Indice:
La gabbia bonelliana, questa sconosciuta – Prima parte
La gabbia bonelliana, questa sconosciuta – Seconda parte
“Il gusto personale e l’attaccamento alla tradizione m’impediscono di condividere molte delle soluzioni narrative e grafiche delle mie nuove testate, ma il buon senso mi ricorda che io, per quanto mi sforzi di tenermi aggiornato, appartengo comunque alla vecchia guardia e mi suggerisce di accettare alcune delle innovazioni portate da giovani autori”.
(Sergio Bonelli – Come Tex non c’è nessuno, p. 134)
In tutti – o quasi – gli articoli, le recensioni, gli approfondimenti che trattano di produzioni firmate Sergio Bonelli Editore, è sovente il riferimento alla cosiddetta gabbia bonelliana, dando forse troppo per scontato che chi legge (o anche chi scrive) sappia veramente di cosa si tratti e da dove tragga origine.
Come detto qualche anno fa da Moreno Burattini, sceneggiatore e curatore di Zagor:
“La gabbia è un elemento che distingue il prodotto bonelliano da altri e rassicura il lettore sul fatto che, qualunque cosa gli stiamo raccontando, lo facciamo nell’ambito di una tradizione.
[…]è stato Sergio Bonelli a “rinchiudere” Tex, Zagor e la maggior parte dei suoi eroi nella cosiddetta “gabbia bonelliana” e a chiedere che un po’ tutti gli autori del suo staff, sceneggiatori e disegnatori, si esprimessero nel contesto delle tre strisce per tavola, contenenti ciascuna una, due o al massimo tre vignette.
Parlando con Sergio, mi è capitato spesso di sentirlo ribadire il concetto secondo il quale la struttura apparentemente rigida delle tavole rappresentava una peculiarità da salvaguardare dei suoi fumetti, una sorta di marchio di fabbrica al pari del formato o del sostanziale buon gusto o correttezza morale delle nostre storie.”
La gabbia, dunque, è tratto distintivo del prodotto bonelliano e strumento tecnico, atto a ottenere la maggiore chiarezza narrativa possibile, ponendo i disegni sempre a servizio della storia; poiché, fin dai tempi di Gianluigi Bonelli, l’efficacia del racconto è sempre stata considerata preponderante sulla sua resa visiva nella casa editrice meneghina.
C’era una volta una gabbia
Diversamente da quanto si possa credere, la gabbia bonelliana non è nata come un’operazione tecnica pensata a tavolino, come una scelta pianificata da qualche autore e disegnatore: essa deriva da una decisione “tipografica” presa nel 1952, quando l’Audace (l’attuale SBE) dette il via alla ristampa delle prime avventure di Tex che in origine erano apparse nel formato a striscia.
Per rendere riconoscibili i nuovi albi dagli originali, si decise di utilizzare quello che oggi definiremmo un layout di pagina composto da tre strisce poste una sotto l’altra: ecco così nata la tradizionale gabbia bonelliana.
In oltre sessant’anni di storia editoriale la gabbia è diventata marchio di fabbrica riconosciuto dai lettori di fumetti e, in un certo modo, rappresentazione visibile di quello che qualche anno fa, Michele Medda – sceneggiatore e creatore di personaggi come Nathan Never e Lukas – provò a definire con il termine “bonelliano”:
“Io identifico il “bonelliano” essenzialmente con quella che possiamo chiamare “immediatezza”. Cioè con una “leggibilità ” estrema degli albi, che col tempo è diventata uno stile: il modo “bonelliano”, appunto, di fare i fumetti.”
Immediatezza, leggibilità, chiarezza: è questo che la SBE ha cercato sempre di offrire ai propri lettori.
In fuga dalla gabbia
Eppure, nel corso degli anni, i tentativi e gli esperimenti di modificare e innovare la gabbia bonelliana e i suoi significati a livello narrativo ci sono stati, a cominciare, nella seconda metà degli anni ’60, con la Storia del West di Gino D’Antonio, Renzo Calegari e Renato Polese. A titolo d’esempio, ricordiamo la tavola d’esordio dell’episodio Sentieri Selvaggi che già spezza la classica formula del vignettone iniziale suddividendo la pagina in due strisce verticali.
Alla fine degli anni ’70, sin dalle prime storie di Ken Parker si trovano tavole come quella della pagina 23 dell’albo d’esordio della serie che in apparenza sembra una tavola pienamente calata nello schema tradizionale ma in cui l’ultima sequenza in basso con le quattro vignette affiancate mostra che qualcosa sta cambiando: non per il numero delle immagini in sequenza, quattro invece di tre, ma per una diversa rappresentazione temporale e cronologica. Alla tradizionale linearità e sequenzialità della rappresentazione della gabbia (“una vignetta dopo l’altra”), si contrappone in questa striscia il racconto di una sorprendente simultaneità: quattro sguardi, quattro identità diverse, tutti catturati nello stesso momento.
Altro esempio lo troviamo nell’incipit di Ken Parker #51 – Prossima fermata Stockton. Anche qui abbiamo una tavola all’apparenza tradizionale: tre strisce, ognuna composta da un’unica vignetta, che offre però un’inquadratura diversa, quasi un frammento simultaneo, di un’immagine più grande. La continuità narrativa, la leggibilità meddiana, in questo caso arriva, più che dal disegno, dal dialogo. La “mimesi” del linguaggio cinematografico, attraverso l’invenzione di carrelli e dolly di carta, produce qualcosa di diverso dalla scansione tradizionale, un’innovazione non plateale ma comunque significativa. Così come rappresentano una sostanziale innovazione nella saga di Lungo Fucile, le ricorrenti vignette/non vignette scontornate di Ivo Milazzo: “rottura” grafica della gabbia bonelliana che riflette una cesura “ideale” coi ritmi tradizionali della narrazione.
