Credo che Scott McCloud, quando ha ideato la sfida del 24 Hour Comics, avesse ragione: realizzare una storia di 24 pagine in 24 ore continuative, senza vincoli creativi particolari se non la propria fantasia e ambizione, costringe un autore a confrontarsi con il proprio metodo di lavoro, con i propri limiti e le proprie abitudini. Sono convinto infatti che, a diversi livelli per ogni partecipante, la sfida rappresenti un’occasione per sviluppare una nuova consapevolezza di sé, del proprio approccio al medium.
In che modo?
Ho provato a delineare alcuni di questi aspetti ripercorrendo il libro 24 Hour Italy Comics edito dalle edizione Scuola del Fumetto, che raccoglie le prime 20 storie italiane realizzate in una gloriosa giornata dell’ottobre del 2005.
Una delle indicazioni più interessanti di Scott quando presenta la sfida è quella di pensare in positivo e non in negativo. Per quanto riguarda il disegno, cioé, non è utile pensare a quanto si debba togliere in dettagli, sfondi, precisione dal proprio normale stile, ma piuttosto quanto si riesca a disegnare in un determinato lasso di tempo.
Naturalmente, la pressione del poco tempo a disposizione costringe a eliminare elementi, ma principalmente impone una sintesi, una selezione ordinata ed efficace degli attori e degli oggetti da rappresentare, nonché una tecnica di regia che sia per certi versi più semplice, ma non per questo più banale o semplicistica.
Gli autori possono scoprire la necessità di abbandonare una serie di caratteristiche del proprio stile che in alcuni casi possono anche essere vere e proprie fonti di sicurezza, ovvero degli aspetti distintivi ma non essenziali, punti di forza di un modo di concepire il disegno che, di fronte alla necessità della sintesi, possono rivelarsi superflui se non inutili. La semplificazione, la sintesi, in questo senso, diventa una sfida nella sfida, pena l’impossibilità di completare il lavoro, dove aspetti ridondanti, puramente ornamentali, non hanno ragion d’essere.
Modificare il proprio stile può voler dire ricomporre l’insieme degli elementi costitutivi di un racconto per immagini, costruire nuove e diverse mappe mentali di riferimento, cercare nuove correlazioni e analogie. E andare alla radice di quello che rappresenta lo stile narrativo di un autore.
O ancora, a livello più complessivo, si può inventare una “regia” che faciliti questo tipo di ricerca.
Da questo punto di vista, due delle opere realizzate nel primo 24HIC possono essere prese come esemplificative di due approcci opposti alla regia per risolvere lo stesso problema: la storia di Enea Riboldi è un esempio di massima dilatazione narrativa, dove ogni pagina è un “fotogramma” di un’unica sequenza, dalla brevissima durata di lettura; la storia di Davide Toffolo (che rielaborata e reinventata è diventata un nuovo libro, l’affascinante Tres, Coconino Press) procede nella direzione opposta, attraverso una compressione estrema dei significati e delle azioni, dove, a ogni gesto, a ogni parola e dialogo, la nostra mente ne può aggiungere altri dieci, e immaginare cosa succede tra una vignetta e l’altra. Toffolo, inoltre, per eludere il problema degli sfondi e semplificare, costruisce la storia su un palcoscenico, come un’opera teatrale in divenire – scelta che di per sé aprirebbe la strada a una serie di altre considerazioni interessanti su contaminazioni narrative, testo e meta-testo, significato e significante, simbolo e rappresentazione iconica.
Che spazio esiste oggi per la forma del racconto a fumetti?
