“Pronto… Mi chiamo Neil, ho 34 anni, 1,80, peso normale. Mi interessa… Il cinema, la musica, i viaggi… Qualunque cosa. Oddio sono una frana, mi spiace… Potrebbe cancellare il messaggio?”
(Neil nell’intento di pubblicare un annuncio personale per cuori solitari)
Alcuni artisti hanno il dono della narrazione pur non avendo un talento artistico altrettanto illuminante. Mi riferisco a tutti quegli autori che, alla fine degli anni ’90 e con l’inizio del nuovo millennio, sono venuti alla ribalta grazie al fenomeno “graphic novel”, fenomeno che dura tutt’oggi, tra vasti consensi e altrettante critiche.
Un paio d’anni fa mi contattarono per realizzare un fumetto e, che ci crediate o no, la parola “fumetto” non è mai stata usata nell’espormi il progetto; il committente usava solo il termine “graphic novel”, questo per farvi capire fino a che punto questo termine, o genere, sia ormai sulla bocca di tutti. Forse per molti dire “graphic novel” significa dare maggior rispetto ad un genere come quello dei fumetti a lungo denigrato.
Una delle caratteristiche di alcuni graphic novel sembra essere quella di avere una storia interessante sorretta da un disegno che lo è un po’ meno. Come mi disse il compianto Sergio Bonelli parlando di graphic novel: “… i disegni richiedono una certa complicità a cui non sono abituato. A volte idisegni sono solo abbozzati, forse perché per gli autori è molto più importante la storia, mentre io, per motivi generazionali, sonopiù legato ai disegni”.
Non aveva del tutto torto il grande autore/editore; quando apriamo un albo a fumetti il primo impatto è visivo, osserviamo i disegni di ogni singola vignetta e poi decidiamo se comprarlo. Con i graphic novel non è proprio così. Se dovessimo aprire un graphic di Chester Brown o di James Sturm o di David Small (chi vi scrive è un grande estimatore di tutt’e tre) saremo perlopiù incuriositi ma non completamente presi dai disegni così come ci potrebbe capitare con un albo di Hermann o di Eisner.
La prima volta che sfogliai un albo di Adriane Tomine provai curiosità. Erano dei racconti contenuti nella raccolta Sonnambulo e altre storie; mi incuriosivano i volti dei personaggi, a volte statici, con lo sguardo spento, triste. Più leggevo e più mi rendevo conto che l’autore raccontava sfruttando le espressioni dei suoi personaggi. E questi ultimi erano perfettamente collocati nelle vignette; gli scenari potevano sembrare didascalici ma erano veri, come le sue storie, che raccontano situazioni puramente quotidiane.
I quattro racconti contenuti nel volume Summer Blonde rappresentano uno dei migliori esempi del nuovo fumetto indipendente americano. Tomine racconta storie ordinarie con un segno grafico ordinario ma di grande efficacia: l’uso dei neri nel racconto Hawaiian getaway è perfetto, capace di creare le giuste atmosfere in cui si muove la protagonista Hillary e il massiccio uso dei retini ha una funzione più coreografica che necessaria alle esigenze dell’artista.
Ma quello che più colpisce di Tomine è il suo modo di raccontare le sue storie e di far parlare i suoi personaggi; all’apparenza degli sfigati qualsiasi, dei perdenti che in alcuni casi ottengono una vittoria dal “sapore” amaro, in altri restano imprigionati nella routine quotidiana nella quale sembrano istituzionalizzati. I protagonisti di queste storie sono brutti, depressi, soli, costretti a fare i conti con i successi degli altri (come nel caso del racconto Summer Blonde) e i propri fallimenti. E Tomine, nel raccontare questo microcosmo americano, non usa soltanto la sua abilità narrativa ma cerca di trasferire gli stati emotivi dei suoi personaggi attraverso il suo segno, sicuramente statico ma allo stesso tempo incredibilmente espressivo.
E sono diversi, in questi quattro racconti, i momenti molto efficaci in cui Tomine combina le sue intuizioni artistiche e narrative: il finale nella metropolitana in Summer Blonde; gli scherzi telefonici di Hillary ai danni di ignari passanti; la tavola finale muta di Bomb scare e altre sequenze in cui ironia e quotidianità sono in perfetto equilibrio. Il segno di Adrian Tomine vanta una bella sintesi che di certo non è priva di alcuni dettagli che rendono le sue tavole ricche a livello visivo; le inquadrature e i tagli sono ben studiati e perfettamente funzionali ai suoi racconti. E nonostante vi sia una certa staticità nel suo disegno, i suoi racconti sono tutt’altro che statici.
Tomine è uno di quei pochi autori del fumetto contemporaneo che riescono a sorprenderci; come dicevo prima il suo disegno a primo colpo potrebbe far storcere il naso a chi è abituato a un disegno tecnicamente impeccabile e fortemente coreografico, ma in realtà anche un artista come lui riesce a sorprendere e a catturare con le solo immagini: valgano per tutti le sue bellissime copertine per la rivista New Yorker.
Ma prima di tutto Tomine è un autore formidabile: un artista che usa le immagini per narrare; un narratore che fa dei disegni le sue parole.
Curiosità
I quattro racconti presentati nel volume consigliato furono pubblicati su alcuni numeri del comic book Optic Nerve auto prodotto dallo stesso Tomine: Alter ego nel n. 5, Hawaiian getaway nel n. 6, Sumer blonde nel n. 7 e Bomb scare nel n. 8.
I nonni di Adrian Tomine erano giapponesi e pertanto l’autore è di quarta generazione americana giapponese (i suoi genitori trascorsero la loro infanzia in un campo di internamento giapponese durante la seconda guerra mondiale).
Gli autori che più l’hanno influenzato sono gli indipendenti Jamie Hernandez e Daniel Clowes.
Edizione consigliata
Una buona edizione questa della Coconino, risalente al 2003: brossurata con sovracopertina e buona qualità di stampa. Nessun’altra edizione italiana.