Lo Spazio Bianco è lieto di ospitare il dialogo tra Nicola Galli Laforest e Vincenzo Filosa. Una bella e interessante chiacchierata/intervista per scoprire il lungo lavoro che ha portato alla nascita di Figlio Unico, il nuovo libro di Filosa edito da Canicola Edizioni. L’evento si è svolto a Modo infoshop di Bologna il 26 novembre 2017. L’incontro è stato curato da Canicola associazione culturale e si è tenuto in occasione dell’ultimo Bilbolbul. Festival Internazionale del fumetto
Edo Chieregato (Canicola Edizoni/Canicola associazione culturale): In occasione dell’uscita del nuovo libro di Vincenzo Filosa abbiamo chiesto a Nicola Galli Laforest, grande lettore, responsabile per Hamelin del progetto nazionale Xanadu di promozione alla lettura, appassionato della cultura giapponese e di autori manga come Mizuki, Tsuge così come lo è Vincenzo, di leggere il libro in anteprima. Nicola è anche un profondo conoscitore dell’adolescenza, e siccome Figlio unico è anche un romanzo di formazione ci sembrava il giusto interlocutore.
Figlio unico: Nicola Galli Laforest dialoga con Vincenzo Filosa
Nicola Galli Laforest (NGL): Vincenzo ha una gran scimmia sulle spalle, che è il Giappone: se in Viaggio a Tokyo non ha potuto fare a meno di metterne tanto, qui il Giappone gli è entrato come modalità narrativa. Figlio unico infatti è una storia assolutamente italiana, è la storia di una infanzia che diventa poi pre-adolescenza, poi adolescenza, poi giovinezza. È una storia famigliare, e una storia di un luogo preciso, che utilizza stilemi, trucchi e modalità narrative che Vincenzo naturalmente conosce benissimo: è infatti anche il traduttore che ha contribuito moltissimo a portare finalmente un certo tipo di romanzo giapponese da noi, è la voce dei due Tsuge, di Mizuki, di Taniguchi, di Tatsumi… insomma: i giganti del gekiga hanno la voce italiana di Vincenzo.
Vincenzo Filosa (VF): Un nano… [ride]
NGL: e per forza questa cosa veramente enorme lo segue. Anche se la copertina sembrerebbe dire tutt’altro, in Figlio unico la narrazione è quella di un romanzo realistico, che Vincenzo ha provato a risolvere, riuscendoci benissimo, utilizzando degli espedienti forse fantastici. Mi piacerebbe capire se il suo è un vero fantastico… ogni volta che leggo qualcosa di Vincenzo, dai primi racconti ai romanzi, vedo due elementi su tutto: una è la questione tecnica, di cui parleremo più avanti, la sua potenza narrativa, la capacità di utilizzare le immagini in sequenza in un certo modo, il ritmo – tra l’altro Vincenzo è stato anche musicista e credo che questo influisca molto –; l’altra è il suo… vorrei trovare una parola migliore, ma mi viene “serbatoio”, e da qui partiamo. Cioè è come se Vincenzo avesse addosso, come tutti noi, ma lui di più, una quantità d’immagini, di storie, di elementi che vengono dalla nostra vita, che ogni tanto cerca di dominare -utilizzandole talvolta come storie, o come obiettivo, come sfondo-, altre volte secondo me (spero che ad un certo punto mi fermi e mi dica “smettila di dire stupidaggini perché non è così”…)
VF: Stai andando alla grande!
NGL: … altre volte lascia briglia sciolta a quello che ha dentro, e questo ogni tanto lo frega! Nel senso che –volutamente- non sa cosa succederà, e a partire da quello che viene fuori lui riparte. Vedo tre tipi di serbatoi: da un lato c’è quello che mi sembra “esplicito”. Per esempio, Viaggio a Tokyo, che in tanti hanno letto e amato, è chiaramente basato su alcuni autori, che diventano anche la forma della sua storia. In Figlio unico ci sono delle parti del suo vissuto -ma non cadiamo nella trappola della sola autobiografia- ci sono delle cose che conosce che mette in primo piano, che sono: un certo rapporto con la famiglia, con il padre in particolare, un certo luogo, un certo modo di crescere. La seconda modalità di utilizzare questo serbatoio è il gioco con se stesso e con certi lettori, che scatena dei messaggi nascosti che possono dare più piacere e più gusto nella lettura, o che possono far scattare qualcosa: nelle prime pagine c’è un interno casalingo, un litigio familiare, e alle spalle ci sono delle maschere del teatro Nō, che non so se quella famiglia davvero aveva in casa, ma lì sembrano avere un rapporto diretto col padre e con la madre, come se ognuno di loro fosse connesso a quelle maschere, che hanno un significato particolare per chi le conosce, e via dicendo. Quindi tutta una serie di, chiamiamoli riferimenti, simboli, che servono per giocare un po’ con se stesso e un po’ col lettore. E poi c’è un terzo tipo di serbatoio: quello incontrollabile, che viene fuori quando lascia degli spazi vuoti, bianchi. Mi diceva che non usa praticamente storyboard, che è una follia, dal punto di vista narrativo, ma che consente, a chi ci riesce, di tirar fuori un’altra modalità di raccontare, perché ti dà delle strutture rigide all’interno delle quali però la tua testa e la tua pancia ti portano qua e là senza preavviso. Hai voglia di dire qualcosa?