Constatiamo l’ovvio: le riviste non esistono più. Non è mia intenzione ripercorrere una storia che altri saprebbero raccontare meglio, ma è facile ricordare anni nei quali non solo le riviste di settore permettevano la più ampia e libera sperimentazione del racconto, ma vi era un proliferare di altre pubblicazioni non specializzate che lasciavano ampio spazio a brevi storie a fumetto. Oggi, dopo l’abbandono di spazi interessati e vivi come Mondo Naif, Alta Fedeltà, Mano, resistono per lo più pubblicazioni saltuarie (Black) o improntate sull’autoproduzione e la sperimentazione (Canicola, iCani, SelfComics), a cui possiamo affiancare i corti sulle pagine delle riviste Eura, in gran parte destinate a opere sudamericane o francesi, e i brevi racconti su Topolino, vincolati pero’ per tema e stile. Insomma, il racconto breve non ha più molti spazi.Una mancanza importante: non è un mistero che il contenitore, per ogni forma artistica, condiziona decisamente il contenuto. Produrre storie mensili di 96 pagine costringe a certi meccanismi, a certi ritmi, a certe furbizie e conduce il lettore per territori tutto sommato prevedibili; così come avere in mente un pubblico predefinito verso il quale è indirizzato uno specifico lavoro.Abbracciando una visione semplicistica, forse quasi un luogo comune, ma che come tutti i luoghi comuni ha un fondo di verità in sé, il mondo del fumetto italiano dal punto di vista della finalità, della diffusione, sembra così essere spaccato in due in modo netto e impermeabile (soprattutto sul piano concettuale): da un lato esiste il fumetto popolare, in particolare di tradizione Bonelli-Astorina-Disney; dall’altro il fumetto “d’autore”, che si esprime principalmente attraverso quelli che, ultimamente, siamo soliti chiamare “romanzi grafici”, una definizione ancora in sospeso tra esigenze commerciali e artistiche.Questa contrapposizione non è certo appannaggio unicamente del nostro mercato fumettistico. Negli Stati Uniti esiste la definizione, altrettanto discutibile ma efficace, di Art Comics, in contrapposizione al fumetto popolare (tradizionalmente di stampo supereroistico), per indicare i lavori che nascono e si sviluppano editorialmente come espressioni delle necessità narrative degli autori. Lavori non commissionati, se non come investimento sulle capacità libere dei singoli artisti, che non hanno una precostituita forma (narrativa, editoriale) e che, idealmente, sono l’espressione diretta e sincera della volontà (narcisistica e potente) di ogni singolo artista. Per citare solo i nomi più rappresentativi, possiamo pensare a Jeffrey Brown, Daniel Clowes, Andre Tomine, John Porcellino. Il fenomeno non è nuovo in Italia, ed è facilmente riconducibile all’esplosione del cosiddetto fumetto d’autore degli anni ’80. O alla new wave attualmente in atto, che ha dato voce e rilevanza ad autori quali Gipi, Ausonia, lo stesso Toffolo, Nanni, il gruppo Canicola, e così via (molti di loro hanno partecipato ad almeno un 24HIC). Anche per questi autori la forma del racconto breve, per quanto esplorata, oggi come oggi sembra essere tuttavia utilizzata in modo marginale, se non sviluppata in una progettualità diversa, che possa per esempio inserirsi in una più ampia struttura narrativa (il libro, il romanzo a fumetti, la graphic novel, il laboratorio artistico).
In questo panorama, certamente più complesso di quello evidenziato, ma che possiamo prendere come quadro generale, il 24hic rappresenta un’anomalia. Per almeno due ragioni.
In primo luogo, perché le storie da realizzarsi non sono pensate a priori per uno specifico contenitore e per uno specifico pubblico, se non la pubblicazione on-line in internet, che non pone particolari vincoli di spazio o di realizzazione.
Sergio Gerasi, collaboratore abituale della Star Comics per il fumetto seriale italiano (Lazarus Ledd, Cornelio, ecc.), ha mostrato uno stile di disegno e un approccio narrativo sostanzialmente diverso da come lo abbiamo visto esprimersi sinora. Alberto Ponticelli si è improvvisato sceneggiatore per la prima volta nella sua carriera. Addirittura, Diego Cajelli e Tito Faraci hanno superato l’ostacolo di non saper disegnare, inventandosi modalità tutte nuove (e con risultati diversi, provate a chiedere agli autori stessi!).
Ma tutti gli autori che hanno partecipato hanno potuto costruire una storia senza costrizioni o vincoli di alcun tipo – se non quello del tempo che passa – affrontando qualunque tema volessero con qualunque approccio desiderassero. Si tratta, a mio avviso, di un approccio artistico ormai quasi del tutto messo da parte, nel fumetto popolare, a favore di approcci più “professionali”, definiti e ripetitivi, che poco spazio lasciano alla sperimentazione, alla ricerca, all’esplorazione delle infinite possibilità del fumetto. Ma anche nel fumetto di diffusione limitata, non legato a logiche di ampia diffusione e di mantenimento del parco lettori, non è banale dedicarvi in maniera così libera, senza filtri, senza mediazioni, in maniera tanto istintiva.
Ed arriviamo così alla seconda ragione che fa della sfida del 24HIC un fatto unico: l’autore si ritrova costretto a lavorare proprio sulla forma del racconto, con caratteristiche che differenziano notevolmente l’approccio italiano da quello originario statunitense.
In USA, lo standard del fumetto popolare è da decenni quello dell’albetto a 24 pagine. Per McCloud, quindi, l’idea di realizzare una tavola all’ora è stata facilitata dal formato più conosciuto da lui e dal grande pubblico. In Italia, lo standard popolare bonelliano – il più comune – prevede storie di 96 pagine; oppure, come accennato, sul versante “d’autore”, romanzi con una lunghezza di pagine variabile che può attestarsi sulle 80 e più senza problemi. L’esercizio delle 24 pagine in Italia è quindi anomalo, oggi poco o per nulla frequentato, se non da lettori di materiale estero, se non nei rari casi di cui parlavamo all’inizio.
