L’educazione professionale di Vincenzo Filosa (seconda parte)

L’educazione professionale di Vincenzo Filosa (seconda parte)

"Raccontare la propria esperienza personale è la cosa più originale e onesta che si possa fare". Seconda parte dell'intervista all’autore calabrese, tra "Italo" e industria del fumetto in Italia.

Continua l’intervista a uno dei più interessanti fumettisti apparsi nell’ultimo decennio, Vincenzo Filosa. Da anni operatore a tutto tondo dell’editoria dei fumetti, è emerso solo recentemente come autore con una personalissima combinazione di stili provenienti da diverse culture fumettistiche: dal gekiga all’autoproduzione, dal manga seriale alla produzione indipendente italiana.

L’educazione professionale di Vincenzo Filosa (prima parte)

Il 2019, che per Filosa era iniziato con la buona accoglienza del progetto seriale Cosma & Mito (Coconino Press), si è concluso con la celebrata uscita di Italo (Rizzoli Lizard), tagliente e intensa graphic novel che inserisce un nuovo tassello al discorso già iniziato con Viaggio a Tokyo e Figlio Unico.

Italo - copertinaNella prima parte della nostra intervista ci spiegavi come, per te, il ritmo sia fondamentale, in quanto ogni lettore dà a ciascuna vignetta il tempo e l’attenzione che decide lui. E in Italo, l’altro tuo fumetto uscito nel 2019, il ritmo funziona molto bene.
In Italo mi sono sforzato molto affinché ciò accadesse. Ho inserito una voce narrante che ha la funzione di controcanto, messa lì per sputare bugie, pensieri in totale contrasto con quello che succede veramente nella storia. Il resto è affidato alla sequenza perché è la chiave per lasciare a ogni lettore la libertà di esplorare la narrazione a piacimento. Non ci sono altri modi per raccontare il reale a fumetti, almeno per me. Certo, non riuscirò mai a riprodurre fedelmente la realtà, ci sarà sempre quel margine di rielaborazione che coincide con le mie limitazioni tecniche. Nelle mie intenzioni il segno non deve essere espressivo, deve invece servire in ogni momento gli altri elementi che contribuiscono alla narrazione. Questo concede una maggiore libertà di interpretazione al lettore, perché quando lo indirizzi, anche con il segno, finisci per negargli il diritto a creare un pensiero indipendente.

Quanto c’è di autobiografico in Italo?
Direi abbastanza. Italo è nato da una semplice riflessione: com’è possibile che in Italia abbiamo tutte queste problematiche, anche patetiche? Perché Salvini è in Parlamento? Perché in Calabria si vota Salvini? Pensando agli aspetti negativi del nostro paese, sono finito a pensare a quanto di sbagliato c’era in me. Non cerco mai di esprimere pareri o opinioni, non voglio che i miei libri diano dei messaggi chiari, è un compito che affido volentieri, anzi doverosamente, al lettore. Ho anche pensato che raccontando le vicende degli altri, avrei rischiato di scadere nella retorica. C’è però un modo efficace per parlare di queste cose senza dare nessun tipo di opinione, ed è quello di raccontare sé stessi. Per me è stato facilissimo, perché Viaggio a Tokyo e Figlio Unico sono costruiti così. Per realizzare questo libro ho preso spunto da tutte le mie bassezze autobiografiche.
Poi la mia è un’autobiografia nei limiti del ricordo: non ricordo tutto benissimo, compresa la sequenza degli eventi – magari non si è verificata in quel modo, ma Italo è comunque tanta, tanta autobiografia.  Non sono mai stato un grande appassionato delle narrazioni storiche o biografiche, per esempio non riesco mai a trovare plausibili le sequenze che raccontano certi personaggi nei loro momenti intimi, perché di fatto sono frutto di interpretazioni e speculazioni. Quindi ricorro sempre all’autobiografia. Sono tanti gli autori che raccontano sé stessi ricorrendo alla fantasia. Io nella fantasia non trovo alcun riscontro pratico e se posso la evito. La fantasia ultimamente porta alla ripetizione e alla riproduzione, al già visto, è una conseguenza della globalizzazione e in particolare nel nostro settore e nel nostro paese c’è una tendenza inquietante a riprodurre mondi seguendo tendenze imposte dai paesi stranieri. In Giappone c’è un fumetto per ogni tipo di lettore, e c’è perché è naturale raccontare la propria vita, perché ogni vita è dignitosa e degna di essere raccontata. L’autobiografia è un mezzo per contribuire al dibattito sociale, raccontare la propria esperienza personale è la cosa più originale e onesta che si possa fare per esprimere un’opinione.Italo - Interno1