VF: Grazie per la super introduzione. Parliamo subito di questo aspetto di improvvisazione, del mancato storyboard. Io non riesco a fare altrimenti, ma anche solo per motivi banali: non ho voglia di disegnare più e più volte la stessa cosa; inoltre ho l’esigenza, soprattutto in fase di scrittura dei dialoghi, di non lavorarli troppo. Mi piacerebbe che fossero il più possibile immediati e freschi e improvvisarli è l’unico modo che conosco per avvicinarmi al risultato che voglio ottenere. In ogni caso, ho sempre la fortuna di consultarmi successivamente con Edo, Liliana e i ragazzi di Canicola che possono sempre aiutarmi a sistemare aspetti che possono sfuggirmi di mano in momenti particolarmente tirati. Per questo libro in realtà, sebbene sia andato avanti sempre seguendo questa modalità molto semplice e immediata di lavoro, ho scelto di seguire alcune strutture già definite che mi aiutassero a dare un po’ di coerenza all’interno dei vari capitoli, perché poi la struttura della narrazione e della gabbia cambia per ognuno dei cinque capitoli. Ho fatto in modo che potessi cimentarmi in una specie di narrazione più disciplinata rispetto a quello che ho fatto in Viaggio a Tokyo. Entrambi i libri hanno avuto gestazioni complicate, sicuramente più lunga per Viaggio a Tokyo, perché per Figlio unico sapevamo già cosa aspettarci. Entrambi i lavori sono partiti da un punto per raggiungere una destinazione completamente opposta. Viaggio a Tokyo, per esempio, era stato concepito effettivamente come diario di viaggio, anche banalmente pensando ad autori come Delisle e ai vari diari di viaggio che erano già stati pubblicati per poi diventare tutt’altro. È la storia che mi guida molto spesso in questo tipo di decisioni. Ma la storia, nel mio caso, non potrà mai determinare il tipo di racconto che andrò a realizzare prima che io inizi a disegnarla perché, appunto, prende forma pagina dopo pagina. Da una parte abbiamo la fortuna di avere l’autobiografia come spunto iniziale, quindi almeno una cronologia degli eventi che poi non rispetto necessariamente, soprattutto in Viaggio a Tokyo. Dall’altra, a parte un piccolo canovaccio che posso utilizzare come guida, non ho mai effettivamente idea di cosa succede nelle due pagine successive a quelle che disegno in un dato momento. Di solito lavoro sempre sulla doppia perché m’interessa soprattutto la disposizione delle vignette all’interno di quello spazio, e nella doppia di solito sviluppo sempre una sequenza, una scena, e poi mi sposto direttamente all’altra.
NG: Io prima ti chiedevo del serbatoio d’immagini, di questi miti che hai e che tornano. Mi pare che il centro vero del libro sia proprio il ruolo di ciò che, entrando nella vita del personaggio, ha reso così il personaggio. Tutto quello che una persona si è “mangiata”, in termini di esperienza vissute, di cose viste, eccetera, lo portano ad essere in un certo modo, ed è una chiave di lettura che tu dai nelle ultime pagine: la battaglia finale tra il padre e il figlio si svolge proprio su questa cosa qui.
VF: Succede come nella vita vera, e avviene per merito di questo modo improvvisato di lavorare: la storia, gli eventi accaduti all’interno del libro e gli elementi che entrano a far parte della vita dei suoi personaggi arrivano a ribaltare i concetti alla base stessa del lavoro e determinano le trasformazioni dei personaggi. Viaggio a Tokyo, da diario di viaggio, pagina dopo pagina è diventato un racconto autobiografico, anche un romanzo di formazione per tanti versi, sulla falsariga della narrativa giapponese che il suo protagonista impara ad amare. Con Figlio unico è stato lo stesso. Siamo partiti da una raccolta gioiosa e “leggera” di cinque racconti dedicati ad alcune tra le pagine più importanti della storia del manga, ma pian piano è diventato un romanzo perché gli spunti che avevo disseminato lungo tutta la storia del primo racconto mi hanno portato a pensare che ci fosse altro, mi hanno spinto a “scavare” e cercare di raccontare un certo tipo di dinamica familiare tipica della nostra regione seguendo alcune classiche tematiche di quello che è il romanzo fantascientifico. La dinamica tra il padre e il figlio protagonisti del libro, per quanto contenga anche degli spunti autobiografici, è partita dalla riflessione sul dualismo della figura del padre scienziato dei manga di “robottoni”, creatore e distruttore al tempo stesso: quel padre che per proteggere tutto, distrugge fondamentalmente la vita del figlio, facendolo diventare pilota di robot, macchina assassina e chissà quanto altro. Eravamo partiti da qui. Realizzando le prime pagine di quella storia, partendo da quella riflessione, è poi subentrato il mio vissuto.
