La solitudine del fumettista errante: com’è difficile essere Adrian Tomine

La solitudine del fumettista errante: com’è difficile essere Adrian Tomine

A metà tra commedia e tragedia, Tomine si racconta attraverso i successi (rari) e le delusioni (costanti).

Stupidi Idioti

Fresno, 1982. Un giovanissimo Adrian Tomine si è appena presentato ai suoi nuovi compagni di scuola come un appassionato di comics e aspirante autore. La risposta è una sonora risata. Comincia e continua così La solitudine del fumettista errante, il più recente lavoro di Adrian Tomine, a quattro anni da Morire in piedi (Rizzoli Lizard, 2016) e che nel 2021 si è aggiudicato un Eisner Award nella categoria Best graphic memoir.

Già dal titolo è chiaro come la narrazione sia tutt’altro che gloriosa, e del resto la cifra stilistica e la notorietà stessa dell’autore si è costruita su storie sostanzialmente tristi o perlomeno amare. In Summer Blonde o Sonnambulo Tomine raccontava, con uno stile asciutto che traduceva in maniera mirabile la lezione di scrittori come Raymond Carver, l’esistenza nelle sue meschinità quotidiane, le piccole e grandi inadeguatezze e insicurezze che affliggono molti di noi (il protagonista de Una lieve imperfezione, Bur 2008), le difficoltà di comunicazione tra padri e figli o quelle sentimentali e amorose (Morire in piedi).

Quello che distingue questo ultimo lavoro è il fatto che per la prima volta l’autore metta se stesso al centro della scena e scelga di accentuare la componente ironica del racconto. Se infatti l’elemento autobiografico era già presente in titoli come Una lieve imperfezione, il cui protagonista ha diversi punti di contatto con l’autore, bisogna risalire a Scene da un matrimonio imminente (Rizzoli Lizard 2011) per trovare l’autore nei panni di protagonista “as himself”.
L’altro punto in comune tra La solitudine del fumettista errante e Scene da un matrimonio imminente – oltre alla lunghezza del titolo – è la scelta di dare alla narrazione un taglio decisamente comico. Un dato non banale per un autore che, salvo rarissimi casi, ha definito il proprio stile incentrandolo sul racconto della quotidianità più ordinaria, spesso grigia o persino triste, solitamente dolente.

Ma se Scene da un matrimonio imminente nasce come un piccolo collage di storielle dedicate al futuro matrimonio e realizzato in primis come bomboniera per gli invitati, stavolta Tomine affronta direttamente il suo pubblico, mettendosi in gioco (e in mostra) come mai aveva fatto prima. Anche la scelta di stampare il lavoro su fogli quadrettati recupera in qualche modo l’estetica da sketchbook che connotava il libretto/bomboniera. Ma le analogie finiscono qui, perché le ambizioni de La solitudine del fumettista errante sono evidentemente maggiori, tanto che per raggiungerle l’autore aggiorna il proprio modo di raccontare, alzando l’asticella.

Lei non sa chi sono io

Uno degli aspetti più interessanti del lavoro sta nella sua contraddittorietà, che si articola su più livelli. Il primo è quello costituito dalla scelta di fare di se stesso il fulcro assoluto della narrazione, celebrando però le proprie frustrazioni e i propri insuccessi e mostrandosi continuamente in difficoltà nel gestire la dimensione pubblica della sua professione. Piuttosto che esaltare la propria carriera e la legittima soddisfazione per essere riuscito a realizzare il sogno della sua infanzia – fare di una passione il proprio lavoro –, Tomine si mostra, alla stregua dei suoi personaggi, in tutta la propria manchevolezza, alle prese con delusioni e imbarazzi, ferito dalle critiche o incapace di sentirsi a proprio agio nei panni di autore.

Il secondo livello gioca sulla differenza tra il modo in cui vediamo noi stessi e come invece ci vedono gli altri (o pensiamo che ci vedano). La distanza tra l’immagine di autore affermato (se non addirittura di riferimento) e la percezione che il diretto interessato ha di sé e del proprio lavoro. Come ben sottolinea qui David L. Ulin del Los Angeles Times, Tomine esplora questa dicotomia in chiave ironica dal momento che decide di utilizzare se stesso come soggetto dello studio: la testimonianza offerta al lettore è in realtà viziata dal fatto che è sempre l’autore, e non un soggetto esterno, a raccontarsi “come lo vedono gli altri”.