Ingegneria della gabbia
Negli anni Ottanta, Martin Mystere prima e Dylan Dog poi, pur rinnovando profondamente il panorama della produzione SBE e del fumetto popolare italiano sul piano dei contenuti e della poetica di genere , sembrerebbero sposare un’impostazione classica della gabbia, priva di innovazioni, ma basta guardare a due tavole tratte dagli episodi #15-16 del personaggio di Alfredo Castelli per rendersi conto che le cose non stanno esattamente così. A tavola 22 dell’episodio 15 il nemico Sergey Orloff viene raffigurato da Giancarlo Alessandrini, prima nella vig.4 con la pistola in pugno, sull’atto di sparare, quindi in vig.6 (la raffigurazione è precisamente la stessa) mentre spara. Il disegnatore rispetta la consueta scansione in strisce: in termini di lettura planare, tra le due vignette “gemelle”, s’inserisce comunque la vignetta 5, raffigurante la persona che Orloff sta per colpire; le strisce si leggono in termini cinematografici, come sequenze: oggettiva/controcampo da sinistra a destra, come classicamente accade sempre nella gabbia bonelliana. Tuttavia, l’effetto di continuità tra vignetta 4 e 6 produce anche uno scarto visivo rispetto al canone: i due momenti – prima e dopo lo sparo – sono leggibili anche in una traiettoria verticale, quasi scavalcando la logica planare ed è la lettura verticale che determina il ritmo temporale del racconto.
Questa doppia, e se vogliamo ambigua, impostazione ha un obiettivo preciso: condensare nell’ultima vignetta della tavola una tensione stra-ordinaria, stessa tensione che riscontriamo, per esempio, a tav. 124 dell’episodio successivo. Anche qui, Alessandrini ricorre a una soluzione: lo scontornamento delle vignette nei primi piani di Java , già adoperata all’interno della gabbia da Ivo Milazzo su Ken Parker, come detto poco sopra. L’innovazione, o comunque l’avanzamento della soluzione espressiva, sta ancora una volta nell’ibridare le traiettorie di lettura planare tipiche del formato striscia con risonanze verticali (tra vig. 2 e vig.6 nell’occasione).
In entrambi i casi analizzati di Martin Mystere, la vignetta finale della tavola diventa così il luogo di una cesura drammaturgica: un accento che può avere varie sfumature ma che è sempre il climax narrativo della pagina; Castelli e Alessandrini (e poi gli altri cartoonist della serie) raffinano la punteggiatura narrativa della gabbia, elevando la tavola a unità del racconto sempre più compiuta e modulare.
Anche Tiziano Sclavi e i diversi cartoonist che lo affiancano in Dylan Dog contribuiscono in maniera magari non eclatante ma comunque incisiva a dire la loro sulla canonica architettura a tre strisce: prendiamo ad esempio una tavola tratta dalla sequenza iniziale di Morgana (Dylan Dog #25).
Di base, il layout costruito da Angelo Stano resta classico, ma è interessante vedere come si giochi sulla taglia delle vignette (e sui campi di ripresa) per innescare un ritmo di lettura ben preciso.
Se la dinamica della singola striscia resta planare da sinistra a destra, è anche vero che la tavola sollecita l’occhio del lettore a coglierla nel suo complesso, creando una risonanza molto forte tra la striscia iniziale e quella finale e se analizzassimo le tavole precedenti e successive della storia ci accorgeremo che tutto l’incipit è sviluppato in questa direzione, con costanti richiami visivi tra una pagina e l’altra.
Anche la seconda tavola di Memorie dall’invisibile (Dylan Dog #19) offre un saggio dell’evoluzione delle tecniche: all’interno di una scansione tradizionale delle vignette sulle strisce le didascalie producono uno scarto nella leggibilità della gabbia, un rallentamento consapevole, quasi spasmodico, soprattutto nel movimento del personaggio nelle prime tre vignette. Poi, nella vignetta finale, si condensa il picco tensivo della narrazione.
Sintetizzando, potremmo affermare che Castelli è determinante nel codificare in forma avanzata la metrica della gabbia, mentre Sclavi contribuisce fortemente a tradurre questa metrica in una poetica. Non sarebbe stato possibile presentare tutto ciò al lettore , se questi non fosse già stato abituato – grazie per esempio a Ken Parker – a guardare con “laicità” alla tradizionale gabbia di sei vignette.
Indice:
La gabbia bonelliana, questa sconosciuta – Prima parte
La gabbia bonelliana, questa sconosciuta – Seconda parte
Bibliografia:
Come Tex non c’è nessuno. Vita pubblica, segreti e retroscena di un mito
Sergio Bonelli e Franco Busatta
Mondadori Oscar Bestsellers, 2008
211 pag., brossura, 10,00 €
ISBN: 9788804583783
Freddo cane in questa palude (blog di Moreno Burattini)
La Gabbia (19/12/2011)
Cos’è il “bonelliano” (14/08/1999) di Michele Medda