NGF: Quindi tu a un certo punto hai chiamato Edo e Liliana e hai detto “guardate che sta diventando un’altra cosa”…
VF: Sì, esatto, è successo esattamente questo. Però in parte la struttura, dal punto di vista narrativo, è rimasta quella. Perché ogni capitolo riprende le gabbie e alcune tecniche narrative di quei titoli che avevamo preso sin da subito come riferimento: il primo capitolo che è un chiaro, esplicito omaggio a Tetsuwan Atomu di Osamu Tezuka; il secondo riprende delle atmosfere di Kitaro dei cimiteri di Shigeru Mizuki, mentre poi il libro inizia a prendere la forma del racconto di tipo gekiga o meglio, del “fumetto di realtà giapponese” che, partendo dai racconti di Tatsumi, si è andato a sviluppare fino a raggiungere una forma, potrei dire, perfetta, con L’uomo senza talento di Yoshiharu Tsuge. La vera sfida è diventata raccontare la mia Calabria, quella della mia infanzia e adolescenza, la Calabria cruda della mia esperienza personale. Raccontare la Calabria per me non è una novità. Lo faccio sin da quando lavoro con Canicola, per cui ho esordito raccontando una storia ambientata a Crotone, sempre cimentandomi con le tecniche del fumetto giapponese, però in maniera sicuramente meno consapevole. In questo caso direi che l’ispirazione e la guida di quei maestri, sono state più un appoggio che qualcosa che mi appesantisse, che mi facesse ombra. In realtà mi ha anche liberato, perché la lezione vera che recupero da questi libri e dagli insegnamenti di questi autori è: sii te stesso. Lo devi a te stesso, lo devi al lettore: cercare di essere quanto più personale e diretto è possibile. Creare un rapporto che non abbia nessun tipo di filtro.
NGF: A me viene da pensare che il “coraggio” nella tua modalità narrativa consista in questo: decidi di tirar fuori roba molto tua, in questo caso bella “pesa”, ma per farlo decidi di non tenere il controllo. O meglio, tu hai delle linee di massima, ma vuoi che tutto ti sfugga di mano. È come se cercassi un cortocircuito.
VF: Questo aspetto del mio lavoro deriva proprio, come dicevi tu, da un approccio musicale, in un certo senso. Io, da musicista, ho sempre guardato al jazz sperimentale, a Captain Beefaheart, quei musicisti lì, come grandissime guide della mia ricerca in quel campo. Ecco, proprio Captain Beefheart, è un esempio perfetto di quello che mi piacerebbe fare. Lui scriveva, “creava” in libertà, però era molto rigoroso nella tecnica, lasciava spazio al suo sentire ma quando si trattava di registrare, era un vero e proprio nazista, questo riportano le cronache. Trout mask replica, per esempio, il suo disco più famoso, è stato registrato in tre mesi in una baita di montagna: tre mesi in cui questi poveri musicisti hanno subito un regime di ferro, senza sapere in anticipo cosa sarebbe successo veramente. Questi ragazzi sono stati rinchiusi, senza poter uscire di casa. Altre persone andavano a fare la spesa e loro restavano lì a suonare fin quando Don Van Vliet non fosse finalmente rimasto soddisfatto del risultato.
NGF: Una “sporcizia” in realtà davvero rigorosa.
VF: Esatto. Un altro aneddoto che ha sempre influenzato il mio lavoro: Michael Gira, degli Swans, durante le sessioni di registrazione per Talker degli US Maple. Il mio gruppo del tempo aveva aperto per un loro concerto romano e ho avuto la fortuna, enorme, di passare il resto della serata con Al Johnson, il loro cantante. Ci ha raccontato che trascorrevano ore e ore chiusi in sala di registrazione, suonavano il pezzo per la quindicesima volta e Michael Gira al microfono, dalla cabina di produzione, diceva: “potete farla meglio.” E ancora. E ancora. È stata una grande influenza per Viaggio a Tokyo, Edo è un Michael Gira che produce libri, quindi è stato semplicissimo da questo punto di vista. Le prime cento pagine di quel libro le abbiamo ridisegnate tante, tante volte. Ma non si tratta di sadismo: quel tipo di approccio m’interessa moltissimo, credo sia un modo divertente di lavorare. È un caos controllato ed è un controllo incasinato, ecco. In Viaggio a Tokyo il risultato forse è più caldo, in un certo senso, ma provavo a lavorare seguendo quelle modalità senza riuscirci mai con costanza. A Figlio unico vorrò più bene, sicuramente, perché mi ha fatto capire che potevo avvicinarmi a quelle particolari tecniche di produzione musicale e che potevo anche rielaborare alcune cose importanti della mia ricerca in ambito di fumetto giapponese mettendole al servizio del racconto della realtà che effettivamente mi circonda. Perché voglio pian piano tornare a casa e in questo senso Figlio unico rappresenta un enorme passo avanti. Realizzarlo è stato un passaggio fondamentale nella mia ricerca verso una formula efficace per il realismo “calabrese” che mi piacerebbe rendere nei prossimi lavori.