É come essere il più famoso giocatore di badminton

Questo il modo in cui Daniel Clowes descrive il massimo livello di notorietà accessibile per un autore di fumetti (o graphic novel se preferite). Clowes è uno dei maestri dichiarati di Tomine, che appare, assieme ad altri nomi celebri del comicdom USA, nelle pagine del libro. E proprio Clowes aveva già raccontato nel suo Pussey! (edito anche da noi da Oblomov) la difficile vita dell’autore di fumetti.

In Pussey! Daniel Clowes racconta la travagliata carriera di Dan Pussey, disegnatore di supereroi che finisce alle dipendenze di un editore abbastanza privo scrupoli e più interessato al profitto che alla realizzazione artistica e personale dei propri dipendenti. Con lo stile caricaturale e fortemente caustico che lo caratterizza, in Pussey! Clowes racconta le angherie subite da aspiranti autori carichi di passione ma decisamente sprovveduti quando non proprio tonti. Che vengono circuiti, blanditi e sfruttati da imprenditori che si spacciano per autori e pionieri di una nuova forma di espressione artistica ma che ben poco hanno di nobile. La satira feroce di Clowes se la prende un po’ con tutti, sfruttati e sfruttatori, e senza fare nomi precisi regala una carrellata di ritratti deformati quel tanto che basta a rendere comunque riconoscibili alcuni grandi nomi del fumetto USA.

Ne La solitudine del fumettista errante Tomine invece fa, come abbiamo visto, una scelta diversa e decide di raccontare la propria esperienza, dagli inizi all’oggi. Ovviamente questo rischia di ripercuotersi sull’esperienza di lettura dal momento che è forte la tentazione di approcciare il lavoro come una specie di diario dell’autore, grazie al quale approfondire la conoscenza di un fumettista che negli anni si è costruito un solido gruppo di estimatori grazie a narrazioni delicate e sentimentali ma allo stesso tempo piuttosto “fredde”. L’altro aspetto che accompagna la lettura – almeno la prima – è quello che, soprattutto davanti agli episodi più bizzarri, rischia di suscitare nel lettore la domanda “ma è successo davvero?” A questo interrogativo, in realtà abbastanza fuorviante quanto inevitabile, lo stesso Tomine ha risposto dicendo che tutto ciò che ha raccontato nel libro è sostanzialmente vero, seppur in alcuni casi la realtà abbia subito dei maneggiamenti.

Mettendo da parte queste derive un po’ superficiali va detto che la decisione di rendere se stesso il protagonista del libro finisce, per assurdo, per togliere in alcuni episodi forza al racconto. Perché la mole, ingombrante, del protagonista causa inevitabilmente una perdita di universalità: se era molto facile immedesimarsi nella dipendente del supermarket raccontata in Sonnambulo, che per strada non rivolge parola al ragazzo per non farsi sentire dall’anziano cliente cieco che le è molto affezionato, è sicuramente meno facile calarsi nei panni non di un autore X ma in quelli precisi di Adrian Tomine in ansia prima di un reading a New York.

Parole, parole, parole

Uno degli aspetti che funziona meno del libro è il ricorso ad abbondanti balloon in cui il nostro protagonista rimugina, si angoscia, ipotizza, si lamenta, si rimprovera. Un cambiamento importante rispetto allo stile ormai consolidato in cui primeggiavano dialoghi secchi e naturali e scene mute in cui era palpabile lo stato d’animo timoroso o colpevole dei personaggi. Questo massiccio uso del testo (che comunque non caratterizza tutta la narrazione) costituisce uno dei meccanismi su cui è incentrato il lavoro, dal momento che, esplicitando i pensieri del protagonista, rivela al lettore come Tomine stia vivendo una determinata situazione (generalmente con imbarazzo o peggio) che, tradotta in immagini, appare del tutto normale e innocua. Un espediente comico efficace ma di cui l’autore alla lunga abusa, con la conseguenza di togliere freschezza a una narrazione già per sua natura abbastanza ripetitiva.

