Il rapporto stretto tra architettura e fumetto non è certo una novità, anzi: molto è stato scritto su questa relazione complicata, profonda, le cui origini si perdono nella nascita del fumetto stesso. In effetti, se accettiamo che il fumetto è l'arte di trasformare il tempo (una storia) in spazio (dei disegni sulla pagina), per citare Art Spiegelman, va da sé che il racconto vorrà un luogo, un dove per il cosa che stiamo per leggere.
Qui l'architettura può svolgere un ruolo fondamentale: immaginatevi un deserto, una linea nera a fare da orizzonte, sulla quale si staglia una torre fitta di guglie, statue, terrazze e giardini pensili. A questo punto cominceremo a chiederci chi abbia potuto costruire un edificio del genere, chi lo abiti, quali altre meraviglie nasconda e aspetteremo trepidanti che il/la protagonista si avvicini per scoprirlo. Uno straniamento, davanti a una costruzione mai vista: basta sfogliare un fumetto di Moebius per capire di cosa stiamo parlando.
Tuttavia l'effetto può anche essere il contrario. Di recente ho letto Non so chi sei di Cristina Portolano, ambientato a Bologna, e ogni volta che girando pagina mi trovavo davanti a un posto familiare, facevo un salto sulla sedia e gridavo «Ma questo posto lo conosco! Ci vado sempre!». Insomma, riconoscevo i luoghi, proprio grazie a una rappresentazione delle architetture. A questo proposito non si può non scomodare il maestro, Paolo Bacilieri, di formazione architetto, che nei suoi fumetti realizza un ritratto di Milano così preciso e partecipe, che davvero sembra di sentirlo emozionarsi mentre lo disegna.
La sto prendendo larga, ma siamo quasi arrivati al punto. L'architettura quindi può essere uno strumento utile per caratterizzare un luogo, dargli un'atmosfera o una riconoscibilità precisa, ma può anche succedere che sia proprio lo spazio al centro. Sarà capitato anche a voi di sentire, a proposito di un film, un libro o un fumetto: «Sì, ma la vera protagonista è la città». Ad esempio, uno dei primissimi fumetti americani, Yellow kid, inizialmente si chiamava Hogan's Alley, come il nome della strada in cui si svolgevano le avventure del bambino in grembiule giallo, e anche un maestro come Will Eisner ha dedicato alla città di New York decine di tavole e storie brevi (raccolte nel volume New York); un caso italiano su tutti è ancora Bologna nelle pagine di Pentothal di Andrea Pazienza.
Non è tutto. Un luogo, specie in quest'ultimo caso, non si limita a rimanere sullo sfondo e subire una descrizione: esso diventa parte attiva della storia e agisce, si muove, crea il racconto, dialoga con i personaggi. Allora l'architettura sarà un modo di esprimersi, di porsi, addirittura di comportarsi, con una grammatica segreta ma intuibile, fatta di linee che diventano un'atmosfera (qui invece tocca citare Le città invisibili di Italo Calvino).
E se i luoghi raccontati hanno elementi in comune, è sicuramente interessante metterli vicini e vedere che si dicono. È quello che succederà, fuor di metafora, in occasione del festival de Lo Spazio Bianco, Nuvole digitali, e per questo abbiamo confrontato la provincia raccontata in tre opere uscite tra il 2019 e il 2020: Padovaland di Miguel Vila (Canicola 2020), Malibu di Eliana Albertini (BeccoGiallo 2019) e Non mi posso lamentare di Paolo Cattaneo (Rizzoli Lizard 2019). L'autrice e i due autori, insieme a Vincenzo Filosa, saranno protagonisti di un incontro sul racconto della provincia italiana nel fumetto: speriamo che queste riflessioni ci faranno arrivare alla chiacchierata portando domande e curiosità.
Lo spazio aperto
Il primo e più importante elemento in comune lo ha già notato qui Ettore Gabrielli: dalla provincia non si scappa, lo spazio aperto è in realtà chiuso, intrappola nella sua monotonia di tempi e luoghi sempre uguali. Questo è evidente soprattutto in Malibu: Eliana Albertini rende benissimo l'idea di un tempo sospeso, con storie senza un inizio e una fine, luoghi in cui «non c'è niente che possiamo fare», come dicono i personaggi, se non muoversi su strade che non portano da nessuna parte. Queste, infatti, sono fitte di rotonde e vicoli ciechi (fin dalla copertina), i cartelli ci fanno perdere più che darci una direzione e non è certo un caso che l'unica vicenda con un'effettiva conclusione termini in un incidente stradale, che apre e chiude l'intero fumetto. Malibu è un lungo incidente al rallentatore, il racconto della catastrofe quotidiana che è l'elemento costitutivo della provincia stessa. È solo un dettaglio, ma nell'ultima pagina vediamo come il TIR che ha provocato l'incidente portasse un carico di sacchi bianchi, possiamo immaginare di cemento, per un'importante azienda edilizia della zona. Cemento che andrà a costruire proprio le strade e gli edifici che intrappolano i personaggi, il materiale di cui si compone l'incidente che stanno vivendo.