NGF: Prima, quando parlavi dei padri nei manga, io ho pensato a quel racconto che hai fatto per Canicola sulla patella gigante. Anche lì in qualche modo c’è il tema del padre che tradisce. Il figlio innamorato che pur di far contento il padre tradisce gli amici, e il padre con uno schiocco di dita tradisce lui e tutto il mondo.
VF: La Calabria viene sempre prima. Per me è fondamentale raccontare il mio mondo, un po’ perché la mia immaginazione non è così fervida, un po’ perché credo e spero sia questo il modo per entrare in contatto con i miei lettori. Vorrei continuare ad approfondire ulteriormente, ma mi serve nuova consapevolezza e una certa dimestichezza con altre forme del fumetto.
NGF: Spesso recuperi la collezione dei mostri di Mizuki, ma secondo me hai già un tuo bestiario calabrese… C’è una doppia pagina molto geometrica con dentro le icone, quasi delle carte da gioco, dei tarocchi, che sono dei mostri calabresi, no?
VF: Sì, esatto. Naturalmente l’ispirazione di Mizuki è evidente, non lo nascondo, ma è anche contaminata dall’idea dei boss di fine livello tipica dei videogiochi. Trovare dei mostri “reali” in Calabria non è poi così difficile; è difficile riscoprire invece quei personaggi, mostruosi e non, che fanno parte della tradizione orale calabrese e in particolare della zona del crotonese, ormai affidata alla memoria malandata dei più anziani.
NGF: Mi viene in mente che San Dionigi l’hai già utilizzato ed era un personaggio potentissimo!
VF: C’è una mappa a un certo punto, nel primo capitolo. È la mappa con cui il lettore dovrebbe leggere quello che ho fatto finora. Certo che l’ho utilizzato San Dionigi, sia nella storia realizzata per Kuš! 25, lo scorso anno, sia nelle illustrazioni per la mostra “Una storia come le case senza tetto” per Ram di diversi anni fa.
NGF: E in un racconto per Canicola rivista.
VF: Esatto. È il santo patrono di Crotone, è abbastanza immediato arrivarci.
NGF: Ma tu lo metti lì, perché appartiene a un serbatoio che è più potente di quando dice in sé l’immagine, ha tutta una serie di rimandi per chi lo conosce.
VF: Per un libro come Figlio unico, che mostra più che spiegare, avevo bisogno di immagini forti e simboli potenti come quello, per ciò che rappresenta ma anche, banalmente, per quello che può dare in termini emotivi a un lettore che non ha la minima idea di chi sia San Dionigi… e poi è impossibile raccontare la Calabria senza quel tipo di figura, soprattutto in ambito religioso. Proprio ieri, parlando del libro, mi hanno chiesto: “ma com’è che parli sempre della Madonna nei tuoi libri, sei credente?”. Non sono necessariamente credente, però come Mizuki e i giapponesi che vivono in un mondo di Yokai, noi in Calabria viviamo effettivamente in un mondo di malocchio e di credenze particolari legate sia alla religione che alle vecchie superstizioni, che mi ha sempre affascinato. È bellissima l’idea che ci siano delle forze che controllano il mio destino, a prescindere da quello che io possa fare, è sempre stata una stampella molto comoda a cui poggiarsi ed è sempre un argomento che riserva sorprese e curiosità in ogni sua variante, come in Giappone. A farmi innamorare veramente del Giappone è stato proprio ritrovare in passi della letteratura classica e della mitologia di quel Paese punti di contatto con la nostra cultura. Il primo romanzo che sia stato mai scritto al mondo, il Genji monogatari, parte con una storia di malocchio. Racconta della prima dama di corte, o di una delle ancelle che muore per via delle dicerie e i pensieri a lei rivolti. Queste “attenzioni”, benevole o malevole che fossero, l’hanno appesantita fino a farla morire. Dalle mie parti lo chiamiamo “affascino”, un’energia che scaturisce dai pensieri della gente verso una data persona e, volontariamente o involontariamente, in buona o malafede, ti appesantisce, ti butta giù finché non te ne liberi… proprio come il nuru nuru bozu, lo spettro di mare che ti si attacca alla schiena e non ti fa più alzare.
NGF: Poi torniamo a quello che dicevamo all’inizio, cioè che le finzioni, piccole o grandi che siano, sono quelle che di fatto ci fanno diventare, volenti o nolenti, quelli che siamo.
VF: Associare ogni capitolo a una particolare azione del videogioco e così raccontare un altro aspetto della mia vita… I videogiochi accompagnavano i miei lunghi pomeriggi in attesa di tornare a casa dal paese.