Non è infatti un caso che alcuni dei momenti migliori del volume siano quegli episodi in cui l’autore, utilizzando un registro tragicomico, ricorre a pochi, misurati balloon e a vignette completamente mute, in cui i silenzi riescono perfettamente a restituire il mood della situazione. Oppure quando i balloon sono sì presenti, ma da ideogrammi giapponesi, incomprensibili per il lettore (e, deduciamo, per Tomine stesso) ma senza che questi pregiudichi la comprensione della dinamica.1

Tomine contro tutti

Il racconto della professione di fumettista offre anche uno sguardo “dietro le quinte” sul mondo del fumetto USA, un po’ come accade nel già citato Pussey! di Clowes o ne Il sognatore di Will Eisner. Tomine racconta i suoi Comic-Con, il battesimo del fuoco (è il caso di dirlo) con l’ambiente professionistico e tutta l’eccitazione suscitata dal trovarsi spalla a spalla con gli autori che hanno forgiato il suo immaginario. L’occasione è interessante per chi volesse, seppur superficialmente, ficcare un po’ il naso nell’ambiente dell’industria USA, dove è possibile ad esempio partecipare a crociere durante le quali cenare con personaggi del calibro di Neil Gaiman (se si è fortunati) o Adrian Tomine (se lo si è meno). Neil Gaiman, Frank Miller, il compianto Richard Sala, Seth sono alcuni degli autori che compaiono o vengono menzionati nelle pagine del libro. È superfluo dire che Tomine vive il rapporto con i propri colleghi più famosi con una discreta dose di frustrazione, ma il tutto viene raccontato con una felice ironia che rende gli episodi in cui ricorrono i nomi di Gaiman e Miller una gustosa e vera e propria mini-serie nella serie.

Nel racconto che l’autore fa della sua professione è possibile ravvisare alcuni aspetti comuni anche alla situazione nostrana circa la marginalità del mondo del fumetto, che si concretizza in sessioni di firme quasi deserte, la scarsa conoscenza del medium da parte di giornalisti e stampa, il complesso di inferiorità che alcuni fumettisti (Tomine ovviamente è tra questi) vivono nei confronti degli scrittori di prosa. L’occasione è anche propizia per togliersi qualche sassolino dalla scarpa: il riferimento è all’edizione 2016 del Festival di Angoulême e alla falsa premiazione imbastita dal presentatore della serata, il comico Richard Gaitet, nella quale Tomine figurava tra i vincitori. Ma sarebbe sbagliato restituire l’idea che La solitudine del fumettista errante sia un libro cupo e animato da un senso di rivalsa, è vero il contrario: si tratta senza dubbio di uno dei lavori più leggeri dell’autore, in cui vittima e carnefice ironicamente coincidono, dal momento che Tomine addita se stesso come il principale responsabile delle sue frustrazioni o difficoltà.

Ritratto dell’artista da sfigato

Un fattore importante, se non determinante, nell’approcciare il libro, risiede nella conoscenza dei lavori precedenti dell’autore e di conseguenza, della fisionomia autoriale dell’autore stesso. Resta altrimenti difficile trovare credibili gli imbarazzi del nostro a seguito di situazioni assolutamente ordinarie, così come potrebbe avere scarso interesse seguire le vicissitudini lavorative, raccontate in maniera piuttosto superficiale, di uno dei tanti fumettisti USA. Le piccole e ridicole idiosincrasie che l’autore mette in scena sono la versione comica degli imbarazzi e delle angosce che popolano le sue storie, e che qui trovano una declinazione meno seriosa e più faceta. In questo aspetto risiede forse uno dei limiti maggiori del libro, ovvero nella necessità per chi legge, di conoscere almeno in parte la poetica dell’autore e anche il contesto in cui questo si muove: sapere chi siano Frank Miller e Roger Crumb, cosa siano il Comic-Con o la Fantagraphics è necessario per poter comprendere appieno quanto si legge, anche perché Tomine, come nel suo stile, precipita il lettore nella storia senza fornire alcuna indicazione o coordinata.

