
Intervista a Alessandro Bilotta

Le caratteristiche di Dylan Dog sono emerse nelle storie di Tiziano Sclavi. Oggi è legittimo e imperativo attualizzare i temi e i modi, ma per me è necessario riferirsi a quel mondo e a quelle atmosfere perché Dylan Dog continui a esistere come personaggio e non sia solo un contenitore di improbabili soggetti orrorifici.
Dylan Dog è un fenomeno artistico, editoriale e sociale. Nel suo periodo di maggiore successo è stato protagonista di pubblicità, merchandising, ha generato bizzarri epigoni, è stato ospite di riviste a larga diffusione. Sembrava che tutti leggessero Dylan Dog. Come ci si approccia a un personaggio e a un fenomeno del genere senza esserne schiacciati? Fa paura scrivere Dylan Dog?
È importante capire quale sia stato il motivo di quel successo, o meglio quali siano state le storie che hanno fatto scoccare la scintilla e perché. Io ho la mia idea e cerco di andare in quella direzione, proponendo la mia visione.
Qual è l’idea centrale del “tuo” Dylan Dog e cosa lo rende immediatamente riconoscibile e unico?
Per me Dylan Dog deve andare a fondo nelle questioni della nostra esistenza, chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo. È da lì che nasce ogni nostra paura.
Hai esordito come sceneggiatore per l’Indagatore dell’incubo nel 2007. Come sono cambiati da allora a oggi il tuo approccio e la tua interpretazione del personaggio e delle tue storie? Come è maturato il tuo modo di scrivere Dylan Dog e come farlo ti ha influenzato negli altri tuoi lavori?
La mia visione di Dylan Dog è rimasta la stessa, quando ho cominciato a lavorarci ero già un lettore fedele, quindi avevo un’idea definita. Penso che prima ancora della scrittura, la lettura delle storie di Tiziano Sclavi abbia influenzato il mio modo di vedere il fumetto.
Hai dichiarato in più occasioni che che Tiziano Sclavi è uno degli sceneggiatori che più ti hanno influenzato nel tuo lavoro. In quale aspetto in particolare ritieni di essere in qualche modo debitore a Sclavi?
Sclavi è stato il primo ad affrontare temi importanti, in modo complesso, in un fumetto dalle grandi tirature, e per di più, a far lievitare quelle tirature. Quei contenuti e quel coraggio sono stati un riferimento.
C’è qualcosa che cambieresti in Dylan Dog e qualcosa a cui non rinunceresti mai?
Toglierei ogni traccia di retorica, che è un male di cui il primissimo Dylan Dog non soffriva. Al contrario non rinuncerei mai alle sue insicurezze. Dylan Dog non è qualcuno che indica la strada giusta, è un individuo figlio del Novecento, pieno di grandi domande che restano senza risposta.
Che ruolo ha avuto Dylan Dog nella tua vita?
La lettura ha avuto un ruolo fondamentale nella mia vita, ed è sottintesa l’importanza che ha avuto la lettura dei fumetti. Con Dylan Dog, Sclavi ai miei occhi ha dato sacralità a quell’esperienza trattando temi inediti per un fumetto e facendolo con quell’intensità che lo caratterizzava.

Significa per me molta retorica. Solo in un secondo momento Dylan Dog è diventato un personaggio con “una forte aderenza al sociale”. Penso che lo scopo delle storie, semmai ce ne sia uno, non sia quello di lanciare messaggi.
Rendere l’orrore, la paura e l’irrazionale è difficile. Ci sono tante sfumature del genere in Dylan, molteplici commistioni. Lo stesso genere è cambiato molto dagli anni Novanta a oggi. Cosa significa scrivere un fumetto horror oggi? Come evolve Dylan Dog in questo?
Dal mio punto di vista, l’immaginario dell’orrore ha fatto il suo tempo, relegato soprattutto agli anni Ottanta e Novanta. Oggi lo trovo terribilmente datato, invecchiato molto male. Ma penso anche che Dylan Dog non sia mai stato figlio di quelle mode o di quel genere, penso che sia stato qualcosa di migliore e più importante, un racconto del presente, e del presente dovrebbe restare il testimone.
Intervista realizzata via mail nel mese di settembre 2016.
