Dylan Dog: Dopo un lungo silenzio

Dylan Dog: Dopo un lungo silenzio

Sclavi torna sulla sua creatura. E ci ricorda, con una storia semplice, intensa e sentita, come si scrive Dylan Dog.

dyd-doposilenzio-img1Owen Travers, impiegato di infima categoria dedito più alla bottiglia che al lavoro, assume per indagare sulla presenza silenziosa che si è insediata nella sua casa: il fantasma della defunta moglie. L'inquilino di Craven Road accetta il caso, mentre il vero incubo della vicenda prende corpo: non una creatura soprannaturale, ma il tunnel dell'alcol in cui, per uno scherzo del destino, è ricaduto.

torna a scrivere su : di per sé questa è già una storia, anzi LA storia di Dopo un lungo silenzio.
Lo stesso titolo assume immediatamente una doppia valenza: narrativa, nel dualismo fra il mutismo della presenza in casa Travers e il suo gemello antitetico, il silenzio interrotto del demone della bottiglia; metanarrativa, nel ritorno, dopo nove anni, del creatore di Dylan Dog.
Data l'importanza dell'evento, la seconda accezione sembra dominare, anziché trasparire: la storia ne viene guidata, tanto che nell'ultima pagina il titolo ricompare, e Travers lo cita parlando di sua moglie, ma al contempo pare ricordarci il ritorno della musa ispiratrice per lo sceneggiatore.

dyd-doposilenzio-img5Il racconto è talmente imperniato su Sclavi, che lui stesso sceglie di centrarlo su un tema privato, intimo. Un argomento così personale si porta dietro una interpretazione emotivamente molto carica: lo scrittore cerca pertanto una risposta emotiva, prima che intellettuale, nel lettore.
Le vicende, parallele ma inverse, di Dylan e Owen, sono punteggiate da primi e primissimi piani che mirano quasi sfacciatamente a stabilire un rapporto empatico con i fruitori della storia. Sebbene in molti casi questo “appello alla pancia” possa far storcere il naso, si inscrive all'interno di una precisa scelta che si potrebbe definire “stile Sclaviano”: un approccio retorico che in questo numero appare al contempo evidente ma non ridondante.
Serve a raccontare questa storia specifica e questo mostro particolare.

Perché l'alcolismo, come molte (se non tutte le) malattie gravi, ha una sua base retorica molto forte. Ogni vittima di questo male sa che dovrà percorrere un cammino con una sua dinamica e tappe precise: come dice anche Dylan, è necessario toccare il fondo prima di rialzarsi, è necessario ripetere il mantra dei gruppi AA e trovare la forza attraverso stadi successivi prestabiliti.
La ridondanza è un principio che fortifica sulla strada per la guarigione.

Da questo punto di vista la parte apparentemente più didascalica, quella che vede Dylan rialzare la testa, andare alla riunione per la riabilitazione e poi parlare a Travers come se fossero in uno spot sui problemi del bere, è anch'essa necessaria perché inquadra una fase (trovare coraggio cercando di darlo ad altri) che trova una corrispondenza nella realtà. Una dichiarazione in apparenza prolissa, che accompagna il riscatto di Dylan e che rende al meglio, nella sua struttura quasi documentaristica, lo sbocco per tutto il dolore che, da inarticolato, sordo, chiuso in se stesso, si trasforma in volano per un insperato affrancamento.

“L'alcolismo è una malattia incurabile. Non esiste un rimedio, si può solo non bere più.”
“L'alcolismo è una malattia progressiva. Diventa sempre peggio con il passare del tempo.”
“E anche se smetti a lungo ma poi ricadi, gli effetti saranno devastanti nel giro di pochi giorni.”

Nessun filtro, insomma, nessuna frase fatta, sebbene possa sembrare il contrario.

dyd-doposilenzio-img4Se è improprio parlare di passaggi didascalici, la stessa struttura del numero è all'opposto della ridondanza: monolitica, nel suo affrontare l'obiettivo del racconto. Austera, perché contrariamente ad altre prove dell'autore, non si permette deviazioni o sottotrame laterali.
Anche le battute di Groucho, che in altri albi alleggeriscono la trama, qui sono pochissime e quasi sempre calate nel contesto. Il cliente del mese è uno specchio quasi pedissequo del disorientamento del protagonista: il primo cambio scena fra Travers e Dylan è sintomatico, replicando la stessa fondamentale richiesta “perché non parli?”, in un caso verso la moglie morta, nell'altro verso la ragazza del mese, Crystal.

