E infine arriva Ratigher
Una delle mosse a sorpresa della nuova gestione di Dylan Dog è stata quella di convincere alcuni dei più interessanti e promettenti autori del panorama indipendente o più autoriale a dare il loro contributo al personaggio, in modo di sfruttare la loro visione “alternativa” per dare nuovi punti di vista grafici e narrativi a un character prigioniero, per certi versi, delle sue peculiarità. Tra questi spiccano sicuramente i nomi di Rita Poretto e Silvia Mericone (già presenti nella precedente gestione)Ausonia, Akab, Marco Galli, Barbara Baraldi, Arturo Lauria e appunto Ratigher, al secolo Francesco D’Erminio.
D’Erminio, che fa parte del collettivo Fratelli del Cielo (ex Superamici), è un artista che, con titoli come Trama – Il peso di una testa Mozzata e Le Ragazzine, è riuscito a conquistare un importante seguito di pubblico e gran parte della critica di settore, diventando uno degli autori più ambiti del mercato italiano. Non è un caso quindi che Roberto Recchioni lo abbia corteggiato affinché divenisse uno degli sceneggiatori della testata regolare, visto la sua indubbia capacità di creare atmosfere malsane e paurose partendo da semplici spunti quotidiani.
L’episodio, che inizia con il simbolico affondamento della nave Eternal Hope, vede Dylan venire assunto dalla giovane e nevrotica Fiona Fenn, abitante di Port Frost (profeticamente scambiata da Groucho per Mary Smith, una delle superstiti del disastro del Titanic), per ritrovare la sua amica Molly Malachlan improvvisamente scomparsa. Arrivato al piccolo e sinistro paese, il protagonista si rende ben presto conto che un’ondata di violenza inconsulta sembra attraversare la cittadina portuale.
Il mio nome è Dog, Dylan Dog
Stupiscono immediatamente alcune scelte di D’Erminio, che prende possesso della figura di Dylan e si diverte a renderlo protagonista ingenuo di un’avventura demodè, fuori dal tempo definito, spingendo al limite le sue caratteristiche principali fino arrivare al limite del parossismo. L’amore per gli animali, le donne, le battute fuori luogo o ancora il cieco coraggio che lo porta a sfide impossibili. Il tutto raccontato attraverso dialoghi surreali, proverbi popolari e un insieme di frasi fatte, trite e ritrite che portano la storia verso la parodia consapevole e compiaciuta, che culmina nello scambio di battute dette appena prima di affrontare l’inferno a mani nude:
“Si può sapere chi sei ragazzo?”
“Dylan Dog. Indagatore dell’incubo.”
Allo stoico Dylan, unico punto fermo di una sanità mentale vacillante, si contrappone lo sfuggente personaggio di Fiona che, pagina dopo pagina, sembra perdere la propria identità per fondersi con quella della scomparsa Molly in un gioco di rimandi che ricorda il celebre Mulholland Drive di David Lynch, film simbolo della vacuità delle percezioni. Percezioni che sono continuamente messe alla prova dal racconto, labirintico e ricco d’indizi fuorvianti (e falsi), e dal folle paesino i cui i muri recano le scritte “kill kill Molly’s Lips” versione distorta di un verso di Molly Lips dei The Vaselines poi rifatto dai Nirvana, e che recitava originariamente “Kiss Kiss Molly’s lips“.
La perdita delle proprie radici
Lo sceneggiatore, in apparenza, mette in scena una rappresentazione dei nostri tempi feroci, dove nemmeno il “puro” paese di Port Frost può sfuggire al male e alle esagerazioni della vita moderna. Incesto, sesso di gruppo, pulsioni masochiste, portatori di handicap che cercano rivalsa su persone ancora più sfortunate di loro e uno stordente funerale celebrato da un gruppo di Hooligans al ritmo dei cori da stadio, sono solo alcune delle facce di un’umanità che non ha più bisogno di cercare inferni sul fondo del mare.
In realtà la popolazione preda della follia indotta dalla vista del mare, a loro così intimo e conosciuto, tramutato improvvisamente in una landa secca e desolata, sembra nascondere un secondo messaggio. Proprio in questo punto, infatti, uno dei comprimari della storia afferma riferendosi al mare:
“È come guardare il viso di una persona cui si vuol bene, che si ama, di cui si ha fiducia e che si conosce da anni, ma privata dei connotati e con orribili ferite a sfigurare il suo volto vuoto.”
Una frase che coincide con un’illustrazione del volto di Dylan che, allo stesso modo del mare, appare deturpato, devastato e irriconoscibile.
