quant’altro: il Dylan Dog di Marcheselli pian piano diventa questo.
Il pericolo era chiaro: il personaggio delineato da Tiziano Sclavi viveva in una dimensione eticamente molto definita ma anche molto sfaccettata, il successo del fumetto veniva anche dall’estrema varietà caratteriale e psicologica che si poteva ritrovare in ogni storia.
Anche le sceneggiature dello scrittore nativo di Broni, come abbiamo visto, erano estremamente leggibili e dirette quanto complesse nel dosaggio degli ingredienti, geniali e innovative nella composizione di elementi, addirittura impossibili da replicare nel loro perfetto equilibrio tra orrore, filosofia, indagine sociale, thriller.
Il peso sulle spalle di Marcheselli era chiaramente impossibile da portare, ma lui ha fatto quanto ha potuto: è merito suo aver portato nello staff Paola Barbato, a cui sono bastati una manciata di episodi (157, 163, 167, 169, rispettivamente: Il sonno della ragione, Un mondo perfetto, Medusa, Lo specchio dell’anima) per diventare una delle autrici più apprezzate dai lettori. Proprio Barbato diventa una delle punte di diamante della gestione Marcheselli, forse perché in aperta contrapposizione con quello spirito sclaviano trasposto e progressivamente stravolto dallo stesso curatore, fatto di banalità emotive e prevedibili psicologismi (su tutti, “i mostri siamo noi”). E nonostante due numeri anniversario notevoli (il #200 affidato alla stessa Barbato, Il Numero Duecento, e il già citato #250 di Sclavi, Ascensore per l’inferno), è proprio da questo momento che qualcosa inizia a scricchiolare.
Dal 1995 al 2009, Dylan conferma di essere un fenomeno, insinuato nella cultura pop e sociale del nuovo secolo, un’icona ormai eterna.
Ma il pericolo per le icone e per le leggende è quello di cristallizzarsi nel loro status: ed è chiaro che la gestione Gualdoni non fa altro che copiare maldestramente un personaggio che già stava perdendo pezzi, dopo aver perso il suo creatore e quindi la base ispiratrice del suo carattere. Al di là di qualche numero isolato, specialmente all’inizio, in quegli anni è evidente come non ci sia più attenzione verso il personaggio, che probabilmente si pensava vendesse a prescindere: e invece la flessione in edicola è lenta ma inesorabile, come l’interesse verso gli albi che presentano storie sempre più inconsistenti.
Dylan Dog negli anni Dieci è un personaggio conosciuto da tutti, vero e proprio simbolo del fumetto italiano moderno – anzi, postmoderno – ma anche del fumetto d’autore barra popolare tout court; eppure nessun albo riesce a catturare l’attenzione mediatica e di settore che aveva in precedenza.
Tra i nomi della seconda stagione, per gli illustratori solo conferme: restano i disegnatori già citati e si allargano le fila con Nicola Mari con un tratto sempre più spesso e oscuro, Daniele Bigliardo destinato a un futuro di miglioramenti impressionanti.
Nella sceneggiatura, ogni autore conferma la futura stagnazione, contribuendo un po’ alla pozzanghera: a partire da Claudio Chiaverotti, che a furia di inseguire le orme di Sclavi si fossilizza in una malinconia post-adolescenziale forse fin troppo prevedibile; e poi Luigi Mignacco, e Pasquale Ruju, artigiani classicissimi che realizzano storie prevedibili senza nessun tipo di coraggio. Spicca però Giuseppe De Nardo, che si distingue per trame gialle particolarmente sorprendenti.
Nei “cicli” di Marcheselli e Gualdoni debuttano Alessandro Bilotta, già noto per il suo Valter Buio, che sul Dylan Dog Color Fest #2 crea Il Pianeta dei morti, una saga spin-off nata per caso ma che diventa ben presto un cult assoluto, e Roberto Recchioni, che crea un piccolo gioiello (Mater Morbi, #280) capostipite di una sorta di sottotrama nella trama.
Quattro: arriva Rrobe
Un sopravvissuto a sé stesso, ecco cos’era Dylan Dog negli anni Dieci: un charachter con un fandom incredibilmente vivo e accanito che doveva però fare i conti con un inesorabile calo qualitativo e commerciale. E non era un problema da poco, visto che il brand contava ben quattro testate (il mensile, il trimestrale Dylan Dog Old Boy – ex Maxi Dylan Dog -, lo Speciale annuale, il Color Fest).