Si respira una fortissima perdita di punti di riferimento, un male di vivere senza sbocchi: sono pagine dense, che fanno male. La moglie morta di Owen diviene la speranza di un fantasma, una speranza che l'indagatore dell'incubo amplifica: Dylan ha basato la sua vita sul soprannaturale e, mano mano che la storia procede, si accavallano le dimostrazioni che il soprannaturale è poco più di un trucco da prestigiatori.
Non c'è niente: niente in copertina, nessun fantasma, Groucho nei primi due interventi dice che “non è successo niente” e alla televisione danno il suo programma preferito, “nessuno”. Niente è una parola chiave ossessiva. La catarsi finale di Travers è un (terribile) tuffo nel niente. Retorico anch'esso, certo, ma che chiude la storia con una coerente nota di disperazione: “dopo un lungo silenzio” c'è un sollievo estremo, ma anche un'estrema sconfitta. E non riesce a combattere l'orrore, lo tiene solo a bada.
Il montaggio si adatta a questo nulla assordante: le scene, cinematograficamente, si legano senza parole o presentando didascalie con brevi pensieri del personaggio che subentra. Sono poche sillabe, riverberi spezzati dello shock per la caduta in un pozzo nero e senza fondo.

Per Sclavi la storia è una conseguenza dei personaggi, non il contrario.
Ce ne accorgiamo leggendo: se ci limitiamo ai comprimari creati per l'occasione, non c'è solo Owen Travers, di cui assorbiamo la disperazione. Padre Donovan compare per poche vignette, e sebbene incarni uno stereotipo, riesce al contempo a risultare interessante. Crystal sembra fare da cornice alle vicende, ma rinuncia ai cliché ormai radicati per le ragazze dell'indagatore, e sostiene Dylan, distante ma vicina, incarnando alla perfezione quelle presenze discrete che assistono un malato grave nella sua discesa agli inferi. Anche i due assistenti della Trelkovski (che visivamente strizzano l'occhio al film Insidious, e per nome fanno Stan e Oliver, sulla falsariga dei più celebri Laurel e Hardy), pur partecipando in maniera minima, risultano entrambi ben caratterizzati.
Lo sforzo è non limitarsi, per quanto possibile, alla sterile proposizione di comparse strumentali, ma dare loro una dignità, far percepire le vite oltre il racconto.

dyd-doposilenzio-img2I numerosi primi piani di , oltre a dipingere bene una situazione ossessiva, sottolineano questa spinta fortemente umanistica. La sceneggiatura originale in coda all'edizione cartonata ci permette di avere un'idea abbastanza precisa dell'apporto di Casertano all'albo.
Sclavi, non conoscendo in anticipo il disegnatore assegnato, scrive una sceneggiatura in full-script molto dettagliata, specificando il layout e fornendo molte indicazioni anche dal punto di vista delle inquadrature.

Non manca però di lasciare dei margini di manovra e Casertano li sfrutta al meglio, prendendosi anche la libertà di ignorare delle indicazioni specifiche in un paio di casi, confermandosi uno dei migliori interpreti dello stile Sclaviano: l'uso efficace ed espressivo delle inquadrature dall'alto e dal basso, con una esasperazione della profondità di campo in alcune vignette, la corposità dei neri che avvolgono e definiscono fisionomie e oggetti, la rinuncia frequente a rappresentare gli ambienti in favore di sfondi bianchi senza contorni o uniformi pozze di tenebra, conferiscono all'albo la giusta atmosfera.
Anche in alcune finezze di carattere più squisitamente narrativo, come l'uso del movimento delle foglie che favorisce la transizione da una tavola all'altra, dimostrano come Casertano non sia solo un mero esecutore di indicazioni specifiche ma un vero e proprio interprete (come un musicista di fronte allo spartito) in grado di donare i suoi accenti e le sue pause alla storia.
In questo contesto passano quasi inosservate alcune legnosità nella recitazione dei personaggi, o la tendenza a far perdere coerenza agli occhi sui volti, ravvicinandoli troppo nelle inquadrature frontali o disponendoli su un asse lievemente sghembo per i tre quarti.

Quello di Dopo un lungo silenzio è il ritorno del di Sclavi: l'unione organica fra due elementi apparentemente antitetici, una forte carica umana e una altrettanto intensa spinta “retorica”. Non è nulla di nuovo, se ci pensiamo: come struttura ed etica narrativa è dello stesso Dylan dei primissimi numeri. Può non piacere.
Ma quelli che non amano questo modo di raccontare, forse un po' kitsch, probabilmente non amano in generale.

Abbiamo parlato di:
Dylan Dog #362 – Dopo un lungo silenzio
Tiziano Sclavi,
Editore, ottobre 2016
98 pagine, brossurato, bianco e nero – 3,20 €

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