Infinite sono le fobie che possono colpire gli esseri umani, alcune con una giustificazione logica, altre del tutto prive di senso: nella fobia spesso si avverte come pericoloso qualcosa che non lo è affatto, come un animale innocuo o un oggetto inerte. Si dice che tali fenomeni agiscano nella nostra mente portando alla memoria pericoli antichi, addirittura ancestrali.
Questo sembra il caso anche della tripofobia, che colpisce un numero abbastanza ampio di persone. Sudori freddi, nausea e repulsione sono qui innescati dalla ripetizione, irregolare o meno, di un gran numero di buchi. Gli alveari, i semi nel fiore del loto, persino i buchini che si formano sulla superficie del latte o del caffè possono provocare in alcune persone delle reazioni di disgusto tali da provare un oggettivo malessere fisico.
Da qui è partito Giovanni Eccher per mettere a punto la trama di Dylan Dog #381, ma non solo. Ha indagato oltre, fino ad arrivare a quel genio della letteratura horror e proto sci-fi che fu (ed è) Howard Phillips Lovecraft, il visionario scrittore di Providence che ha reso immortali i miti di Cthulhu e di tante divinità che hanno ispirato la penna di autori suoi contemporanei e successivi, e il pennello di artisti che hanno cercato di immaginarne le fattezze.
Fra queste divinità, una delle meno conosciute e delle più terribili è la dea Shub-Niggurath, “il capro dai mille figli”, che viene spesso raffigurata come una massa di tentacoli torbidi e butterati, un agglomerato di piccoli buchi neri circondato da cuccioli simili a lei, che sputa in continuazione dalle sue cavità.
Quando molti anni fa incontrai per la prima volta l’amato Lovecraft di lui conoscevo solo l’assurda storia del Necronomicon: lo scrittore si inventò l’esistenza di un libro maledetto, rilegato in pelle umana e scritto da un certo Abdul Alhazred, l’arabo pazzo, che l’autore rivelò solo in seguito essere un personaggio fittizio. Anche dopo questa confessione, molte persone continuarono a cercare nelle biblioteche e nei mercati d’antiquariato l’antico testo di necromanzia, e c’è addirittura chi ancora giura che esista davvero.
Questo aneddotto mi ha spinto a leggere i suoi racconti inquietanti e visionari, in cui spesso dipinge un mondo superiore al nostro (un altro pianeta, o una dimensione “altra”, per questo è considerato il precursore della fantascienza) popolato da giganteschi, mostruosi e temibili dei, di cui il più famoso è il grande Cthulhu, colui che “nella sua dimora a R’lyeh attende sognando”. Cosa attende? Il suo risveglio, il momento in cui potrà finalmente essere libero di portare il caos sulla Terra, insieme agli altri “dei Esterni” (leggi: alieni) del personale e originale Pantheon ideato da Lovecraft, fra cui appunto la Shub-Niggurath citata da Eccher.
In questo numero l’indagatore dell’incubo è alle prese proprio con l’ancestrale mostro, e con un compositore visuale (vee-jay in sintesi) che durante i suoi spettacoli desidera stupire il pubblico con una combinazione di musica e immagini su monitor che ha ribattezzato “sinestesia dinamica” perché avrebbe la capacità di aprire le porte della percezione su nuovi e sconosciuti mondi. Laddove la sola immaginazione non è sufficiente arriva l’alterazione chimica del cervello, e in questa storia oltre alle fobie e alla letteratura si approda a un altro argomento, il viaggio lisergico.
Come nella serendipità, citata anche nel fumetto, il lettore pensa di leggere una singola storia e invece arriva a fare delle scoperte che all’inizio del suo viaggio non pensava affatto di fare. E questo è il punto di forza di questo numero della testata: innescare una curiosità che va oltre la trama grazie a una scrittura “a mosaico” che dissemina piccoli frammenti di citazioni letterarie o scientifiche.
Il limite dell’albo è caso mai nella storia in sé e per sé: non siamo di fronte a un numero particolarmente empatico o emozionale, né a un’indagine esaltante che svela il mistero alle battute finali. Dylan Dog, Lydia, Groucho e gli altri personaggi sono più utili alla messa in scena dei rituali e alla presentazione dei grandi antichi dei, piuttosto che fulcro dell’azione. Nonostante ciò, l’attenzione del lettore può essere senza dubbio catturata da questa mole di informazioni e citazioni sul fantastico, che costituiscono il cuore e la sostanza della storia.
Per quanto riguarda i disegni della coppia formata da Paolo Armitano e Davide Furnò, già rodata nel volume Bonelli Mani nude, adattamento a fumetti del romanzo di Paola Barbato, sono perfettamente funzionali alla presentazione e rappresentazione di mostruose divinità che vengono da molto lontano. Lo stile grafico sembra ispirarsi più all’illustrazione che al fumetto propriamente detto, con delle chine morbide e una inchiostrazione che tende verso la pennellata acquosa o al carboncino più che al rapidografo di precisione.
Un tratto autoriale, molto bello a vedersi ma sicuramente poco dinamico per via della sua stessa natura: se le vignette fossero foto avrebbero una velocità dell’otturatore rapida e un’inquadratura oggettiva, da lifestyle. Pose dirette e semplici che imprimono quotidianità nelle figure umane, ma quando a essere “immortalate” sono creature mostruose anche questa apparente semplicità di posa prende i risvolti dell’incubo e ben soddisfa un plot che desidera farci arrivare più lontano e, perché no, farci sfogliare un altro libro per capire esattamente dove tutto è nato.
Anche a costo di finire nella Città senza nome o dentro l’Unaussprechlichen Kulten, il libro nero (immaginario, come il Necronomicon) di Friedrich von Junzt ideato da Robert Howard, autore che ha lanciato i suoi racconti sulla rivista cult statunitense Weird Tales, proprio come Lovecraft.
Ma questa è un’altra storia.
Abbiamo parlato di:
Dylan Dog #381 – Tripofobia
Giovanni Eccher, Paolo Armitano e Davide Furnò
Sergio Bonelli Editore, giugno 2018
96 pagine, brossurato, bianco e nero – 3,50 €
ISSN: 977112158000980381