NGF: È un’immagine che c’è all’inizio del libro, la scoperta del ragazzino che per la prima volta entra nel bar dove c’è la sala giochi e si trova con questo gruppetto di ragazzini che sta giocando.
VF: Ho sempre pensato di essere un grande videogiocatore. Pensa un po’: a 13 anni ho battuto un giapponese a Street Fighter in una sala giochi irlandese e per me è sempre stato un grande motivo di orgoglio. Poi sono andato a Tokyo e dalle sale arcade sono sempre uscito con le ossa rotte. Non mi hanno fatto mai capire niente. Non ho mai toccato i pulsanti, mi hanno sempre devastato, qualunque fosse il gioco. Giocare è molto importante per me. Viaggio a Tokyo presenta questa tematica della scalata verso il successo ma ribaltata. E anche Figlio unico riflette quella classica dinamica dei videogiochi in cui devi sempre dare il massimo per raggiungere la vetta. E poi mi piaceva anche l’idea dell’insoddisfazione che rimane alla fine di ogni successo, in un videogioco: vincere non è mai abbastanza. Che poi riflette benissimo il modo di fare tipico di noi calabresi; vogliamo sempre di più, per noi più grande è meglio, costruiamo queste case grandi pensando a cosa verrà dopo. Volevo raccontarlo anche attraverso i videogiochi.
NGF: Tra l’altro il libro si apre in ogni capitolo con una scena da videogioco. “Corri”, “salta”, “vola”, e così via. È evidente che quello che sarà il personaggio reale della storia è proprio un pupino da videogioco, quindi è quella la struttura narrativa.
VF: Naturalmente ogni azione lega e determina la tematica del capitolo. Poi la mia esigenza di strutturarlo e di associare a ogni capitolo un verbo, un’azione dei videogiochi, da usare come tema, ha anche influenzato le mie decisioni per l’ultima parte del racconto.
NGF: In effetti, rileggendolo a posteriori ti accorgi che nel primo capitolo hai un bambino, e il “corri” ci sta proprio.
VF: Ci siamo arrivati improvvisando. Improvvisare significa che fino agli ultimi giorni prima di andare in stampa ci sono tanti balloon vuoti perché non ho ancora i testi. Molto spesso tornare al frontespizio, col verbo, mi ha aiutato a scrivere parte dei dialoghi, per integrare. Quei momenti di buio della mia memoria storica vanno raccontati sotto forma di fiction, sono spesso i passaggi più faticosi da affrontare. Battute come “certo che sei laureato in lettere, sei femmina!”, quelle sono facili da scrivere, sono state scritte dai migliori sceneggiatori di piazza della Calabria. Improvvisare la fiction è molto più arduo, perché non scrivo in maniera classica, non preparo mai niente, sono sempre impreparato. Quindi mi aiuta molto far interagire i vari elementi per arrivare a chiudere il racconto.
NGF: Quando ho visto il videogioco che hai disegnato, ho cominciato a fare dei veri e propri viaggi, e mi son detto: Vinc è uno che controlla tutto in maniera maniacale, quindi o Atomic Runner Chelnov era veramente l’unico videogioco di quel bar, oppure l’ha scelto perché c’è qualcos’altro. Mi sembra che sia perfetto dal punto di vista simbolico: a parte che è uno degli ultimi arcade prima della rivoluzione, che tu racconti, perché nel capitolo dopo c’è la consolle e non si va più al bar. Ma soprattutto, Chelnov è uno che si ritrova coi superpoteri dopo che succede un disastro, che è quello che succede al tuo personaggio.
VF: È Chernobyl che ogni tanto torna.
NGF: Infatti Chelnov potrebbe essere la translitterazione in katakana di Chernob… Visto che il gioco è uscito l’anno dopo Chernobyl… Insomma c’è questo Chelnov, io mi sono detto: Vincenzo, Giappone, Chelnov, Chernob, esce dopo Chernobyl, ci sta: personaggio che è mutato dopo un disastro, nella sua testa o nella realtà, mi faccio questo appunto, poi arrivo a pagina 50 o 60, c’è un cielo notturno con due flash, che dicono “i venti radioattivi di Chernobyl” e poi “i boschi vicino a Umbriatico”. Hai ancora una volta attaccato le tue vite.