Non più la figura che abbiamo imparato ad amare in tutti questi anni di avventure, ma un involucro che non contiene più quella scintilla creativa che lo ha contraddistinto per un lungo periodo. Anche nel finale amaro, in cui un particolare importante si lega alla tavola iniziale prima citata, troviamo forse il principale (o almeno uno tra i tanti possibili) significato dell’episodio. Non basta riporre fiducia illimitata nella speranza, nella fede, aspettando che le cose possano sistemarsi da sole, ma bisogna sforzarsi di trovare una soluzione. Il Dylan fin troppo ingenuo della prima parte del racconto lascia spazio a un protagonista tristemente conscio dei problemi che lo affliggono, in primis della sua identità smarrita. Una soluzione ai suoi problemi o anche un messaggio per noi? Probabilmente un insieme di queste cose, un messaggio trasversale che può essere interpretato in modi infiniti.
Alessandro “The King” Baggi
A illustrare questo suo primo episodio, Ratigher ha voluto fortemente Alessandro Baggi, che, dopo avere dopo avere disegnato l’albo gigante #21 di Dyd su testi di Andrea Cavaletto, esordisce ora anche sulla testata regolare del personaggio. Baggi, che può essere considerato uno degli artisti dallo stile più particolare e ricercato nel panorama italiano, unisce uno tratto personale dai neri, decisi e marcanti, e una plasticità delle figure che ricordano il grande Jack Kirby, il cui tratto è fonte costante d’ispirazione per sue illustrazioni (se guardate attentamente l’ultima tavola si può notare una copia di Kamandi galleggiare sull’acqua).
Baggi riesce a inserire le pesanti influenze kirbyane in modo intelligente e mai esageratamente invasivo, soprattutto nelle spettacolari sequenze finali. A un inizio un po’ anonimo, dove fatica a trovare la giusta fisionomia del volto di Dylan (una scelta per enfatizzare la perdita d’identità?) segue una fase centrale e di chiusura in un continuo crescendo artistico, che culmina in una stupenda sequenza a doppia pagina. Se da un lato è inutile nascondere quanto sarebbe stato interessante vedere l’albo disegnato dallo stesso Ratigher, bisogna ammettere che Baggi è riuscito a costruire un numero graficamente sorprendente.
Capolavoro mancato?
È sempre un grosso rischio accettare di mettersi al lavoro sulle storie dell’indagatore dell’incubo, la cui maggioranza dei fan, pur richiedendo spesso a gran voce un rinnovamento del personaggio, è spesso incline a storcere il naso davanti alle novità. Una delle più grandi ed eterogenee platee fumettistiche italiane, volubile ed esigente (di cui fa parte anche chi scrive) come lo è la tifoseria di una squadra di calcio, composta da gente capace di giudicare “oltre” le apparenze, ma anche da una grossa fetta di pubblico popolare, la cui lettura del mensile rientra nella classica ora di svago.
Il rischio aumenta quando viene proposta un’avventura come questa, ricca di spunti, sottotracce narrative e dalle diverse interpretazioni personali. Il mensile non è certo nuovo a questo tipo di storie sperimentali e autoriali, visto che nella fin qui sua lunga vita editoriale ha presentato perle quali “Storia di Nessuno” o il più recente “I raminghi dell’Autunno“. Ratigher però stupisce ancora una volta, portando verso vette inesplorate il personaggio di Tiziano Sclavi, rendendolo protagonista di una storia sovversiva la cui solo apparente normalità contiene una profonda e ricercata vena innovatrice, premiando la scelta di portare uno sceneggiatore così “estremo” su Dylan Dog.
Siamo quindi davanti a un capolavoro?
Forse no, ma per essere un albo di esordio D’erminio ha realizzato davvero un gran bel numero, profondo, sfaccettato e da rileggere più volte, che soffre forse di una certa difficolta tra il bilanciare la fase iniziale con la seconda metà dell’episodio. Senza lasciarsi imbrigliare esageratamente dal personaggio, con cui dimostra anzi un feeling notevole, è riuscito a creare un episodio che probabilmente esula da quanto visto finora sulla testata. Una storia dal forte sapore underground, che, davanti a una facciata di apparenza, difficilmente scende a patti con le stigmate del linguaggio bonelliano.
Giudicare i lavori di Ratigher è un estenuante esercizio di ricerca dei particolari, quei particolari in cui riesce nascondere l’orrore più subdolo e sottile.
Abbiamo parlato di:
Dylan Dog #351 – In fondo al male
Ratigher, Alessandro Baggi
Sergio Bonelli Editore, novembre 2015
98 pagine, brossurato, bianco e nero – € 3,20
ISBN: 9771121580009