Ringo: analisi della seconda stagione di Orfani (seconda parte)

Ringo: analisi della seconda stagione di Orfani (seconda parte)

Seconda parte dell'analisi su Orfani: Ringo. Confrontiamo le strutture delle due stagioni, parliamo dell'aspetto grafico e dell'ambientazione italiana.

Seconda parte del nostro approfondimento su Orfani: Ringo. Nella prima parte sono stati trattati la formazione del protagonista e i comprimari del suo viaggio.

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Le due stagioni: strutture a confronto

Le due stagioni si sono caratterizzate, al di là dei richiami a specifiche correnti fantascientifiche, come due strutture radicalmente diverse che raggiungono esiti artistici altrettanto differenti.

La prima stagione ha un’architettura pesante, che bipartisce le puntate, dedicando metà volume allo sviluppo degli eventi nel passato, la restante metà alle avventure nel presente. L’accostamento delle linee temporali è giustificato da una simmetria fra gli eventi o le emozioni proposte nelle due sezioni, che spesso risulta più in un appesantimento per la narrazione che in un motivo di interesse, perché introduce una sensazione di artificiosità. La combinazione fra scarso numero di pagine a disposizione, alto numero di personaggi e simmetria forzata, riduce spesso l’intensità emotiva, nonostante l’elevata drammaticità di molte situazioni. Assistiamo al nascere di amori o di conflitti aspri, e poi, ad anni di distanza, gli stessi ci vengono riproposti mentre trovano una loro evoluzione o compimento, ma raramente cogliamo la crescita di quelle stesse emozioni, e quindi non riusciamo davvero a farle nostre.

Nella seconda stagione si vira verso una struttura molto più adatta all’obiettivo narrativo. Il protagonista è uno, e questo paradossalmente giova anche alla costruzione del gruppo cui appartiene, i cui membri vengono fuori tridimensionali grazie a un efficace gioco di richiami rispetto al personaggio principale. Aiuta, in tal senso, che gli antagonisti non siano altro che ricordi distorti della vita del protagonista: anch’essi, quindi, funzionali alla prosecuzione del suo viaggio interiore. L’architettura degli episodi diviene monolitica, con una natura “procedurale” che filtra i nuovi eventi per la trama orizzontale attraverso la verticalità della riproposizione di uno schema.
Si potrebbe pensare a questa configurazione come una trappola per l’avanzamento della storia (in molti serial televisivi, di fatto, lo è), ma nella realtà è proprio ciò che serve per rappresentare la crescita dell’ex Pistolero e dei suoi compagni di avventura. L’addestramento, la formazione alla vita o alla paternità, sono processi mentali che hanno proprio bisogno di una tale ripetizione per consolidarsi compiutamente. Se la struttura del primo ciclo era apparentemente interessante, ma sovrabbondante e pericolosa, in questo secondo ciclo è apparentemente più banale, ma si rivela funzionale allo sviluppo della trama.

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In entrambe le stagioni, la grammatica narrativa scelta, ovvero il modo di presentare le scene, è quella degli action di stampo hollywoodiano con dialoghi “brillanti”, poco naturalistici, improntati su scambi di battute e spesso virati a un ostentato cinismo o in generale alla suggestione di certe frasi ad effetto. Poche eccezioni a quella che anche in altre testate sembra ormai una scelta di stile per Roberto Recchioni.
È un peccato, perché, se in certi momenti le battute sopra le righe sembrano ricalcare (e quindi ben amplificare) le psicologie dei personaggi, in altri creano un fastidioso senso di distacco dalle dinamiche interiori, che incrementa l’effetto di superficialità emotiva nella prima stagione, e fa pensare a un’occasione in parte sprecata nella seconda. Alcuni difetti di questo stile vengono parzialmente mitigati dall’apporto di Mauro Uzzeo e Luca Vanzella. I due sceneggiatori affiancano Recchioni, il primo occupandosi della maggior parte dei momenti tendenti all’intimismo e alla riflessione, il secondo ponendo i protagonisti di fronte a scelte etiche e morali complesse, riuscendo nell’intento di fornire una caratterizzazione convincente e precisa dei protagonisti.