VF: Umbriatico è legata a una storia particolare che poi torna nel secondo capitolo. È una bellissima leggenda popolare legata al paese d’origine di mio padre, Melissa. Umbriatico l’ho scoperta sette mesi fa, è il posto in cui le streghe di Malevento hanno lasciato la pietra che poi avrebbero utilizzato per costruire il tetto della torre di Torre Melissa, che per me è un po’ il simbolo di quelle case senza tetto. Il tetto da cui sono nati tutti i tetti della tradizione delle case senza tetto. Questi richiami, questi spunti ci devono essere sempre. Poi, la lettura come avventura è sempre stato uno dei miei obiettivi principali. Se leggi Infinite Jest di David Forster Wallace, all’inizio c’è una nota del traduttore che dice “abbiamo messo tantissime note ma ci sono delle cose che l’autore non voleva che venissero spiegate perché il lettore dovrà poi cercarsele se ne ha voglia”. E a me interessa molto questo tipo di stimolo per dare il via ad altre scoperte e ricerche…
NGF: Il rischio enorme, ma è chiaro che non t’interessa per niente, è che uno che legge i tuoi libri distrattamente dice “ma questo che cavolo sta facendo, mette lì delle cose che poi non recupera”. Però ogni lettore si crea comunque una sua struttura.
VF: Può capitare che io sia fortunato, a seconda dei casi: Umbriatico è una bellissima parola, e se uno non vuole approfondire suona anche bene così, tengo molto anche alla musicalità delle parole. Perché se il concetto nel testo è espresso già bene, può anche essere la sensazione data da un suono, ecco, mi sta bene. Quindi è vero, in parte non mi interessa dare sempre punti di riferimento al lettore, però faccio anche molta attenzione affinché la lettura sia sempre accessibile e possa dare sempre più soddisfazioni ad una lettura successiva. In questo senso, il mio primo obiettivo è stimolare e non confondere il lettore.
NGF: Il libro comincia con questa doppia pagina enorme.
VF: Io volevo che il libro inizialmente sembrasse un’avventura fantascientifica, ne avevo proprio bisogno. Questa cosa ha condizionato in realtà proprio il primo capitolo, è molto accomodante, rassicurante, è semplice. Volevo creare questo effetto, dare quella botta, a un certo punto, al lettore: “non è così, fregato!”. Ci ho provato, spero di esserci riuscito.
NGF: L’impressione che si ha dal primo capitolo è questa: c’è un ragazzino, in una strana famiglia, che capiamo subito essere disgregata, con un padre molto assente ma che per lui è un mito assoluto. Il padre gli ha raccontato che lui è il suo robot perfetto, il bambino è convinto di questa cosa e anche noi lettori lo crediamo.
VF: Certo! Il bambino, tra l’altro, ne sarà convinto fino alla fine. È sempre dovuto a quella voglia di dare un senso di avventura nella lettura… Poi è la ricerca di una formula perfetta per il fumetto di realtà, perché non posso rinnegare la mia passione per questo tipo di “giochetti”, la mia passione per le bugie; quello che posso fare è lavorare per integrarla nel classico racconto di realtà. Credo che a un certo punto la storia abbia iniziato a prendere il sopravvento, ma uno degli stimoli iniziali era proprio la voglia di raccontare cosa si prova a essere tradito, non solo dagli altri, ma anche da se stessi: volevo dire al lettore “siamo in un libro di fantascienza” e poi punirlo per non aver fatto davvero attenzione.
NGF: Questa doppia pagina era comunque la tua partenza.
VF: Sì, come ispirazione dal punto di vista visivo, ho usato Jeeg robot d’acciaio, molto semplice, immediato. È nato in seguito a una lettura di Jeeg che ho fatto con mio figlio. E poi, naturalmente, c’è il dualismo: questo non è effettivamente un cosmo. Cioè, nella storia si rivela essere un buco molto molto profondo. La scelta è voluta, non vorrei definirla banale, ma è sicuramente dovuta al mio bisogno di offrire elementi molto semplici e accessibili alla lettura, quell’elemento visivo di fantascienza che facesse pensare al lettore di essere a casa. Ho utilizzato la gabbia dei Tankobon, dei primissimi libri di Tezuka, da una a sei vignette, molto semplice perché doveva essere tutto lineare e tranquillo affinché il lettore si trovasse proprio a suo agio. Ed è anche legato, tornando alla struttura del videogioco, alla prima cosa che fai quando tocchi un videogioco: muovi la leva e inizi a camminare. Il tutorial all’inizio: freccia destra per andare avanti, e così via. Questa è una cosa che cerco da tanto tempo, mi è capitato di discuterne anche in altri incontri, l’influenza del videogioco nella struttura del fumetto m’interessa in questo senso. E l’idea di tutorial, cioè insegniamo al lettore a leggere, diamogli tutte le indicazioni e gli elementi di modo che possa capire come leggere il libro, poco importa quanto complicato sia. È una cosa che mi ha sempre affascinato e influenzato, partire con una roba assurdamente complicata non avrebbe senso per me. Queste cose semplici, banali, per me sono necessarie, perché devo sempre pensare che chi legge i miei libri sia al suo primo fumetto. Viaggio a Tokyo era scritto da destra a sinistra anche perché leggendolo uno doveva sentirsi spaesato come effettivamente era spaesato il protagonista. Figlio unico doveva invece avere quel tipo di semplicità e banalità per accogliere il lettore, e poi, a metà, dargli invece la mazzata. Questa è una delle cose che sono state stabilite dall’inizio, fin da quando abbiamo deciso che sarebbe stato un racconto unico e lungo. Era anche un modo abbastanza semplice per rimanere legato a quegli omaggi e a quelle influenze giapponesi, ecco, senza tradire del tutto il progetto iniziale. Perché quel racconto della storia del manga, all’interno del libro, c’è. Io volevo farla, al Giappone sono ancora legato, volevo tradurlo nella struttura delle gabbie. Poi man mano cambiano: se andate a vedervi la struttura di alcuni fumetti giapponesi in ordine: Tezuka, Mizuki, Tatsumi e fratelli Tsuge, hanno quelle gabbie.