C’è stato anche un processo di elaborazione, di crescita, nel momento in cui realizzavi Italo?
Diciamo che la crescita avvenuta tra Figlio Unico e Italo è fondamentalmente di natura tecnica.  Forse una delle cose importanti che ho capito durante la realizzazione di Italo è l’importanza di essere davvero sinceri e accessibili. In Figlio Unico, e anche in Viaggio a Tokyo, c’è il filtro della cultura giapponese ma anche una certa disonestà emotiva e narrativa.

Sono scomparse le scene oniriche.
Esatto. In Italo sono sparite completamente. Avevo bisogno di eliminare il più possibile quello che era il mio sentire, per descrivere con onestà le mie azioni e di conseguenza me stesso.

Quanto hai impiegato per realizzarlo?
L’ho disegnato in cinque mesi e mezzo, da giugno a ottobre. In precedenza avevo però realizzato il canovaccio, avevo già in mente la struttura del libro. Io non scrivo sceneggiature o storyboard: ho delle scene ben precise in testa, che poi sviluppo senza fare piani troppo precisi. Questo perché lavoro continuamente alle scene, non le fisso mai. Anche quando mi è capitato di doverle preparare prima, non sono mai arrivate alla fine così come erano state concepite. Quindi ho deciso di non perdere più tempo in questo passaggio. Semplicemente, scrivo stendendo la gabbia e poi disegnando.

Avevi un numero massimo di pagine?
Non quando ho iniziato, ma c’è stato un momento in cui ho dovuto dare un numero di pagine definitivo. Avevo però già superato la prima parte del libro, ero quasi verso la metà e sapevo più o meno cosa sarebbe successo. Alla fine è andata bene: ho disegnato tutto quello che volevo disegnare, ho scritto tutto quello che volevo scrivere. Da questo punto di vista è il mio libro più riuscito. Anche Cosma & Mito doveva essere di 100 pagine, ed è finito di 130. Per Italo avevamo deciso che sarebbe stato di circa 176 pagine e così è stato.

Sei stato contattato da Rizzoli Lizard o hai proposto tu il progetto?
Con Lizard ho un rapporto “antico”, ho collaborato con questa casa editrice per anni in veste di traduttore e di grafico: avevamo già discusso della possibilità di fare un libro mentre stavo lavorando a Figlio Unico.

Italo - Interno2In Italo, e nella promozione social che stai facendo del libro, è presente una forte critica al sistema dell’editoria a fumetti – se non dell’editoria tout court. Quale pensi possa essere la soluzione alla situazione attuale?
In teoria la problematica principale è la sovraproduzione, ma non in senso assoluto. Nel caso di editori piccoli e medi, le loro strutture e le loro redazioni non sono in grado di reggere una quantità così enorme di titoli. Ciò vuol dire che spesso un lavoro non è seguito da un editor, che non viene promosso adeguatamente; in altri casi addirittura si porta avanti un progetto senza avere alla base idee chiare sul suo possibile posizionamento in libreria. Concepire un libro che non ha possibili ganci di interesse è un crimine. Un libro non letto è un libro che fondamentalmente non esiste e di conseguenza, per metterla nei termini del nostro amato Tsuge Yoshiharu, è un libro che non serve a nulla. Quindi prima di tutto ci vorrebbe una riflessione da questo punto di vista. Poi c’è il problema dei pagamenti: la sovraproduzione non è accompagnata da un investimento adeguato. Naturalmente la mancanza di risorse porta i collaboratori, e soprattutto gli autori, a non dare il massimo. Un autore che viene retribuito 1˙000 euro per realizzare un libro di 150 pagine non potrà mai fare solamente quel lavoro: si dovrà dedicare anche ad altro, dovrà concentrarsi sul suo “vero” lavoro, e di conseguenza non riuscirà mai a creare un prodotto qualitativamente competitivo, se non lavorandoci nell’arco di un lungo periodo di tempo. Non so se l’importazione massiccia di titoli stranieri contribuisca anche alla mancata diffusione e divulgazione del fumetto italiano, e soprattutto dei graphic novel. Però ci sono davvero tanti, troppo libri importati, troppi manga e quelli dei giovani autori italiani fanno sempre più fatica a emergere.
In Giappone non si importa, i manga soddisfano pienamente il bisogno del lettore giapponese. In Francia si importa tanto, ma si produce anche molto. Negli Stati Uniti si importa pochissimo e si esporta tantissimo. Da noi, semplicemente, si importa troppo e si esporta poco. Pensare che tutta la produzione Marvel venga pubblicata in Italia non ha senso; con i manga è ancora peggio. Ultimamente ho fatto delle ricerche sui manga commerciali e praticamente più del 70% dei titoli pubblicati in Giappone dalle riviste “mainstream” sbarca in Italia. Abbiamo veramente bisogno di tutti questi manga?
Questa invasione compromette la crescita del nostro settore. E se noi pensiamo alle potenzialità – per esempio a quello che ha espresso il fumetto di stampo supereroistico, ma anche autoriale, americano con trasposizioni cinematografiche, diffusione su tv e stampa nazionale – non so, magari abbiamo perso una buona occasione per creare lavoro e benessere attraverso la cultura.

