Dopo quasi due anni di lavorazione, e accompagnato da una bella copertina con effetto argentato che celebra l’attesissimo appuntamento, raggiunge finalmente le edicole Profondo Nero, l’albo di Dylan Dog che vede ai testi il maestro dell’horror Dario Argento – coadiuvato dal suo collaboratore ed esperto sceneggiatore Stefano Piani – per le matite del decano Corrado Roi.
Un evento per certi versi epocale, dato che vede unite per la prima volta due delle icone che maggiormente hanno caratterizzato il panorama horror italiano a partire dagli anni ’70 – per quel che riguarda Argento – fino al nuovo boom degli anni ’90, nato proprio grazie al successo del personaggio creato da Tiziano Sclavi.
“Era solo questione di tempo!”, verrebbe da dire se ci si volesse far trascinare dal nostro entusiasmo di fan, dalle emozioni e dagli slogan; proprio perché un simile incontro rappresenta quello che in passato era visto come un sogno davvero proibito. Peccato che – come era lecito sospettare visti i recenti flop del regista, il fatto che non abbia mai scritto o si sia mai occupato in prima persona di fumetti, e visto il tono delle storie del moderno Dylan Dog, ormai privo di Sclavi – dopo la lettura l’unica certezza data al lettore sembra essere che di tempo ormai ne è passato troppo, consumando ogni cosa nel suo percorso, e facendo appassire tutto ciò che poteva rendere significativo questo evento.
Il risultato, dunque, è un albo che di epico ha davvero poco, e che – pur se piacevolmente adatto a chi ama simili appuntamenti, che peraltro è giusto e doveroso vengano esaltati – si rivela un incontro solo di facciata, privo di qualsiasi elemento capace di renderlo in qualche modo speciale. Certo, abbiamo la copertina d’argento, che però si limita a citare nel modo più ovvio non la figura del regista, non il suo lavoro, non il suo stile, ma solo un cognome che semplicemente si presta al banale gioco di parole. E avremo probabilmente sketch, interviste, stralci di sceneggiatura o work in progress che troveranno un giusto spazio in una futura edizione di lusso; ma quelli che sembrano mancare sono proprio gli elementi che più erano necessari in un’operazione del genere: i contenuti.
Sarebbe stato infatti più meritevole e sensato un tentativo qualsiasi di rendere l’appuntamento unico non solo con piacevoli effetti grafici, ma cercando di sfruttare al meglio le professionalità e le caratteristiche degli autori coinvolti, come ad esempio la visionarietà di Argento legata allo stile onirico di Roi. Magari sfuggendo per una volta dalla gabbia Bonelliana e dalle logiche seriali delle sue trame; magari creando una storia ibrida tra fumetto e racconto; oppure confezionando un albo di formato diverso o con più pagine. Dando modo insomma al regista di trovare una sua via comunicativa e personale anche in una storia a fumetti. Il tutto considerando che il cambio di media non può che vederlo partire svantaggiato, fuori contesto – logicamente senza che gliene possa essere attribuita alcuna colpa – e privato di elementi come musiche, fotografia e movimenti di camera che sono state parti essenziali del suo genio.
Invece, Profondo Nero si rivela un modestissimo episodio da serie mensile, identico agli altri e neppure particolarmente brillante. Un racconto del tutto comune e popolato di personaggi di poco peso – al punto che neppure il bravo Roi è riuscito a caratterizzarli in modo efficace, rendendo difficile anche solo distinguerli – impegnati in un giallo dai fascinosi ma vaghi elementi soprannaturali che parte a stento, mostrando un erotismo troppo velato per rimanere impresso o per avere importanza, e affonda ben presto in stereotipi e inutilità. La storia poi prosegue solo grazie a deus ex machina improbabili e a tratti illogici, che rendono poco incisivi anche gli unici spunti potenzialmente validi, afflosciandosi in un finale di generica redenzione.
