Le nostre interviste ai curatori simbolo della testata si concludono con la persona che può essere giustamente ritenuta, con Tiziano Sclavi, la più importante nella lunga e fortunata vita editoriale di Dylan Dog: Mauro Marcheselli.
Mauro Marcheselli è nato a Melara, in provincia di Rovigo, il 19 ottobre 1953. Insieme ad altri, fonda, alla fine degli anni Settanta, un’associazione di appassionati, il Club Giovani Amici del Fumetto, che pubblica una fanzine da cui nascerà la rivista di critica “Fumo di China”. Marcheselli collabora con l’Anaf e con le riviste “Orient Express”, “Pilot” e “Comic Art”. Diventato redattore della Sergio Bonelli Editore, ha esordito sulle pagine di Dylan Dog come soggettista con “L’ultimo plenilunio”, firmando anche i soggetti di alcune tra le storie più amate dell’Indagatore dell’Incubo, come “Il lungo addio”, “Johnny Freak” e “Finché morte non vi separi”. È stato curatore editoriale di Dylan Dog fino al dicembre 2009. Dal 2010 al 2015 ha ricoperto il ruolo di Direttore Editoriale della Casa editrice.
Intervista a Mauro Marcheselli
A lungo si è pensato a un Dylan Dog indissolubilmente legato a Sclavi. Per te è ancora così nelle “fondamenta” del personaggio? Come ci si muove nell’equilibrio tra ciò che Dylan Dog è nella interpretazione di suo “padre” e tra quello di personale che un autore cerca sempre di mettere nelle sue opere?
Per quanto mi riguarda, Dylan Dog è quello di Sclavi, quello degli inizi. Nel corso di trent’anni il personaggio è inevitabilmente cambiato, per mille ragioni legate soprattutto agli autori che si sono succeduti ai testi e che, pur nel rispetto delle caratteristiche peculiari del personaggio, non potevano certo darne una versione identica in tutto e per tutto a quella del creatore della serie. Sclavi è inimitabile. Comunque, anche se Tiziano avesse scritto tutte le storie di Dylan Dog, oggi il suo Indagatore dell’Incubo non sarebbe uguale a quello del 1986. Forse migliore, magari peggiore, ma senza dubbio diverso.
Dylan Dog è stato un fenomeno artistico, editoriale e sociale. Nel suo periodo di maggiore successo è stato protagonista di pubblicità, merchandising, ha generato bizzarri epigoni, è stato ospite di riviste a larga diffusione. Sembrava che tutti leggessero Dylan Dog. Come ci si approccia a un personaggio e a un fenomeno del genere senza esserne schiacciati? Fa paura scrivere Dylan Dog?
Paura mi sembra eccessivo. Allora cosa dovrebbero provare gli sceneggiatori di Tex?
Direi che è una bella sfida. Prima dell’avvento dei social, poi, la vita era più facile per tutti. Non venivi linciato sulla pubblica piazza per una storia non particolarmente riuscita. In redazione arrivavano montagne di lettere cartacee e la maggioranza erano di lettori contenti, se non entusiasti. E le lettere di critica dura erano poche e quasi tutte anonime.
Sei entrato nel team della serie nel 1992. Come è cambiato nel tempo il tuo approccio e la tua interpretazione del personaggio e delle tue storie? Come è maturato il tuo modo di scrivere Dylan Dog e come ti ha influenzato negli altri tuoi lavori?
Non sono uno sceneggiatore. Io ho avuto, tranne in un caso (Marionette, sceneggiato da Gianluigi Gonano), il privilegio di vedere i miei soggetti sceneggiati da Sclavi. Quindi non esiste un Dylan “mio”. Ci sono state tante storie romantiche prima di Il lungo addio e di Finché morte non vi separi (una per tutte, Memorie dall’invisibile) e il Ghor degli Orrori di Altroquando era ben più straziante nella sua innocenza di Johnny Freak. Ho solo suggerito a Tiziano le storie che avrei voluto leggere. E lui me le ha scritte. Grazie, Tiz.
C’è qualcosa che cambieresti in Dylan Dog e qualcosa a cui non rinunceresti mai?
No. Io non avrei cambiato nulla. Sclavi invece la pensa diversamente…
Che ruolo ha avuto Dylan Dog nella tua vita?
Mi ha stravolto la vita. Mi piacerebbe vedere, in uno degli infiniti universi paralleli, cosa è successo al Marcheselli che ha proseguito a fare il camionista invece di andare a lavorare in Bonelli. Scherzi a parte, Dylan ha occupato trent’anni della mia vita in modo quasi totalitario. E in particolare i sedici anni in cui sono stato curatore della serie. L’Old Boy mi ha dato tanto, ma si è preso una bella fetta della mia vita. Non so chi dei due sia in debito con l’altro…
Dylan è sempre stato un personaggio con una forte aderenza al sociale, le sue storie spesso si sono fatte carico di messaggi sui diritti, l’uguaglianza, la pace, il rispetto per gli animali… Questo pone l’attenzione sul tema della responsabilità dell’autore nei confronti delle sue opere. Cosa significa per te questo tema, in particolare per Dylan Dog?