Un corollario a questo discorso è il “trattato di sociologia” della Juric (“Il mondo dopo la fine”) che, oltre a introdurre gli albi, imperversa per tutto “Orfani: Ringo” e appesantisce le scene, con la sua struttura ossessivamente aforistica, che nulla aggiunge alla storia e crea un curioso effetto di esclusione selettiva delle didascalie dalla lettura.
Le volute esagerazioni presenti nelle frequentissime scene d’azione sono di sicuro strettamente connesse alla struttura di genere che Orfani incarna, anche se appaiono più adatte alla prima stagione (che in sostanza si basa sulla nascita e sulla scomparsa di un supergruppo), ma non si riconfigurano in modo adeguato nella seconda, dove si assiste all’incongrua sopravvivenza di tre giovani combattenti umani, contrapposti con successo a letali robot assassini (come nel furioso combattimento per le strade di Lucca, in All’ultimo respiroo nella sfida di Death Metal fra Ringo, Rosa e i Corvi ). L’effetto è di snaturare certe sequenze dinamiche al ruolo di intermezzi paradossali o comici.

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La conclusione dell’ultimo numero, con la sconfitta di Ringo e la partenza di Rosa verso un nuovo mondo, apre spiragli verso lo sviluppo di nuove tematiche e ambientazioni, nell’ottica di quel rinnovamento periodico che è diretta conseguenza della suddivisione in stagioni.
Il finale della seconda stagione offre anche lo spunto per soffermarsi sulla stringente continuity che caratterizza la serie. Ne “La carne e l’acciaio” (Orfani: Ringo #8) Paolo Bacilieri rende graficamente tre sogni premonitori che si realizzano nei numeri seguenti (per la precisione dal 10 al 12): Rosa sogna Ringo in fiamme che le stringe la mano chiamandola figlia, Nuè sogna di essere tagliato a pezzi da un laser, Seba sogna di essere giustiziato da Ringo. A una prima lettura tali elementi sembrano far parte di un visioni inverosimili, mentre, terminata la lettura, acquistano un valore del tutto differente.

Le tavole e i colori: l’importanza della parte grafica

L’apporto grafico alla narrazione è un elemento fondamentale per capire Orfani: difficile parlare di struttura di questa serie senza citare la regia action che domina le inquadrature. Si parla poco, molto poco rispetto a un albo Bonelli classico, e si lascia quindi parecchio spazio alle capacità descrittive del disegno. Ma mentre abbondano le inquadrature o le splash page dinamiche, che ci introducono ai momenti più convulsi, molto meno frequenti sono le aperture di campo statiche (come avviene all’inizio di Nulla per nulla e “Bambini contro” ) o le vignette mute che si dedichino alle emozioni dei protagonisti. La cosa ha un doppio effetto: anzitutto il tempo di lettura si accorcia (il che non è necessariamente un male), in secondo luogo si gustano meno le emozioni. C’è da dire, in merito, che il difetto si avverte principalmente nella prima stagione, mentre nella seconda, forse anche grazie all’apporto di autori diversi e dai ritmi più lenti, si avverte una parziale correzione di rotta.

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Sin dall’inizio un’attenzione particolare è innegabilmente rivolta verso l’impianto grafico della serie. Il fatto stesso che Emiliano Mammucari sia accreditato come ideatore al pari di Roberto Recchioni ne è certamente un’indicazione precisa, staccandosi da una certa consuetudine Bonelliana per cui l’autore di schizzi preparatori e studi dei personaggi rimaneva frequentemente addirittura misconosciuto. Sul fronte del parco disegnatori, se la prima stagione per molti versi poteva essere considerata un prodotto quasi esterno alla Sergio Bonelli Editore, nella seconda annata assistiamo all’ingresso di alcuni artisti provenienti da una lunga esperienza in altre serie bonelliane: da Carlo Ambrosini a Paolo Bacilieri, da Luigi Pittaluga a Giancarlo Olivares fino a Roberto Zaghi. L’innesto di tali autori ha comportato non tanto un’omologazione stilistica alle altre serie della casa editrice, quanto un tributo al variegato e innegabile valore artistico che ivi risiede. Questi disegnatori hanno saputo, infatti, conservare il proprio stile peculiare: per fare un esempio, Paolo Bacilieri ha portato con sé la propria propensione a concepire in maniera estremamente libera le tavole, ben coadiuvato dall’alternanza con Werther Dell’Edera in un episodio disegnato a quattro mani, in cui emerge con particolare chiarezza la necessità di non sottostare in maniera passiva a regole compositive predefinite. Meno ispirato è parso invece Carlo Ambrosini, autore di una prova altalenante e a tratti velleitaria. Meritano poi un cenno i risultati raggiunti da Luca Genovese e Matteo Cremona. Il primo, coadiuvato da Luca Vanzella (con cui ha ricomposto il team creativo di Beta), realizza un episodio ambientato in una Bologna sommersa dalle acque e abitata da una pericolosa comunità di adolescenti e bambini, svolgendo un’ottima opera di rappresentazione dei personaggi e riuscendo a integrare bene le proprie influenze stilistiche derivanti dai manga con uno stile più aderente ai canoni occidentali. Matteo Cremona, in un fruttuoso sodalizio con Mauro Uzzeo, realizza, in “Tabula rasa”, forse l’albo più compiutamente risolutivo nel percorso di ridefinizione dei limiti della gabbia bonelliana, in cui riesce a modulare il ritmo di lettura e la struttura delle tavole al fine di scandire il tempo, di creare atmosfera e di definire stacchi tra le scene e tra le ambientazioni.