Di Dario Argento vediamo solo alcune tracce, ad esempio in una scena che ricorda i suoi visionari omicidi, e il racconto ci trasmette anche altri elementi più o meno tipici del pensiero del regista, come il suo amore per l’arte e per le inquietudini che essa porta con sé, la morbosità del sesso sadomaso, i traumi che derivano dall’infanzia, uniti all’interessante concetto del Whipping Boy inglese, che in epoche passate veniva punito ogni volta che il suo padrone di nobili origini – e quindi intoccabile – compiva una cattiva azione. Peccato che tali elementi si presentino diluiti e annebbiati, dallo sviluppo scarso o inesistente, e quel che è peggio a tratti “modernizzati” tramite tragici riferimenti a triti blockbuster cinematografici e letterari moderni e di basso profilo artistico (escluso il bel film Secretary diretto da Steven Shainberg).
In casi come questi, quando le mani al lavoro su una storia sono due o più, è difficile capire chi abbia fatto cosa, da chi siano nati gli spunti, di chi sia l’idea iniziale e come essa si sia evoluta. Quando poi a scrivere abbiamo una “personalità”, fare supposizioni è tanto facile quanto soggetto a errori. E quando, ancora prima di leggere, si ha il sospetto che da un albo simile sia lecito non aspettarsi niente di particolare, o che l’apporto dell’ospite famoso sia stato marginale, si può finire per mettere in luce più o meno consciamente solo gli aspetti che rafforzano le nostre teorie. È molto difficile, dunque, esaminare un soggetto che in maniera innocente o colpevole può portarci a essere più severi di quello che vorremmo o dovremmo essere.
Detto questo, però, quella che pare essere la realtà oggettiva è che Argento ha strutturato una trama lineare e perfettamente in linea con il mensile di Dylan Dog; ma poco interessante, che non gli ha permesso di esprimersi al meglio, ma anzi ha giocato a suo svantaggio per via delle tante debolezze. E non è servito neppure l’aiuto alla sceneggiatura di Stefano Piani, del quale pare evidente soprattutto il tentativo di rendere il lavoro più moderno e adatto al titolare della testata. Personaggio che non pare probabile Argento possa conoscere così bene.
E, stranamente, forse uno dei problemi di Profondo Nero è proprio questo: lo sforzo di ricondurre il racconto originale alle logiche superficiali del più classico albo di Dylan Dog. Logiche che comprendono un certo tipo di avventura investigativa sui generis, l’uso di stereotipi narrativi, elementi soprannaturali e romantici, critiche sociali, o la presenza di personaggi come un Groucho con le sue battute, una Irma, un Carpenter, una Raina, che – mentre in altri numeri sono stati poco sfruttati, o comodamente dimenticati a seconda delle necessità dei vari sceneggiatori – compaiono proprio qui dove meno ci sarebbe bisogno di loro, dove sarebbe stato forse più utile lasciare spazio alla personalità artistica del regista, ai suoi mondi, alle sue ambientazioni, alle sue idee, che risultano invece perse tra le pieghe di una narrazione seriale forse desiderosa di mostrare una rispettosa aderenza al mondo creato da Sclavi, ma che – come paradossale effetto collaterale – ha lasciato spazio a poco altro.
Se i personaggi fossero stati incisivi ci saremmo comunque accontentati, ma non lo sono. Se la trama gialla fosse stata interessante saremmo rimasti comunque soddisfatti, ma non lo è. E se almeno gli snodi narrativi fossero stati logici… anche in questo caso non avremmo storto troppo la bocca (ma è possibile che davanti a quello che viene pubblicizzato come un grande evento sia sempre necessario accontentarsi?). Ma quasi niente di questo ci è stato offerto.
Purtroppo la recensione impone di non fare spoiler, ma va citata perlomeno l’amica della modella scomparsa, la quale, visto che la sua amata manca di casa da 10 giorni e non ha più dato notizie, e visto il tipo di clientela dai gusti perversi e violenti della quale lei si occupa, decide che invece di denunciarne la scomparsa è meglio sostituirsi a lei nel lavoro cercando di guadagnare qualche soldo. Poi si scopre di colpo preoccupatissima al punto di invitare Dylan a cercare la povera amica. Ma quando questa sembra ricomparire davanti alla porta di casa decide che no, tutto sommato non conviene inseguirla con Dylan, ma è meglio rientrare a lavare i piatti. Per non parlare di una famosissima modella sadomaso, da tutti conosciuta e col corpo solcato di cicatrici, una che “se fosse stata qui ce ne saremmo accorti tutti” (cit.), che però può essere tranquillamente sostituita dalla sua coinquilina a una fiera del BDSM senza che nessuno, nemmeno il tizio che l’ha assunta, se ne renda conto. E questo, anche se secca dirlo, è solo la punta dell’iceberg di una storia nella quale l’unica cosa viva è lo sforzo di darle un senso, ma che si riduce in scene pretestuose in cui sembra di udire solo il cigolio di ingranaggi che stentano a mettersi in moto.