Trent’anni non sono pochi, e i motivi che avevano reso grande quel fumetto nel 1986 non potevano essere riproposti nella tessa, identica maniera nel 2013.
Può essere vista un po’ come una conseguenza dell’arrivo alla guida della casa editrice del figlio di Sergio Bonelli, Davide, dopo la morte del padre (settembre 2011), più aperto alle innovazioni e più aziendale nelle decisioni anche artistiche, la decisione di nominare curatore di Dylan Dog Roberto Recchioni. Autore giovane e di sicuro appeal con il pubblico, ideatore e scrittore – assieme a Lorenzo Bartoli – del fumetto bonellide cult John Doe, controversa popstar del fumetto, a lui spetta il compito di “cambiare” l’indagatore dell’incubo, con la più completa e dichiarata fiducia di Sclavi stesso.
Recchioni aveva già dato bella prova di sé sul personaggio soprattutto con Mater Morbi e Il giudizio del corvo: abile creatore di plot, innovativo come fonte di idee, appassionato di fumetto americano quanto basta per voler iniettare nel fumetto italiano per eccellenza la caratteristica principale dei comics, ovvero la continuity.
Ed ecco fatto, la quarta stagione di Dylan Dog è servita: partita tecnicamente con Una nuova vita (#325) a firma di Carlo Ambrosini, ma ufficialmente in realtà con Spazio Profondo (#337), vera e propria dichiarazione d’intenti di Recchioni disegnata magistralmente da Nicola Mari. Pochi e vaghi accenni una trama orizzontale, toni più intimi, “l’albo funziona bene proprio nella costruzione dell’impianto narrativo, dove Roberto Recchioni è riuscito a riproporre, senza cadere nella maniera, il classico meccanismo presente nelle storie dell’indagatore dell’incubo di Tiziano Sclavi, che decretarono a suo tempo il successo della testata. La vicenda si basa dichiaratamente su una serie di citazioni, ma le opere citate vengono disassemblate per raccontare qualcosa con un significato diverso dall’originale”1. Insomma, Sclavi senza essere per forza Sclavi.
Recchioni, come detto, è un abile autore ricco di idee, ma il suo enorme difetto è non riuscire a trovare una conclusione degna ai percorsi narrativi che intraprende. La sua gestione è segnata, fin dall’inizio, da una volontà, almeno nominale, di “cambiare tutto il cambiabile”: compresi quelli che erano nel bene e nel male tratti distintivi non solo del personaggio ma proprio della filosofia della serie, come la presenza dell’ispettore Bloch, storico padre putativo di Dylan, fino all’avversione per la tecnologia e soprattutto per i cellulari. Tutte cose che sì, avevano portato l’indagatore dell’incubo a vivere in quel limbo di cui si diceva, allontanandolo progressivamente sempre più da quella stessa realtà che invece aveva saputo raccontare così bene ai suoi esordi, con Sclavi.
Insomma, buonissime intenzioni con risultati però quasi mai all’altezza delle promesse fatte, che però hanno quantomeno risollevato l’eroe dal pantano di mediocrità dei primi anni Dieci.
Nel suo percorso, Recchioni ha fatto entrare nello staff dylaniato Ratigher, direttamente dall’underground bolognese (In fondo al male, #351, e Graphic Horror Novel, #369), Mauro Uzzeo (La fine dell’oscurità, #374), e addirittura Dario Argento, con il suo unicum Profondo Nero (#383), ovviamente con i pennelli di Roi.
Speciale 30 anni di Dylan Dog
Nel 2016 Lo Spazio Bianco ha dedicato a Dylan Dog un ricco speciale, con interviste a Tiziano Sclavi, Barbara Baraldi, Mauro Marcheselli, Claudio Villa, Angelo Stano e tanti altri. Potete leggerlo su Dell’orrore e dell’amore: trent’anni con Dylan Dog.
La quinta stagione: Barbara Baraldi, l’affondo nella psiche e il ritorno dell’eroe
Così come Recchioni aveva esordito come autore di storie nella gestione precedente alla sua, ugualmente accade a Barbara Baraldi: il suo primo albo è Il bottone di madreperla, nel Dylan Dog Color Fest #9 dell’agosto 2012, e nella serie mensile arriva con il #348, La mano sbagliata.
La prima stagione ha creato il Mito; la seconda l’ha rafforzato, copiandolo; la terza l’ha disgregato, svuotandolo da ogni significato profondo; la quarta l’ha distrutto, lo ha azzerato, per farlo partire da zero.