Nell’impatto grafico e nella costruzione narrativa, il colore svolge un ruolo ancor più indispensabile che nella precedente stagione. Le scelte cromatiche sono spesso state dettate dall’esigenza di trasmettere l’atmosfera e le emozioni. Nel percorso che attraversa le varie città di un’Italia distrutta, viene deciso di abbinare colori specifici a ogni città: dalle sfumature di blu della Napoli dell’episodio iniziale al verde caldo e denso della storia ambientata a Roma; dal giallo asfissiante di Bologna al grigio opprimente di Milano. Tali scelte contribuiscono a generare un’identità ben definita per ogni paesaggio in ogni singolo episodio, concorrendo al processo di defamiliarizzazione di luoghi simbolici che genera un effetto straniante e coinvolgente.

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I luoghi: intenzioni, generi e vincoli

La prima stagione di Orfani vede alternarsi tre ambientazioni: il campo di addestramento di Dorsoduro (con propaggini cittadine nelle prove finali) per la linea nel passato, il pianeta alieno e l’astronave terrestre per la linea del presente. È come una rappresentazione teatrale: più che di scenari si può parlare di scenografie, che non rubano l’attenzione agli attori. Nella seconda stagione, al contrario, la struttura a episodi si dispone su un percorso volutamente più realistico attraverso il nostro paese. Non è la prima volta che l’Italia compare in un fumetto italiano: si prenda ad esempio la trasferta fiorentina di Martin Mystere, l’avventura di Volto Nascosto, o, per uscire dalla Bonelli, l’ottima miniserie Valter Buio. Certo è che una propensione per ambientazioni fuori da confini nazionali è da sempre una delle principali fascinazioni fumettistiche nostrane, e verrebbe quindi da annoverare la decisione di utilizzare il Bel Paese come uno dei pregi della serie. Il problema è che, in sostanza, “Orfani: Ringo” non supera un’adozione larvale dei contesti in cui si muove.

L’intenzione in partenza è ambiziosa: Napoli, Montecassino, Roma, Bomarzo, Lucca, Bologna e Milano non si limiterebbero a essere lo sfondo defamiliarizzato per le avventure dei protagonisti, ma dovrebbero caricarsi, come nella migliore fantascienza, di un sottotesto metaforico che aspira a descrivere la contemporaneità per mezzo del futuro distopico (un po’ come si era già visto nell’utilizzo di Atene per ambientare le rivolte della prima stagione). L’integrazione di testo e sottotesto, però, rimane un interessante gioco poco sviluppato, e ricade nel difetto del filone politico della testata: tra volontà e realizzazione manca, forse per una troppo decisa spinta verso la componente action, la dovuta profondità.

Se si mette da parte, in sostanza, un ottimo comparto artistico, si ha la sensazione di una contestualizzazione superficiale. Per convincersene, basta guardare i protagonisti: Nuè, Rosa e Seba ci sono presentati a Napoli, e potremmo quindi ipotizzarli partenopei, ma nulla traspare delle loro origini, né nelle loro modalità di comportamento, né nel gergo che usano, che si adagia sugli schemi cinematografici della testata. Sono apolidi, insomma, e non sono i soli: da Monte Cassino a Roma, da Bologna a Milano, non si notano vere differenze fra le relative popolazioni autoctone.