Più che un a giallo con una sua logica e una sua naturale evoluzione, composto di vari elementi coesi che – sollevati uno a uno – finiscono per mettere in luce il cuore del racconto, quella a cui assistiamo è una trama “al contrario”, che parte da un nocciolo trascurabile e si sforza di aggiungergli intorno strutture che la rendano più ricca, nella quale molte pagine sono occupate nel tentativo di inserire misteri e false piste in un racconto altrimenti lineare. Tutti elementi superflui o poco logici, che sembrano esistere solo per far avanzare la storia di altre dieci pagine, perlomeno fino all’inserimento del pretesto successivo o delle scene visionarie che forse Argento aveva previsto in fase di soggetto, ma che non bastano da sole a salvare la trama, non potendo neppure distrarre lo spettatore con la forza delle loro immagini come sarebbe accaduto in un film.
Il coinvolgimento di Dylan avviene in maniera estremamente forzata, ed è oltremodo seccante accorgersi alla fine del racconto che la sua presenza aveva pochissimo senso all’interno della trama, non è servita a salvare nessuno ma anzi in un caso addirittura a condannarlo, rivelandosi in pratica assolutamente inutile o deleteria.
In realtà non è la prima volta che qualcosa del genere accade, in passato Dylan ha assunto spesso il ruolo del testimone inerme, e questo va detto; ma mentre nelle vecchie storie il suo ruolo era volutamente passivo, quello di un uomo che rappresenta la prospettiva del lettore e che si trova davanti a eventi che non può in alcun modo condizionare, qui invece la passività è data solamente dall’estrema futilità del tutto.
A questo si può solo aggiungere la presenza di trite filippiche contro la società e contro il governo; contro il “servizio ambulanze” che “ ti mette in attesa” (cit.); contro i poliziotti che per un nonnulla ti sbraitano addosso come macchiette; e soprattutto contro i ricchi e i nobili, condannati all’infamia scomodando addirittura Giuseppe Parini. Ma se Parini, pur critico con la nobiltà “malata”, ne riconosceva il valore e l’utilità, in questo caso le sue parole servono a illustrare solo un demagogico e vago disgusto degno del peggior populista, e indegno di Dylan Dog.
Giunti a questo punto, l’unica certezza dell’albo sembra essere rappresentata da Corrado Roi, che porta a casa la storia da par suo, senza apparente fatica, continuando a proporci il suo stile fatto di gotica eleganza, sfumature inquietanti, un quasi sempre valido controllo dei personaggi e delle scene (a parte lì dove si fatica a capire chi sia chi, ma forse qui la colpa è anche del racconto), e una sempre maggior padronanza nel fornire al lettore sguardi inquietanti e seducenti, forse in questo numero il cuore di tutta la sua rappresentazione. Neri decisi, ombre nette e sfumati emozionanti offrono un efficace campionario degli elementi che – ripetuti pedissequamente per anni – da sempre fanno la gioia dei suoi fans, e che si ritrovano qui in modi puntuali, anche se più trattenuti rispetto ad altre sue prove recenti, risultando normalizzati se si prova a paragonarli al potente exploit della miniserie UT nel quale il disegnatore ha dato il meglio di sé. Un peccato soprattutto che rimangano sullo sfondo le inquietanti ed erotiche immagini BDSM con le quali Roi sembra trovarsi molto a suo agio per sua natura d’artista, e che arricchiscono di molto un segno forse qui, proprio come per la storia, legato da certe necessità di serialità che dovevano essere dimenticate.