E proprio l'incidente offre un parallelismo con Padovaland. Ho già parlato di come la provincia padovana disegnata da Miguel Vila sembri un teatro chiuso da cui i personaggi non riescono a uscire, vittime dei loro stessi automatismi e osservati da luoghi minacciosi e silenziosi. Alcuni in particolare, come i depositi dell'acqua, hanno l'aspetto di architetture aliene, che fanno capolino all'orizzonte nei momenti più impensati e danno addirittura l'impressione di spostarsi per seguire i movimenti dei personaggi. Le uniche protagoniste che sembrano avere delle prospettive fuori da quel territorio sono Katia e Giulia: quest'ultima in particolare restituisce lo sguardo sui luoghi, non li subisce, così come non subisce le relazioni tossiche che caratterizzano il suo gruppo di amici.
Ma proprio riguardo al finale esprimevo il dubbio che in realtà potesse rimanere anche lei intrappolata nella provincia padovana. E, alcune settimane dopo, l'autore pubblica sui suoi profili social l'illustrazione che vedete qui accanto: questa ritrae proprio Giulia a terra e in fin di vita dopo un incidente, soccorsa da un'ambulanza. Stesso epilogo di Malibu: la strada, quello spazio che dovrebbe condurre altrove, è in realtà un vicolo cieco. In Padovaland c'è poi la sequenza del viaggio notturno in macchina che sembra uscita da un film di David Lynch, con primi piani sui cartelli e l'inquadratura su una Madonnina, altra presenza tipica delle strade provinciali del nord Italia. Questa compare prepotentemente anche nel fumetto di Eliana Albertini: la statua della Madonna apre e chiude il racconto, ma se nella sua prima apparizione sembra solo un simbolo impassibile, un elemento del paesaggio, nell'ultima la stessa statua è più cupa, severa, rovinata, diventa una presenza perturbante.
Non mi posso lamentare è un'altra storia ancora. Al di là della brillante intuizione di raccontare l'assenza di futuro attraverso le parole che un malato terminale lascia alla sua futura bambina (sulle quali torneremo), Paolo Cattaneo racconta uno spazio simile attraverso scelte diverse. Innanzitutto, la periferia genovese è qui ritratta con un disegno completamente digitale: gli edifici sono squadrati in maniera netta e inequivocabile, modellini di plastica estranei al contesto e agli abitanti. Ci sono quindi delle somiglianze con i disegni di Vila, ma se in Padovaland percepiamo una presenza aliena che si nasconde all'interno delle architetture e fa pesare il proprio sguardo, in Non mi posso lamentare gli alieni se ne sono andati da tempo: persino loro hanno abbandonato la periferia al suo destino, lasciandosi alle spalle delle strutture vuote, dei mostri architettonici che mescolano l'atmosfera romantica dell'abbandono con quella inquietante della struttura aliena. Come Danilo, il protagonista, anche lo spazio vive nell'epoca del «troppo tardi»: luoghi e persone non hanno futuro.
Lo spazio abbandonato
Esiste una via di fuga da questi luoghi? Insomma, c'è speranza? Verrebbe da dire di no, ma a mio avviso sarebbe una risposta parziale. E se uscire dalla provincia sembra impossibile (o almeno molto difficile), si possono cercare alternative al suo interno.
Un altro elemento ricorrente nei tre fumetti sono infatti i luoghi abbandonati: Danilo si ritira a scrivere il quaderno per la bambina sotto un traliccio distrutto, sul tetto di un ex cementificio e in una casa abbandonata; il gruppo di adolescenti di Malibu si trova in uno stabile di cemento, un mostro architettonico non meglio definito; e Giulia di Padovaland vaga sotto la tangenziale scattando foto.