Capire il quadro e i riquadri

Come abbiamo detto, l’intero lavoro è organizzato in brevi paragrafi divisi per anno, in rigoroso ordine cronologico. Una struttura, quella episodica, che ha segnato la parte iniziale della carriera dell’autore e che qui viene opportunamente adottata per dare ritmo a una narrazione che, mancando di un vero e proprio intreccio, avrebbe patito se fosse stata proposta in maniera troppo lineare e continua. Altrettanto rigorosa è la costruzione della pagina, suddivisa in una griglia di sei riquadri, due per colonna. Uno schema a cui l’autore deroga soltanto una volta, nelle ultime pagine del libro, in un passaggio che potremmo definire catartico e che costituisce sicuramente uno dei momenti più intensi dell’intera produzione di Adrian Tomine. Ognuno di questi brevi episodi è indicato dall’anno e il nome della città in cui ha avuto luogo: nessun titolo a dare una spiegazione o anche solo suggerire il motivo per cui quel dato evento è così significativo.
Tocca al lettore trarre le somme di quanto letto e posizionarlo all’interno dell’economia del libro, collegando tra loro i punti, tracciando collegamenti tra i vari episodi, individuando, pur nella brevità dell’opera, i temi o le situazioni ricorrenti.

Solo in questo modo si può abbracciare quello che Tomine lascia appena fuori dalla luce dei riflettori, sempre puntati su di lui, riempiendo i vuoti che separano tra loro i vari episodi, quasi fossero gli spazi bianchi che separano le vignette. Ecco quindi che, nonostante restino in primo piano le delusioni e gli imbarazzi, non può sfuggire il fatto che la carriera dell’autore decolli, fino a farlo diventare oggetto dell’attenzione dei media, statunitensi ed europei, come raccontato nell’episodio che ha luogo ad Angoulême nel 2009. E sempre in sordina vediamo come si evolva la dimensione affettiva e sentimentale: nel 2011 Tomine si mostra assieme alla moglie Sarah e alla piccola Nora. Nel 2016 le bambine sono due, c’è anche la piccola May. La solitudine del titolo è ormai un ricordo, ma la narrazione resta comunque focalizzata sul racconto delle proprie inadeguatezze – nel nuovo ruolo di padre – e lo stesso “rischia” di fare il lettore, se cade nel tranello di fermarsi a guardare il quadro senza osservare anche la cornice.

La fine è il mio inizio

É il titolo di un famoso libro di Tiziano Terzani che ben si adatta al capitolo conclusivo del La solitudine del fumettista errante. In questo episodio, il più lungo del libro, l’autore riesce (finalmente) a trasformarsi in uno dei personaggi che popolano le sue storie e porta a compimento (immaginiamo non definitivo) il suo personale viaggio all’interno della sua carriera/vita. In questo toccante e allo stesso tempo ironico spaccato di quotidianità, Tomine riesce a prendersi seriamente in giro, senza eccessi retorici, riuscendo a essere al contempo leggero e intenso.
Con grande naturalezza, quella che alle volte è mancata nelle pagine precedenti, l’autore racconta il momento in cui si trova costretto a fare dei bilanci, superare un’immagine di sé che lui stesso si è imposto, accettandosi senza troppa indulgenza né severità. E ancora una volta tutto questo passa, seppur in maniera tangente, attraverso il fumetto.

La solitudine del fumettista errante non è probabilmente il titolo da consigliare a chi non abbia mai letto un lavoro di Adrian Tomine: nonostante sia un’opera godibile a prescindere dalla conoscenza dell’autore e del contesto a lui circostante, è indubbio che affrontarlo consapevoli del percorso autoriale di Tomine costituisca sicuramente un valore aggiunto, per apprezzare meglio anche il cambio (misurato, com’è nel suo stile) di passo.

Se ci si trova poi nella condizione di condividere con il protagonista/autore alcuni dati biografici come età e situazione familiare, questo nuovo lavoro, seppur meno deflagrante di altri, aggiunge un nuovo e imprevedibile capitolo alla costruzione di una relazione lunga e addirittura formativa, iniziata quasi venti anni fa con la pubblicazione dei suoi primi lavori in Italia.

Abbiamo parlato di:
La solitudine del fumettista errante
Adrian Tomine
Traduzione di Vincenzo Filosa
Rizzoli Lizard, 2020
160 pagine, brossurato, b/n – 19,00 €
ISBN: 978-8817148528





  1. Piccola “spigolatura” per gli amanti del genere, l’episodio in oggetto ha luogo a Tokyo, nel 2003, e ha delle assonanza con Lost in Translation, il film di Sofia Coppola uscito lo stesso anno 

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