Anche il fumetto indipendente statunitense ha spesso fatto il salto al grande schermo.
Sì, esatto. Questo in Italia non si verifica quasi mai perché non c’è una qualità tale da giustificare il passaggio. Bonelli, che ha una struttura più o meno in grado di reggere lo sforzo produttivo che compie, ha iniziato a spostarsi verso la produzione multimediale, sfruttando le sue proprietà intellettuali per film, serie, e così via. Nel fumetto d’autore ciò purtroppo non esiste ancora, perché mancano le adeguate risorse a supporto degli autori.
Pensa a un editore costretto dalla catena distributiva a produrre più di 40-50 titoli all’anno, che ha la fortuna di avere giovanissimi autori usciti dall’Accademia – o magari che vanno ancora in Accademia – che accettano di lavorare senza firmare un contratto. Oppure accettando un compenso di 1˙000 o 500 euro, da pagare a piacimento, perché non c’è neanche il rispetto delle tempistiche. Un editore che riesce praticamente a ottenere i libri in forma gratuita e che deve immetterli in un mercato che poi richiede di produrne immediatamente altri dieci, quanto tempo potrà investire in quel libro? Ma soprattutto, vuole davvero farlo? In fondo perché dovrebbe, visto che non ha speso nulla per ottenerlo? C’è una responsabilità davvero enorme anche da parte degli autori. Chiedere un contratto è fondamentale. Farsi pagare bene è necessario ed è necessario farsi pagare in tempi ragionevoli. Questo molto probabilmente spingerebbe anche l’editore a investire di più nella promozione di un dato libro.

Spesso sono gli stessi autori che non capiscono questo meccanismo.Italo - Interno3
Italo parla anche di questo: raccontare a un autore di vent’anni che cosa vuol dire essere un autore di graphic novel squattrinato a quaranta e con una famiglia a carico. Le prospettive sono quelle. E io lavoro anche tanto, in condizioni di lavoro spesso dignitose, non sono nemmeno quello messo peggio.

Hai mai pensato – o provato – la via della pubblicazione in Giappone? Non so se esiste una nicchia di autori indipendenti internazionali che vengono pubblicati.
Non ho nessun tipo di ambizione a riguardo, meglio non averne: il fatto che loro importino pochissimi prodotti mi spinge a pensare che non abbiano bisogno del mio lavoro.

Il tuo è uno stile “ibrido”, da sempre di difficile definizione. Spesso viene etichettato come gaijin manga dalle stesse case editrici per cui pubblichi, ricollegandosi ai lavori di Berliac e alla raccolta da lui curata per Kuš!, in cui compariva anche una tua storia. Al di là delle differenze di stile tra te, Berliac e gli altri autori etichettati come gaijin manga, c’è qualcosa in questa “etichetta” in cui ti ritrovi?
Siamo tutti appassionati di manga per adulti, anche di quello commerciale. Però io non ho più l’ambizione – in fondo non l’ho mai avuta – di essere considerato un mangaka. Da quando ho letto Tatsumi ho desiderato studiare, approfondire ed eventualmente utilizzare gli strumenti che lui utilizzava per raccontare il mio reale. Questo però non comporta la mia trasformazione in un mangaka. Non riesco a definirmi tale, perché non partecipo a quelle dinamiche produttive: essere un mangaka vuol dire fare 14-20 pagine a settimana per delle riviste. Preferisco tenere conto della mia realtà e studiare, avere presente quel tipo di strumenti per partecipare al discorso produttivo della mia area di provenienza.