NGF: Qui tra l’altro c’è questa scena, è molto tenera: il ragazzino è con il padre e vanno a raccogliere funghi. Il padre torna a essere in qualche modo un maestro. Anche dal punto di vista stilistico sta facendo riferimento a un altro universo rispetto a quello precedente.
VF: Questo è un mio limite: il dettaglio esasperato degli sfondi di Mizuki, quella resa fotorealistica, in un certo senso, la inseguo ma non riesco a renderla per via delle mie lacune tecniche.
NGF: Anche queste texture degli alberi creano un mondo realistico e allo stesso tempo alieno. Poi succede che il padre, che è tornato ad essere fantastico e gli insegna i nomi dei funghi eccetera, incontra questo suo amico farabutto che gli offre da bere…
VF: Beh, non sono necessariamente farabutti. Io voglio bene a questi personaggi, è un immaginario bellissimo…
NGF: Farabutto per il lettore, perché c’è questa bella gita nel bosco, papà e figlio, e quando incontrano questo personaggio si spezza la magia…
VF: Esattamente come mi sentivo quando succedevano episodi del genere.
NGF: Poi iniziano a bere e qui, ti confesso che in questa scena ho pensato “non è che sta riprendendo la prima pagina?”. Il vortice nero… tra l’altro nella prima pagina parlavi di nascondere la verità, qui invece dici “un vino sincero”…
VF: In realtà non solo riprendo quell’immagine iniziale, ma ci sono anche gli alberi, la resa della texture con gli alberi era legata a quello, volevo iniziare a far capire che stiamo parlando di buchi. Altra cosa divertente: il primo buco nero era la mia prima prova di vortice, di buco che cercavo di fare. In realtà volevo fare una galassia: questo è il tipo d’improvvisazione che a me piace tantissimo. Poi mi sono detto, la teniamo, così facciamo capire cos’è il libro dall’inizio e chi vuole capire capisce, poi c’è la doppia che in effetti è ancora più esplicita. Siamo nel cosmo infinito, stiamo pensando ai robot e alle navi aliene.
NGF: Però nella gita nel bosco tu continui a richiamare alla mente del lettore quegli elementi: stiamo sprofondando in quell’atmosfera e all’improvviso, come in Shigeru Mizuki, arriva il mostro, la processionaria, il ragazzo rimane da solo, terrorizzato da queste processionarie che hanno invaso il bosco, con i compagni che lo mollano lì. Qui siamo davvero sempre più in Mizuki. E proprio nella pagina dopo viene svelato il trucco: c’è un personaggio che viene direttamente da quell’universo altro. È il gioco del grottesco, del caricaturale in mezzo all’iperrealistico.
VF: Sì, ci provo. Ripeto, la resa fotorealistica non è proprio il mio forte, però in questo caso particolare mi piaceva giocare anche un po’ coi simboli, questa ruota continua, ripetuta, onnipresente.. Sì, il libro è disseminato di questi indizi. Devo dire che è sempre frutto di quel tipo di lavoro per cui, improvvisando, qualcosa viene realizzato prima, qualcosa viene suggerito… e naturalmente, improvvisando, io devo sempre tenere a mente qual è il cuore del libro. Questo mi porta spesso a inserire dei “richiami” alle tematiche centrali della narrazione, dopotutto io stesso m’interrogo sull’effettiva resa del tema e della sua presenza all’interno della storia. Questa è una di quelle cose che secondo me vengono fuori nella seconda lettura del libro, è una cosa che a una prima lettura può essere fraintesa come una sequenza molto rapida di alberi, di cieli con lune bianche o nere. Penso che a una seconda lettura venga più facile capire che il gioco sia sempre quello, che “stai scendendo sempre più giù”.
NGF: Comunque anche alla prima lettura il senso ritmico è potentissimo. Sei nel bosco, col ragazzino che fugge; poi una tavola con quattro vignette lunghe e mute, con a un certo punto questi cerchi misteriosi che tornano, e poi compare l’occhione del personaggino misterioso.
