Giovanni Di Gregorio nasce a Palermo nel 1973 e si trasferisce quasi subito a Vancouver (Canada). Passa poi diversi anni in varie parti d’Italia e d’Europa. Sin da ragazzo disegna vignette per riviste e quotidiani. Dopo un dottorato in Chimica conseguito tra la Francia e l’Italia, e un master in Cooperazione Internazionale in Spagna, decide di occuparsi di fumetto a tempo pieno. Dopo una breve collaborazione con la rivista Piccoli Brividi della Panini Comics, nel 2004 entra in Bonelli, di cui è uno dei più prolifici autori degli ultimi anni, con più di cinquanta sceneggiature all’attivo. Fa parte dello staff di Dampyr, Dylan Dog e Le Storie. È uno dei pochi sceneggiatori italiani che hanno spaziato dal genere bonelliano a quello disneyano, dalle serie animate ai cortometraggi, dal fumetto umoristico alla graphic novel. Tra le sue collaborazioni per il pubblico giovanile si ricordano Topolino, Monster Allergy e Lys. Ha pubblicato anche in Francia, Spagna e USA. La sua opera più conosciuta è Brancaccio – Storie di mafia quotidiana, disegnata da Claudio Stassi e tradotta in diversi paesi.
Intervista a Giovanni Di Gregorio
A lungo si è pensato a un Dylan Dog indissolubilmente legato a Sclavi. Per te è ancora così nelle “fondamenta” del personaggio? Come ci si muove nell’equilibrio tra ciò che Dylan Dog è nell’interpretazione di suo “padre” e ciò di personale che un autore cerca sempre di mettere nelle sue opere?
Sclavi ha dato così tante sfaccettature alla propria creatura da permettere a noi autori di esplorare – ed eventualmente arricchire – quelle che ci erano più congeniali. Nel mio caso sono stati la dimensione surreale, l’ironia, l’approccio sempre stupito e vitale dell’eterno ragazzo. A volte Dylan è stato uno specchio delle mie realtà, a volte una fuga.
Dylan Dog è stato un fenomeno artistico, editoriale e sociale. Nel suo periodo di maggiore successo è stato protagonista di pubblicità, merchandising, ha generato bizzarri epigoni, è stato ospite di riviste a larga diffusione. Sembrava che tutti leggessero Dylan Dog. Come ci si approccia a un personaggio e a un fenomeno del genere senza esserne schiacciati? Fa paura scrivere Dylan Dog?
Sto scrivendo la mia 44esima storia e non mi sono mai sentito schiacciato o intimorito. Casomai felice, perché avere tra le mani un personaggio come Dylan per uno scrittore è un regalo e una gioia. Dylan è vivo, autentico, e si muove in quel territorio brumoso dove tutto è possibile.
Qual è l’idea centrale del “tuo” Dylan Dog e cosa lo rende immediatamente riconoscibile e unico?
Non credo sia il mio Dylan a essere riconoscibile, quanto le storie che gli cucio addosso. Storie di testa, di scarti laterali, di incroci, di contrappesi, di sorprese, di filigrane robuste che accompagnano come un sottofondo l’intero episodio.
Sei entrato nel team di sceneggiatori della serie diversi anni fa. Come sono cambiati da allora a oggi il tuo approccio e la tua interpretazione del personaggio e delle tue storie? Come è maturato il tuo modo di scrivere Dylan Dog e come farlo ti ha influenzato negli altri tuoi lavori?
Ho iniziato più di dieci anni fa. Nelle ultime storie ho cercato di mettere più pancia e meno testa, di osare di più, di camminare senza guardare troppo la mappa: non so se ci sono riuscito. In generale, come credo succeda a molti, il mio modo di scrivere è evoluto di pari passo con la mia maturazione come persona.
C’è qualcosa che cambieresti in Dylan Dog e qualcosa a cui non rinunceresti mai?
Eliminerei la sua idiosincrasia al viaggio per scaraventarlo in posti lontanissimi, facendolo perdere tra gli stupa dell’Himalaya o nel delta dell’Okavango. Non rinuncerei mai alla sua ironia e alla sua profonda compassione.
Che ruolo ha avuto Dylan Dog nella tua vita?
Ha reso piacevoli ed emozionanti quelle migliaia di pagine, quelle migliaia di ore, che ormai rappresentano una parte importante della mia vita. Perché svegliarsi con la voglia di lavorare è una benedizione, e di questo gli sarò sempre riconoscente. A lui e ai fumetti in generale.
Dylan è sempre stato un personaggio con una forte aderenza al sociale e le sue storie spesso si sono fatte carico di messaggi sui diritti, l’uguaglianza, la pace, il rispetto per gli animali… Questo pone l’attenzione sul tema della responsabilità dell’autore nei confronti delle sue opere. Cosa significa per te questo tema, in particolare per Dylan Dog?
Non ho mai creduto che un messaggio di impegno civile fosse più prezioso di una sana risata, o di una porta spalancata nella mente del lettore. Altrimenti sarei rimasto a fare il cooperante internazionale in Nicaragua o in Kossovo. Quando ho avuto un tema da trattare l’ho fatto, non perdendo mai di vista la centralità della storia: Il re delle mosche, Lavori forzati, Il persecutore o Gli ultimi immortali sono degli esempi a proposito.
Intervista realizzata via mail nel mese di settembre 2016