Nato a Sassari nel 1969, dal 1995/96 Bruno Enna inizia a collaborare con la Disney scrivendo sceneggiature per diverse testate (tra cui Topolino, W.I.T.C.H., PK – Paperinik New Adventures), redazionali e servizi per vari inserti settimanali, nonché per le sezioni licensing e libri. Collabora anche con le Edizioni IF. Nel 1999 crea, con Mulazzi, Fasano e Barbucci, il personaggio disneyano Paperino Paperotto. Negli anni successivi, oltre a collaborare con la Disney (scrivendo, tra l’altro, per la serie a fumetti Monster Allergy), partecipa a Lys (Tridimensional) e supervisiona la serie Angel’s Friends (Play Press). Sceneggia poi per due serie di animazione televisive: Winx Club e Monster Allergy (Rainbow). Nel 2010 lavora per le edizioni francesi Soleil, pubblicando l’albo Coeur de papier, disegnato da Giovanni Rigano. Inoltre, è co-creatore, insieme a Greppi, Di Genova e Lucchetta, della serie di animazione televisiva Spike Team, in onda sui canali RAI. Ha fatto il suo esordio presso Sergio Bonelli Editore nel 2004 con una storia di Dylan Dog, L’uomo di plastica, pubblicata nel settimo Maxi Dylan Dog. Sempre lo stesso anno, Fumo di China gli ha assegnato il premio come miglior sceneggiatore umoristico. È stato l’ideatore di Saguaro, serie pubblicata dalla Bonelli tra il 2012 e il 2015. Attualmente scrive per Topolino e Dylan Dog.
A lungo si è pensato a un Dylan Dog indissolubilmente legato a Sclavi. Per te è ancora così nelle “fondamenta” del personaggio? Come ci si muove nell’equilibrio tra ciò che Dylan Dog è nella interpretazione del suo “padre” e tra quello di personale che un autore cerca sempre di mettere nelle sue opere?
Credo che Dylan sia di Sclavi, al cento per cento. Lui stesso, però, ha creato un personaggio dalle mille sfaccettature. Il risultato è che non esiste un solo di Dylan ma ne esistono infiniti. In questo senso, Dylan è davvero di tutti noi (lettori e autori). Ci sono persone che adorano il Dylan di Johnny Freak e altre quello de Il lungo addio (io, per esempio, faccio parte della seconda categoria). Quando si scrive per Dylan bisogna tenere conto di tutto ciò che c’è stato e poi… guardare avanti. Il personaggio non si è mai cristallizzato, ma è in continua evoluzione. Il bello di Dylan è anche questo.
Qual è l’idea centrale del “tuo” Dylan Dog e cosa lo rende immediatamente riconoscibile e unico?
Non saprei. Forse un certo tipo di stile narrativo e di messa in scena. Per il resto, cerco sempre di rimanere fedele al personaggio.
Dylan Dog è stato un fenomeno artistico, editoriale e sociale. Nel suo periodo di maggiore successo è stato protagonista di pubblicità, merchandising, ha generato bizzarri epigoni, è stato ospite di riviste a larga diffusione. Sembrava che tutti leggessero Dylan Dog. Come ci si approccia a un personaggio e a un fenomeno del genere senza esserne schiacciati? Fa paura scrivere Dylan Dog?
Io ho cominciato a scrivere vent’anni fa, per Topolino, che è un personaggio altrettanto iconico (con alle spalle una storia molto più lunga). Quindi, no: non mi fa paura. Anzi, per me ogni volta è come un “ritorno a casa”. Come voi, infatti, anche io sono un lettore di Dylan della prima ora. Sono cresciuto con le sue storie e mi sento onorato di poter fare un pezzo di strada insieme a lui.
C’è qualcosa che cambieresti in Dylan Dog e qualcosa a cui non rinunceresti mai?
Non rinuncerei mai al suo “Giuda ballerino”. Per il resto, Dylan può cambiare oppure tornare a essere uguale. Anche questo aspetto fa parte della sua singolarità.
Che ruolo ha avuto Dylan Dog nella tua vita?
Dal punto di vista umano, è stato basilare: mi ha suggerito molti spunti su cui riflettere. Ancora oggi riesce a toccare particolari corde del mio animo.
Se dovessi scegliere un momento o un episodio che ha caratterizzato la tua produzione su Dylan Dog quale sceglieresti?
Ho sempre scritto in base all’ispirazione, senza un obiettivo preciso. Se però dovessi scegliere un momento, isolerei quello che mi ha portato a realizzare il “gigante” #14 sui “cerchi nel grano”. La sua realizzazione mi era stata proposta dalla redazione come una sfida, che io ho raccolto con piacere (e che spero di aver vinto).
Se dovessi fare un bilancio del lavoro su Dylan Dog, sarebbero più le soddisfazioni o i problemi?
Le soddisfazioni. Quando vedi una tua storia disegnata da Celoni, Mari o Freghieri, come fai a non rimanerne soddisfatto?
Dylan è sempre stato un personaggio con una forte aderenza al sociale, le sue storie spesso si sono fatte carico di messaggi sui diritti, l’uguaglianza, la pace, il rispetto per gli animali… Questo pone l’attenzione sul tema della responsabilità dell’autore nei confronti delle sue opere. Che cosa significa per te questo tema, in particolare per Dylan Dog?
La responsabilità fa parte del nostro mestiere. Non possiamo scrivere tutto quello che ci viene in mente: abbiamo dei paletti da seguire e delle regole da applicare. Dylan si comporta secondo coscienza (al di là della morale o dell’ipocrisia generale) e credo che sia la coscienza di tutti, quella suggerita dal buonsenso.
Rendere l’orrore è difficile. La paura, l’irrazionale. Ci sono tante sfumature del genere in Dylan, commistioni. Lo stesso genere è cambiato molto dagli anni ’90 a oggi. Che cosa significa scrivere un fumetto horror oggi? Come evolve Dylan Dog in questo?
Credo che Dylan non sia un fumetto horror… almeno, non nel senso pieno del termine. I film di oggi puntano spesso all’effettaccio (penso per esempio al cosiddetto effetto “jumpscare”, difficilmente riproducibile in un fumetto), mentre nelle storie di Dylan si punta di più verso l’inquietudine, il disagio, e un sottile senso di paura che non è mai superficiale. Diciamo che, per scrivere Dylan, è necessario documentarsi, ma senza per forza seguire le mode del momento. Penso che sia anche questa, la chiave del suo successo.
Intervista realizzata via mail a settembre 2016.