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Viene da pensare che il genere post apocalittico, scelto come suggestione primaria, e il suo corollario sulla perdita della memoria storica dell’umanità, sia divenuta una condizione vincolante, impedendo ai personaggi di contorno di vivere davvero al di là della loro mera funzione di comparse a tema. Il viaggio vero di Ringo finisce col ridursi non tanto a una peregrinazione fra le città italiane, ma fra gli stereotipi di certa narrativa avventurosa, che vengono inanellati in sequenza, fra vecchi alleati che nascondono patti con il nemico, individui amichevoli con segreti inconfessabili, aggressivi bambini autarchici e cannibali con manie religiose.

Il contesto geografico semplificato, d’altro canto, è una “malattia” che Orfani si porta dietro dal primo anno, quando i protagonisti spagnoli conservavano ben poco di iberico. In questa stagione si aggiunge però un ulteriore elemento: non è solo l’Italia “reale” a mancare, ma è l’intero mondo a ritirarsi in uno sfondo indistinto. La sensazione, piuttosto straniante, è che la Juric sia l’unico reggente dell’intero Governo Straordinario di Crisi, e che non debba rendere conto a nessuna ulteriore struttura di potere, sia essa appartenente al GSC o collegata a nazioni esterne, come se la Devastazione le avesse annullate. Se da un lato può essere, ancora una volta, una scelta per concentrarsi sulle dinamiche dei protagonisti, dall’altro riesce difficile pensare come una situazione così poco definita sia utile a dispiegare in maniera credibile la trama.

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Conclusioni: verso un Nuovo Mondo

Siamo ormai alla vigilia della terza stagione: dopo aver strizzato l’occhio a Fanteria dello spazio e dopo essersi tuffata nelle suggestioni post apocalittiche di La strada, Orfani si appresta a pescare nell’immaginario della fantascienza avventurosa. Una cosa è certa: per una casa editrice conservatrice come la Bonelli, la serie ideata da Roberto Recchioni ed Emiliano Mammucari rappresenta un’esperienza da segnalare.
Perché, affidando la realizzazione a uno studio esterno, vede rilassarsi la tradizionale ossessione per il controllo della casa meneghina sui suoi prodotti; perché nasce come elemento cross mediale nelle influenze creative e nella realizzazione (si veda il rapporto con il web e la trasmissione della costola animata); perché vede una compiuta e immediata collaborazione con altri editori (Bao, Multiplayer) vissuta in parallelo e non come “gratificazione postuma”; perché gioca con la morale e con i personaggi in modo diverso dai vari Tex, Zagor, ma anche Dylan Dog, Dampyr o Saguaro; perché a livello di narrativa grafica cerca di svecchiare la grammatica della casa madre. E sì, anche perché è il primo esperimento compiutamente a colori per via Buonarroti: dettaglio da mettere in coda, perché se ne è parlato molto e a prima vista sembra un orpello, e invece, al di là della facile carica pubblicitaria iniziale, è diventato, con il passare dei numeri, un elemento di primaria importanza.

Insomma, Orfani è un prodotto importante. Non perfetto, a volte lungi dall’esserlo, ma di sicuro un segno che in Bonelli qualcuno deve aver capito che, oltre all’indiscutibile e glorioso passato, c’è un possibile futuro. E un Nuovo Mondo tutto da esplorare.

 

Abbiamo parlato di:
Orfani: Ringo #1 – #12
Roberto Recchioni, Mauro Uzzeo, Luca Vanzella, Emiliano Mammucari, Luca Maresca, Carlo Ambrosini, Alex Masacci, Davide Gianfelice, Alessio Avallone, Luca Genovese, Paolo Bacilieri, Werther Dell’Edera, Matteo Cremona, Luigi Pittaluga, Giancarlo Olivares, Roberto Zaghi, Annalisa Leoni, Alessia Pastorello, Giovanna Niro, Nicola Righi, Stefania Aquaro, Fabiola Ienne, Luca Saponti
Sergio Bonelli Editore, ottobre 2014 – settembre 2015
Volumi da 96 pagine, brossurati, colori – € 4,50 ciascuno

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