VF: Dovevo darmi da fare in questo capitolo perché Mizuki ci gioca con queste cose: puoi utilizzare la vignetta verticale. Quando vai a giocare con Tsuge Tadao, in particolar modo, ti accorgi che molto spesso usa proprio le proporzioni dei fotogrammi di una pellicola, quindi vignette rettangolari, piccole o grandi, sempre orizzontali. Quando mi sono dovuto confrontare con quella cosa, mi sono reso conto che non avrei mai potuto fare questo tipo di discorso su quella struttura, sarebbe stato più complicato. Però mi ha fatto capire anche che cosa vuol dire il senso del ritmo in un racconto di Tsuge Tadao, che gioca con l’immagine, arriva quasi a bruciarle, semplicemente per verticalizzare. Confrontarmi con questo tipo di gabbia è stato decisamente formativo. Viaggio a Tokyo è un patchwork, ci sono vari rimandi a quel tipo di manga, però non c’è una disciplina rigida in questo senso. In Viaggio a Tokyo mi sono sempre preso la libertà di utilizzare ogni tipo di gabbia, d’inquadratura o di disposizione delle vignette a seconda di quella che era la mia esigenza, quindi è stato più facile. Per Figlio unico ho affrontato ostacoli più grandi, ma ho imparato molto studiando nel dettaglio quelle narrazioni. Un’altra sfida è stata: se io racconto utilizzando delle gabbie ben precise, rifacendomi a degli stili ben precisi, devo riflettere quest’influenza anche sul disegno? Ecco, lì mi sono dato la regola di non cambiare troppo nella resa grafica di tutto il libro. Per me è stata un’altra grande vittoria: coerenza qualitativa, secondo me, dell’immagine, e mai quei giochi che ci sono in Viaggio a Tokyo. A prescindere dalla resa, giocavo tanto con i generi e gli stili del manga. Con Figlio unico ho mantenuto quella coerenza che secondo me era necessaria, a prescindere dai toni cupi o meno pesanti che aleggiano in tutto il lavoro, però quella cosa mi serviva per dare l’idea di coesione. Questa cosa è più emblematica nell’ultimo capitolo del libro: lì ho ripreso le vignette, e ho ripreso il senso dell’assurdo. Il finale va a mille, ma è fortemente voluto perché volevo riprendere quel tipo di ritmo assurdo che si sente quando si legge un fumetto heta-uma.
NGF: Ecco, qui aspettatevi durante la lettura una sorpresa: si rimane a bocca aperta nel finale. Io ho dovuto rileggerlo più volte per capire il perché di quella cosa. I ritmi narrativi che Vincenzo ha imposto fino a quel momento sono di un certo tipo. E lì… ti fa pensare che ci sia un’altra pagina, ci dev’essere qualcos’altro.
VF: L’altra ispirazione per questo tipo di cosa è stato Takashi Miike, col film Dead or alive. È una crime story fatta e finita. È una storia che si svolge in modo molto lineare, realistico, e viaggia a un ritmo sempre compatto e coerente fino alla scena finale, in cui boom! dove siamo? Quella è una cosa che mi ha sempre affascinato, m’è sempre piaciuta, è un elemento che nelle mie storie si ripete spesso. Quasi tutte le mie storie hanno questo tipo di sviluppo. C’è un ritmo e poi improvvisamente si accelera. L’ho notato rileggendo le prime storie per Canicola, e poi ho deciso di renderlo, se non proprio come un marchio di fabbrica, un punto di forza delle mie narrazioni. Ho anche fatto degli “esperimenti” in questo senso, penso alla storia per Kus!.
NGF: Il conflitto titanico. Alla fine c’è questo scontro tra padre e figlio che diventa uno scontro tra robottoni; rileggendo le tue storie precedenti, ho trovato sempre un piccolo contro un gigante, che cerca di schiacciarlo…
VF: Beh, avrò dei problemi con mio padre, molto probabilmente… no, in realtà ho un bellissimo rapporto con mio padre, fatto di calcio e di rispetto silenzioso, però la tematica è una di quelle centrali del libro, è mutuata in parte dalle narrazioni di genere fantascientifico, con questo padre che costruisce e distrugge. Circa un anno e mezzo fa, in risposta a una domanda che mi era stata posta dagli amici di Nippop, ho detto che il tema che più m’interessa nella fantascienza è la figura del padre che crea per distruggere, che distrugge per proteggere, è una cosa che mi ha sempre colpito e che poi trovo funzionale per raccontare quello che effettivamente è stato il mio vissuto. Ma c’era anche la volontà di raccontare la dinamica generale che c’è nelle famiglie calabresi e in realtà un po’ dappertutto: il padre vuole il massimo per il figlio, ma quel massimo non coincide mai con quello che il figlio vuole, che è la ragione per cui si costruiscono case con tanti piani che poi non vengono riempiti. Tradimento delle attese; è una dinamica che ha creato disastri in Calabria ma anche nei paesi del Meridione. Nel meridione in generale il vittimismo è abbastanza diffuso come politica, ed io sono uno dei massimi esponenti del partito vittimista… È evidente in Viaggio a Tokyo, se leggerete Figlio unico capirete che non è cambiato molto in questo senso…
(grazie a Eleonora De Florio per la stesura di questo testo)