Perché? Cosa fanno in questi posti? Innanzitutto ne parlano: Giulia racconta la storia dei canali ad Andrea, entusiasta di essere lì con lei, mentre Danilo descrive minuziosamente lo spazio attorno a sé, i dettagli più curiosi, fa una narrazione del posto. In secondo luogo scrivono: uno dei ragazzi di Malibu traccia a grandi lettere su un muro «Marco number one» con una bomboletta e Danilo si avventura in questi luoghi per scrivere in santa pace e fumare sigarette di nascosto dalla compagna. Inoltre, se non sono loro a scrivere, lo ha comunque già fatto qualcun altro: anche in Non mi posso lamentare vediamo delle scritte sui muri, perlopiù dichiarazioni d'amore farcite di luoghi comuni e stereotipi. In entrambi i casi (narrazione e scrittura) abbiamo un racconto del luogo: c'è un passato che esce dalle pagine, filtrato o dalle parole dei personaggi o da quelle scritte sulle pareti. Ma forse la risposta migliore alla domanda “Cosa ci vanno a fare lì?” ce la danno i ragazzi di Eliana Albertini: «qua praticamente possiamo fare il cazzo che ci pare».
È questo il punto. I luoghi che abbiamo elencato non hanno una funzione precisa perché l'hanno persa e quindi ci si può fare qualsiasi cosa: sono luoghi in potenza, indefiniti, mutevoli, non determinati da uno scopo imposto dall'esterno. È qui che i personaggi possono scegliere cosa fare, che sia fermarsi a chiacchierare, scrivere a una bambina non ancora nata o semplicemente cazzeggiare tra amici. Essi evadono dall'eterno presente della provincia, definito fin nei minimi dettagli, per poter essere altro: non più una persona sola e senza prospettive, ma una studentessa appassionata (Giulia), non più un malato terminale, ma un padre e un amico (Danilo), non più una compagnia di annoiati, ma i «number one» (Marco e gli altri). Vi immaginate fare queste cose in un centro commerciale? O in un bar? Nella migliore delle ipotesi arriva un cameriere a dirvi che per restare dovete consumare. Ma ciò che pesa della provincia sono gli sguardi: questi confermano l'identità stretta e statica che i personaggi si sentono cucita addosso e diventano giudicanti nel momento in cui si prova a infrangerla, si violano le regole non scritte del posto. E per farlo non è necessario scrivere su un muro, è sufficiente il proprio corpo. Lo si vede bene in Padovaland: Irene viene presa di mira da colleghi e colleghe per il proprio fisico mentre Katia si sente prigioniera del proprio aspetto, costantemente osservata dallo sguardo maschile per cui un corpo come il suo è sinonimo di disponibilità.
Se per sottrarsi a questi sguardi scelgono un posto abbandonato, è anche per la presenza del passato: un luogo che reca su di sé i segni del tempo, che può parlare attraverso questi, apre alla possibilità di accoglierne di nuovi. Qui i personaggi possono letteralmente lasciare il segno e lo fanno esprimendosi, riappropriandosi di un linguaggio che diventa nuovo perché investe lo spazio, lo rende vivo e riconoscibile. In Malibu Antonio, il ragazzo più emarginato del gruppo, torna nello stabile con la bomboletta, cancella il nome di Marco e sopra ci scrive il proprio. Ma quello che vediamo non è solo «Antonio number one»: vediamo che Antonio ha cancellato il nome dell'amico per scriverci il proprio. C'è già una storia, un messaggio inscritto nello spazio che apre al futuro (ci si chiede: qualcun altro cancellerà la scritta? Come reagirà Marco?)1. Sui graffiti poi c'è una bibliografia sterminata che qui non possiamo approfondire, ma basti dire che tutto quel mondo ha un suo modo di comunicare, un suo vocabolario per lanciare messaggi attraverso lo spazio e il tempo. E a questo punto possiamo pensare che non sia un caso se proprio in questi luoghi Danilo si inventa un alfabeto nuovo e segreto per comunicare con la figlia.
Dall'altra parte si può intuire come gli edifici commerciali, squadrati e colorati, non abbiano storia: sono fabbricati sorti dal nulla, hanno superfici lisce, i percorsi da seguire all'interno sono chiaramente indicati dalle frecce, ci sono cartelli che dicono cosa comprare e telecamere che controllano che tutto vada per il verso giusto (tutti elementi che li fanno somigliare alle strade all'esterno). A livello grafico, questi luoghi non hanno segni di tessitura, sono sempre nuovi, le superfici sono omogenee, non lasciano un appiglio per gli occhi. Non c'è spazio per l'imprevisto, né possibilità di cambiamento e se è vero che ciascunƏ è costantemente in crescita, si capisce perché i personaggi finiscano per sentirsi in trappola in luoghi del genere. Ogni sforzo per esprimersi e farsi capire viene frustrato. A questo punto salta all'occhio come l'incomunicabilità sia un'altra presenza costante in questi testi, un mostro che avvelena i rapporti facendoli degenerare in veri episodi di violenza.