Filosa presenta Sadboi di Berliac (novembre 2017)
Vincenzo Filosa e Berliac

Personalmente apprezzo il tentativo di identificare autori chiaramente influenzati dal manga, che lo elaborano però in maniera differente e personale. Quello presente nell’antologia di Kuš! è sicuramente un discorso interessante.
Secondo me, come etichetta utilizzata per distinguere quegli autori che partono dal Giappone ma che si differenziano dall’Euromanga, assolutamente: per esempio considero Berliac come un fratello, ma Berliac adesso disegna come un giapponese. Io no. Io sono molto legato alla scansione del ritmo, alla sequenza giapponese, mentre il suo interesse comprende tutto. Io non voglio rinnegare completamente la tradizione fumettistica del mio paese d’origine. Magari è solo una questione di pigrizia, non mi va di impegnarmi troppo per assomigliare a un giapponese. Credo poi che ogni libro debba essere il più originale possibile, che debba contribuire attraverso l’espressione delle proprie esperienze personali, e nient’altro, a un discorso più ampio: questa motivazione mi spinge a fuggire dalle etichette. Tutti gli autori che mi piacciono e mi ispirano sono difficili da raccontare per semplificazioni o per etichette: Tsuge Tadao non può essere definito un autore di gekiga, suo fratello Yoshiharu è un genere a parte. Anche Berliac è a suo modo unico: Sadbøi è un libro unico, figlio di un autore molto consapevole, spinto da una curiosità enorme e da un impegno e una dedizione ammirevoli.

Ultimissima domanda: come è stato accolto Italo nelle prime settimane di vita editoriale?
Per adesso con molto amore. Il libro è finito in molte liste del meglio del 2019 e una bellissima recensione di Alessandro di Nocera ne ha messo in risalto quelle che io credo siano le tematiche più interessanti. Durante un minitour nei capoluoghi di provincia calabrese ho potuto constatare di persona come Italo stimoli conversazioni molto urgenti e profonde sul nostro paese, sulla condizione umana e professionale dei miei coetanei. Non credo si possa chiedere di più a un libro. Fare fumetti poi non dà molte soddisfazioni in generale: tutti i fumettisti sanno che a prescindere dal successo di un libro appena realizzato, l’unica cosa certa nella vita è che bisogna farne immediatamente un’altro.

Intervista realizzata dal vivo e via mail a Milano, tra dicembre 2019 e gennaio 2020.

BIOGRAFIA DI VINCENZO FILOSA

Vincenzo Filosa (Crotone, 1980) è fumettista, traduttore dal giapponese e redattore, oltre che instancabile divulgatore della nona arte giapponese. Fin dall’infanzia lettore di fumetti e appassionato di serie animate giapponesi, lascia la Calabria per studiare Lingue e Civiltà Orientali all’Università La Sapienza, dove si specializza in giapponese. Sono gli anni in cui si dedica anche alla musica, suonando nella band Hiroshima Rocks Around. Come fumettista inizia invece nell’ambiente dell’autoproduzione, con varie collaborazioni tra cui Ernest, (Ernestvirgola), il progetto fondato insieme a Francesco Cattani e Sara Pavan. Nel 2006 si trasferisce per vari mesi in Giappone, dove scopre la scena del fumetto indipendente locale e i grandi maestri del gekiga. Oltre a Viaggio a Tokyo (2015) e Figlio Unico (2017), pubblicati da Canicola Edizioni, suoi lavori si possono trovare nella rivista š! (numero dedicato al gaijin manga) e nell’antologico La Rabbia (Einaudi Edizioni), dove firma una breve storia realizzata insieme a Giusy Noce. Negli ultimi anni ha collaborato sia con la redazione di Canicola che con Coconino Press, di cui ha curato la collana Gekiga e Doku.

Italo, educazione di un reazionario contemporaneo

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