Cosa rimane, dunque, alla fine della lettura di Profondo Nero?
Uno: la sensazione che senza le impalcature del cinema, e alle prese con una trama d’investigazione, Argento si riveli un giallista di poco conto – concetto peraltro sostenuto da tempo dai suoi detrattori – che ha avuto come unica vera arma l’inserimento di visionarietà e coreografiche violenze nei suoi film, e che trovandosene privato ha molto poco da dire.
Due: la consapevolezza che Argento – sebbene forse in modo volontario, anche se l’impressione generale è che si sia voluto o dovuto “proteggere” regista ed eroe da possibili elementi narrativi non graditi – sia stato troppo limitato da un media che non è il suo, e da un personaggio descritto in modo ingombrante, al punto da non evadere da nessuno dei propri cliché.
Tre: l’impressione di aver letto una storia qualunque, particolarmente debole nella struttura gialla, ben dialogata ma non particolarmente riuscita, che se non fosse stata presentata col grande nome di Argento in copertina sarebbe forse stata relegata in un Dylan Dog Maxi insieme ai prodotti “minori”. Quattro: la triste certezza, infine, di non essere stati testimoni di un evento storico (forse lo sarebbe stato se la storia fosse stata scritta quando entrambi i protagonisti erano al loro apice) quanto di una rapida parentesi fragile, debole, assolutamente non sfruttata rispetto a ciò che poteva offrire. Un incontro trascurabile e facile da dimenticare, nel quale nessuna delle parti in causa ha saputo o voluto farsi valere, ma del quale entrambi i protagonisti potevano in definitiva fare a meno.
Un Dylan Dog da leggere e mettere da parte, dunque, senza pensarci troppo. L’unica possibile consolazione rimane il fatto che tale parentesi non può minare due carriere in passato riuscitissime: Dylan rimane il grande personaggio che è stato, e Argento il grande regista che ha segnato un’epoca del fantastico italiano, e che per questo merita tutto il nostro rispetto.
Abbiamo parlato di:
Dylan Dog #383 – Profondo Nero
Dario Argento, Stefano Piani, Corrado Roi, Gigi Cavenago (copertina)
Sergio Bonelli Editore, luglio 2018
96 pagine, brossurato, bianco e nero – 3,50 €
ISBN: 9771121580020
Ste
6 Agosto 2018 a 15:22
Profondo nero è uno tra gli albi più riusciti negli ultimi anni.
Fossero stati tutti di questo livello, avrei continuato a comprare dyd, che invece ho abbandonado 10 anni fa.
Anche Argento “scrive” benissimo, al contrario dei pessimi film che ha girato ultimamente
Totalmente in disaccordo con la recensione.
la redazione
6 Agosto 2018 a 16:17
Rispettiamo l’opionione e i gusti di ognuno. La recensione cerca di giustificare e motivare le opinioni espresse, non certo di imporle :)
Abbiamo anche in redazione preferito altri albi anche recenti, rispetto a questo.
Luchino
17 Agosto 2018 a 10:41
Totalmente d’accordo con la recensione per quello che mi riguarda.Slegato e con poco filo logico non sono stato minimamente coinvolto nella lettura.Anche i disegni peraltro belli fanno si che i volti si assomiglino tutti rendendo difficile l’interpretazione.Se Dario Argento ci ha messo due anni capisco perfettamente il suo inarrestabile declino artistico.
Lucius
12 Dicembre 2018 a 05:37
Totalmente in disaccordo. Uno dei numeri più belli di Dylan Dog. Scorrevole, ben disegnato e pregno dello stile argentiano. Un lavoro ben fatto, ma pare che vada di moda sparare contro Argento.
la redazione
12 Dicembre 2018 a 08:19
La recensione motiva in maniera dettagliata il giudizio, ridurre tutto a “sparare contro Argento per moda” ci sembra un poco ingeneroso. Una critica è uno spunto di riflessione, una visione personale frutto della propria esperienza, sensibilità e cultura, espressa in modo da essere comprensibile e chiara a più persone possibile. Accettiamo osservazioni nel merito, ma non ci piace spostare la discussione verso altro che niente ha a che fare con la recensione stessa.
Buone letture!