Se avete letto fino a questo punto, starete forse pensando che sono partito per la tangente, che l'analisi mi è sfuggita di mano. A me il dubbio è venuto, ma ho trovato conforto in un bel libro di Giorgio Vasta, Absolutely Nothing, che racconta di spazi abbandonati (e di molto altro) e che quindi ho ripreso in mano per scrivere questo articolo. C'è un momento in cui, in mezzo a un deserto, proprio un personaggio dei fumetti dice all'autore: «Devi conoscere le parole in cui ti trovi». Allora sono andato a vedere l'etimologia di “abbandonare”: sembra che derivi dal francese a bann doner, dove bann (banno, italianizzato) è una parola franca che significa “potere”. L'espressione quindi si può tradurre con lasciare alla mercé, lasciare in potere. Lo spazio abbandonato è lo spazio in potenza, alla mercé di chi lo attraversa.
Questo significa che i fumetti in questione ci invitano a occupare gli spazi abbandonati e a scrivere sui muri? Direi di no. Significa che io lo sto facendo? Neanche (ma possiamo parlarne in privato). Mi sembra più che altro che questi testi individuino un bisogno, una mancanza: rispetto a un troppo pieno di tempi e spazi ben definiti e sempre uguali, si sente la necessità di qualcosa da riempire, in cui metterci del proprio. Manca la possibilità di immaginare qualcosa di differente e in cui sentirsi diversƏ da quel nostro io che vaga sempre per le stesse strade. Il bisogno di capirsi.
E sarebbe sbagliato aspettarsi dai testi una risposta a quest'assenza: più che altro pongono domande e indicano una direzione. Vagare in uno spazio abbandonato non è una soluzione e lo abbiamo visto (l'epilogo è un incidente, ricordate?). Forse quello che manca è una risposta che vada al di là del singolo: i personaggi di queste storie sono sempre isolati, abbandonati ai loro disagi e debolezze, chiusi nell'impossibilità di comunicare. Qualunque cosa sia il futuro che immagineremo, invece, non potremo realizzarlo da solƏ: alla fine di Non mi posso lamentare Danilo si sveglia in un aldilà fantastico in cui veste i panni di un guerriero che combatte al fianco del suo migliore amico, morto in un incidente diversi anni prima, e un folletto, immagine della bambina che stava aspettando e che non ha mai conosciuto. Il presente non basta per fare un'avventura e da solƏ non si sconfiggono i mostri: servono il passato e il futuro, chi c'è stato e chi ci sarà, insieme.
Abbiamo parlato di:
Albertini E., Malibu, Padova, BeccoGiallo, 2019
Cattaneo P., Non mi posso lamentare, Milano, Rizzoli Lizard, 2019
Vila M., Padovaland, Bologna, Canicola, 2020
Non si sfugge alla periferia: “Malibu” di Eliana Albertini
Non mi posso lamentare: dal letame nascono i fior
Padovaland: la periferia crudele di Miguel Vila
Abbiamo citato:
Bacilieri P., Fun, Bologna, Coconino Press, 2014
Bacilieri P., Tramezzino, Bologna, Canicola, 2018
Calvino I., Le città invisibili, Milano, Mondadori, 1993
Corona M., Il viaggio, Torino, Eris, 2021
Eisner W., New York: la grande città, Torino, Einaudi, 2008
Moebius, Arzach, Bologna, Alessandro distribuzioni, 1991
Pazienza A., Le straordinarie avventure di Pentothal, Roma, Coconino Press, 2018
Portolano C., Non so chi sei, Milano, Rizzoli Lizard, 2017
Vasta G., Fazel R., Absolutely nothing: storie e sparizioni nei deserti americani, Macerata – Milano, Quodilbet – Humboldt, 2016
Consigliamo per approfondire:
Tobocman S., War in the neighborhood, USA, Autonomedia Press, 2000
Notiamo che lo spazio abbandonato come luogo in cui implodono passato, presente e futuro emerge con potenza visionaria nell'ultima fatica di Marco Corona, Il viaggio ↩