Sul piano narrativo, questo aspetto impone ancora una volta agli autori di inventarsi nuovi riferimenti, nuove mappe mentali. Tornando alle prime 20 storie del 2005, i tempi del racconto, in molti casi, sono stati definiti a grandi linee con uno story-board (Riboldi, Raffaele, Di Giandomenico…). Toffolo ha deciso di dividere il racconto in tre parti (atti teatrali), in modo da lavorare a tre racconti collegati di 8 pagine ognuno. Akab e Rosenzweig hanno concepito il racconto come 24 incontri diversi, con modalità del tutto differenti l’uno dall’altro (onirica e claustrofobica, per il primo; ironica e citazionista per il secondo). Qualcun altro, invece, ha iniziato a lavorare nella quasi totale improvvisazione, senza prendere riferimenti precisi.
Il 24HIC, in questo contesto, può rappresentare un’anomalia importante, perché pretesto per elaborare e reinventare proprio la forma del racconto breve a fumetti, troppe volte visto e considerato come forma minore di narrazione. Il guizzo, l’invenzione, la sintesi, la sorpresa, l’ironia diventano elementi essenziali, ricercati, rielaborati continuamente, a volte in chiave meta-narrativa (il 24HIC sembra terreno privilegiato della meta-narrazione) dell’improvvisazione a fumetti. Cio’ non rappresenta certo un’alternativa al problema dell’assenza delle riviste, ma ci sembra possa essere una novità, ripeto, un’anomalia e, perché no, una boccata di ossigeno, prima di tutto per gli autori, e in secondo luogo per i tanti lettori di fumetti che si avvicinano al medium con curiosità e un minimo di senso critico.
Tra i ricordi personali di quella giornata di 3 anni fa, uno dei più vivi è l’incontro tra Akab e Toffolo, seduti sui sacchi a pelo, nella stanza del riposo (?!), che cercavano un’ispirazione, un’idea, un filo rosso per risolvere la sfida.
Mi colpì l’onestà intellettuale dei due artisti, che non nascosero la loro sensazione di spaesamento e di impreparazione. Qualcosa che è stato rappresentato con ironia pungente e con un’efficacia unica da Alfredo Castelli e dal suo Omino Bufo nella storia “Non mi sono preparato!”, che proprio in quello stesso momento coglieva appieno certi umori.
Tra le regole principali del 24HIC, la più importante, a mio avviso, è proprio quella di venire impreparati. è essenziale, ai fini del reale significato espressivo della sfida, non realizzare a casa alcun tipo di preparazione della storia. Non story-board, non bozze di sceneggiatura, nulla. Si può solo arrivare al giorno fatidico con materiale di documentazione. Proprio come fece Diego Cajelli, che porto’ con se un malloppo di fotocopie in bianco e nero di tutti i tipi, senza aver ipotizzato a priori una storia. Il materiale più vario può diventare spunto per l’improvvisazione.
Per nessuno improvvisare è impresa facile. Nella musica è pratica più comune. Nel jazz, gli anni di preparazione più intensi non riguardano tanto l’acquisizione dei pattern, del linguaggio da utilizzare, quanto la capacità di interiorizzarlo al punto da poterlo rinnovare ex-novo ad ogni esecuzione.
Credo che ogni forma di espressione artistica nasca da un principio improvvisativo. La creatività ne ha bisogno. Ma ancora, tornando al concetto del “cosa posso fare” di McCloud precedentemente citato, quando si parla di improvvisazione molto spesso si parla di libertà espressiva, in un senso innanzitutto personale, intimo. Potersi concedere all’improvvisazione vuol dire mettere in discussione ogni volta quanto già realizzato, affrontare i propri limiti, creare un luogo mentale pulsante di sperimentazione. Vuol dire concedersi la possibilità reale di rischiare, di aprirsi alla curiosità, di dare spazio all’inedito e, in definitiva, di scoprirsi.
Non è affare da poco. E non sono certo che molti autori che hanno partecipato alla 24HIC si siano avvicinati all’esperienza con questa predisposizione, comprendendo pienamente tutti gli aspetti coinvolti. Come già sottolineato, la sfida è, da questo punto di vista, una vera opportunità. Maggiore la libertà e il desiderio per la sperimentazione, maggiore la possibilità che si realizzino storie sorprendenti per i lettori e, perché no, anche per gli autori coinvolti.
Riferimenti:
Il sito 24hic: www.24hic.it
Il libro: www.24hic.it/post.php?id=3900