Insomma, il compito di Baraldi non era da poco, ma soprattutto era difficile capire come affrontare il problema. E ancora una volta, è evidente come ogni autore metta un po’ di sé in quello che crea: così come Recchioni aveva affrontato di petto, con arroganza e un po’ di sciocca incoscienza, l’incarico di rivitalizzare Dylan Dog, pensando più al coup de theatre piuttosto che alla sostanza, l’attuale curatrice decide di insinuarsi lentamente nel mondo dell’indagatore dell’incubo.
Forte delle sue caratteristiche narrative e artistiche, Baraldi dopo l’esordio aveva centrato più di un albo: Perderai la testa (#385) è forse una delle storie più appassionanti degli ultimi anni, capace di tendere le fila di un mistero apparentemente irrisolvibile; L’ora del giudizio (#417), è esemplare per indicare la strada che da lì a poco avrebbero intrapreso le storie, con un approccio psicologico e ricercato.
E se Frammenti (#442) (dedicato allo scomparso da poco Luigi Piccatto) è il primo che porta nel colophon il nome della scrittrice modenese, è da L’altro lato dello specchio (#446), disegnato a sei mani da Davide Furnò, Nicola Mari e Marco Nizzoli, che si inizia a vedere cosa diventerà Dylan Dog: un fumetto con uno sguardo diretto dritto nell’incubo come emanazione della psiche, spesso inserito in cicli “tematici” che legano diversi numeri non con la trama ma con un tema comune.
Qualche titolo e qualche nome di questa stagione in corso.
A ottobre 2024 esce La sottile linea nera (#457) di Gianmaria Contro e Luigi Siniscalchi: un sogno a occhi aperti, lacerante come la realtà, che riecheggia gli incubi ed i fantasmi della terra utilizzando tutte le sfumature del dolore dell’animo umano.
Il mese dopo, sul #458 bis, L’oscuro messaggero, la storia intrisa di sangue di Mauro Aragoni permette ad Antonio Marinetti di sbizzarrire il suo tratto barocco e psichedelico.
Sempre a novembre 2024, sul #458, Sette vite, Marco Nucci scrive e Paolo Martinello disegna la storia dylaniata più cinematografica degli ultimi anni, ma anche la più sottilmente inquietante, dove le illustrazioni sono quanto mai rappresentative dei testi.
Erano anni, che non si vedeva un mensile così vivo e ricco di storie, suggestioni, spunti, e che non si leggeva un Dylan Dog così centrato nella sua caratterizzazione sclaviana; ma soprattutto, era tanto che non entravano così tanti autori nuovi nello staff, capaci di reinterpretare un personaggio che deve fungere da motore immobile e insieme fare da catalizzatore, in un’atmosfera trasognata e malmostosa di orrore onirico e psicologico.
Un orizzonte reso ancora più chiaro dal trittico Non dovresti essere qui, Se la notte chiama, Chi è sepolto in questa casa? ( #463, #465 e #466), con Furnò e Corrado Roi a impreziosire le vignette: tre albi scritti da Baraldi, tre storie dove c’è una tessitura narrativa abile perché capace di tenere insieme un universo coerente con sé stesso, fatto di passaggi onirici, atmosfere paludose, storie claustrofobiche.
Ed ecco allora oggi cos’è Dylan Dog, e com’è questa quinta stagione.
Ed è anche quello che era quarant’anni fa, un fumetto con al centro un antieroe che guarda con benevolo distacco la realtà che lo circonda, non riconoscendosi in uno sviluppo che non sempre è progresso; un fumetto d’autore che cita a piene mani libri, film, musica, pittura, che impiega alcuni tra gli illustratori migliori sulla piazza al servizio di storie che però sono accessibili a tutti.
Un fumetto dell’orrore, soprattutto, che torna a essere vero orrore da gran guignol ma anche horror vacui, aggiornato al 2025.
Un fumetto dove l’incubo sta al primo posto, se per incubo si intende sogno capace di procurare uno stato di angosciosa oppressione, quindi stato in cui la psiche è sotto stress, sempre, continuamente.















La data della curatela marcheselli è sbagliata, iniziò nel 93 non nel 95.
Grazie per la segnalazione, abbiamo corretto!
Il periodo di Recchioni (a mio modesto parere il peggiore per distacco)è quello che mi ha convinto ad abbandonare definitivamente la serie( di tanto in tanto ancora compravo qualche numero…).
Comunque articolo interessante e, in larga parte, condivisibile…
Grazie!