Quando rispondevo alle lettere delle amebe dylaniate ne arrivavano alcune (nei primi anni ’90 circa seicento al mese) che ti facevano venire la pelle d’oca. Una delle domande che più mi spaventava era quella su quali “messaggi” volevamo veicolare con le storie di Dylan Dog. Evidentemente non ci siamo capiti, ragazzi e ragazze. Mai avuto intenzione di pontificare, indirizzare, dare consigli o fare la morale a chicchessia. Figurarsi. Dylan non è certo un “maestro di vita”, pur restando, con tutti i suoi difetti, un personaggio positivo ed eticamente accettabile. Però di sicuro ha saputo “parlare” ai propri lettori, per molti dei quali era diventato un amico a cui confidare quei segreti e quelle paure che non riuscivano a esternare a persone in carne ed ossa. Per questo è stato scelto più volte come testimonial per campagne sociali a livello nazionale su temi importanti come la lotta alla droga, all’alcolismo, all’AIDS. Il problema è che Dylan (come Sclavi) aveva gli stessi problemi delle generazioni di giovani che leggevano le sue avventure, ma non aveva la soluzione.
Parliamo comunque di altri tempi, oggi la situazione è completamente diversa.
Rendere l’orrore è difficile. La paura, l’irrazionale. Ci sono tante sfumature del genere in Dylan, commistioni. Lo stesso genere è cambiato molto dagli anni ’90 a oggi. Cosa significa scrivere un fumetto horror oggi? Come evolve Dylan Dog in questo?
Bella domanda. Cos’è l’orrore, oggi? O forse sarebbe meglio dire “cosa non è orrore, oggi?”. Io non scrivo più da tanti anni e sinceramente sono contento di non doverlo fare. Oggi è molto più difficile ideare storie horror perché all’orrore ci siamo assuefatti. Ogni giorno l’orrore, quello vero, ci viene sbattuto in faccia e non ci fa più nessun effetto. Figurarsi vampiri e lupi mannari. Quelli vanno bene se sono romantici…
Lo so è retorica di basso livello, perdonatemi.
Il tuo era un ruolo particolare, diciamo quello di un curatore “dietro le quinte”. Quanto era profondo il tuo intervento sulle storie?
Ho curato Dylan (come fosse mio figlio) dal 1993 al 2009. È stata un’avventura esaltante e ci ho messo l’anima. Il problema più grosso è stato sostituire Sclavi, sia come autore che come curatore e supervisore. Scrivere le rubriche di tutti gli albi imitando il suo stile non è stato facile. E infatti non ci sono riuscito. E anche cambiare le battute di Groucho non all’altezza (o bassezza) è stato un impegno massacrante, forse più impegnativo che revisionare le storie. Ma credo di essermela cavata dignitosamente. Sostituire Tiziano come autore era impossibile e già in redazione vedevamo il baratro appropinquarsi. Per fortuna Chiaverotti viveva un momento creativo di grande splendore e sono arrivati a dare una mano Manfredi, Ruju e poi Paola Barbato. Il livello qualitativo delle storie si è mantenuto buono, anche se Tiziano era di un altro pianeta. Ma lui è Dylan Dog. Confesso che come curatore mi sono dato la zappa sui piedi. Ho proposto infatti i Maxi, e i Color Fest, albi extra che si sono aggiunti a quelli già esistenti (gli Speciali, gli Almanacchi, i Giganti) causandomi la perdita di anni di vita e dei capelli. Ma non me ne sono mai pentito (la calvizie mi dona). Devo anche dire che ho lavorato con collaboratori esemplari, professionisti di grande affidabilità e disponibilità che mai mi hanno procurato dei problemi. E spero di aver sempre fatto lo stesso nei loro confronti.
Che ruolo ti senti di aver ricoperto nel portare Dylan Dog da testata inizialmente poco seguita a quello di fenomeno culturale?
Io non ho avuto nessun ruolo. I meriti sono tutti di Sclavi.
Quando ho preso in mano la serie i giochi erano già fatti. Io ho gestito la discesa…
Che era inevitabile.
Ti va di parlare del tuo rapporto con Tiziano Sclavi e magari darci un tuo ricordo di Sergio Bonelli durante il periodo in cui Dylan faticava a ingranare nelle vendite, e convincerlo della validità del progetto?
Tiziano è il mio miglior amico. Da più di trent’anni. Lui ci ha pure scritto un paio di libri sulla nostra amicizia (Le etichette delle camicie e Non è successo niente). Leggeteli.
Sergio Bonelli mi manca tantissimo. È morto lo stesso giorno in cui si celebra la nascita di Dylan Dog, il 26 settembre. E ho sempre creduto che volesse significare qualcosa. Ma cosa, Giuda ballerino…
Intervista realizzata via mail il 14 agosto 2016
dany
17 Ottobre 2016 a 19:20
Il livello qualitativo delle storie si è mantenuto buono, anche se Tiziano era di un altro pianeta
è onesto, il vero dylan è quello dei primi 100 numeri di Sclavi. Il rilancio del recchioni invece è una roba apocrifa.