Il nome di Dino Battaglia e quello di Sergio Toppi sono spesso accostati, quando si parla di padri del fumetto italiano. A un’indagine più approfondita, si nota in effetti una certa comunanza di intenzioni che avvicina i due fumettisti: dal Corriere dei Piccoli al Messaggero dei ragazzi, da Linus alla Cepim, le loro strade paiono incrociarsi molto spesso. E i parallelismi non finiscono qui: entrambi si sono occupati di trasposizioni e adattamenti letterari1; entrambi si sono prestati all’operazione di graphic novel seriale di Un uomo un’avventura2; entrambi hanno dato vita ad un unico personaggio originale3. Che lo stile di Battaglia abbia influenzato quello di Toppi è quest’ultimo a confermarlo più volte ma, nonostante le somiglianze “d’atmosfera”, i due sviluppano un proprio stile personale, che li rende immediatamente riconoscibili.
In questa sede vorrei soffermarmi in particolare sull’adattamento a fumetti di Gargantua e Pantagruel e su Sharaz-de, opere in cui la maestria degli autori si rivela in tutta la sua forza.
Da François Rabelais a Dino Battaglia:
la gigantesca storia di Gargantua e Pantagruele
Nella trasposizione del classico rabelesiano, Dino Battaglia s’è trovato di fronte a cinque libri in un francese cinquecentesco maccheronico, colto e volgare insieme, ricco di situazioni eroicomiche e triviali al limite dello scatologico. E tutto ciò doveva esser destinato a un pubblico infantile (l’edizione del 1993 cerca di ripristinare il linguaggio e le situazioni purgate da Battaglia, per rendere l’opera più fedele all’originale).
L’operazione riesce, grazie alle qualità stilistiche del disegnatore. Già dalla prima pagina, il lettore si sente calato in una dimensione magica, da fiaba, a cui contribuisce anche il titolo Gargantua e Pantagruele – pieno, geometrico, in giallo pastello e ocra e con un che di infantile. Le due vignette che occupano la pagina presentano caratteristiche tipiche dello stile Battaglia: i balloons si fanno spazio nelle vignette, mentre i personaggi e gli oggetti contenuti ne escono. Vediamo i due contadini della Turenna, molto simili ai nanetti della fiaba di Biancaneve, i cui piedi appoggiano sullo spazio bianco tra le due vignette, e anche la tovaglia, i libri, l’astrolabio, le carte e le lettere della seconda vignetta (che ricorda lo studio del Mago Merlino disneyano) perdono i contorni e si spandono sulla pagina.
Le fisionomie umane e gli oggetti comuni hanno tratti semplici, naïf: il volto del secondo contadino così come la tovaglia sul tavolo del letterato presentano una linea di contorno essenziale, spigolosa, quasi incerta. Ma l’architettura alle spalle dell’uomo, la scritta in «corsivo cancellieresco» e, soprattutto, l’astrolabio sono disegnati con cura tale da rendere palpabile la sensazione di essere in un mondo antico, insieme scientifico-realistico e magico. Questo particolare “sapore antico” deriva in larga parte dall’inchiostrazione delle tavole. L’acquerello dei bozzetti preparatori viene trasferito sulla pagina e “sporcato” attraverso la sovrapposizione di quella che pare una patina più scura, ottenuta forse con una spugnatura, e che produce un effetto simile alleTexturologies di Dubuffet (si veda Vie exemplaire du sol (Texturologie LXIII), 1958).
La prima pagina presenta in nuce tutti gli aspetti più caratteristici di quest’opera, in particolare, e dello stile fumettistico di Battaglia in generale: grande libertà nella gestione delle vignette, funzionali al contenuto, contorni spigolosi e semplici ma che rendono volti espressivi, architetture bozzettistiche dettagliate, colori pastello e tinte tenui ricoperti da una patina anticata, bianco che acquista tridimensionalità. Nella storia di Pantagruel, alle pagine 98 e 99 durante la terribile tempesta che colpisce la nave dell’eroe eponimo, Battaglia disegna le acque del mare non con linee fluide, bensì con tratti spezzati e spigolosi, mentre usa il blu acciaio e il nero in modo invertito, con un effetto “negativo”. Ne risulta una sensazione di caos controllato, in una natura quasi spettrale. Allo stesso tempo, la contrapposizione netta tra il blu e il nero avvicina la vignetta alle xilografie giapponesi delle onde.
La sensazione generale, dopo aver letto le opere di Dino Battaglia, è quella di aver compiuto un viaggio nel passato (sia esso cinquecentesco, fine ottocentesco o dei primi del novecento), in cui le immagini, come delle vecchie foto, si sono scolorite, hanno perso nettezza ma hanno, a loro volta, acquistato una certa atmosfera magica.
Tra illusioni ottiche e realismo magico
Sharaz-De di Sergio Toppi
Sharaz-de è, invece, la trasposizione in fumetto delle “Mille e una Notte”, o più precisamente una rielaborazione della materia, per la quale Sergio Toppi mantiene pressoché inalterata la trama della cornice e crea, poi, le sue storie à la Sherazade. L’atmosfera di magia di cui si parlava per Battaglia emerge, con prepotenza, anche dalle tavole di Toppi, in un modo completamente diverso.
Le pagine del fumettista milanese sono un moltiplicarsi di linee, trattini e cerchi, onde e geometrie. Fatta eccezione per i volti, estremamente espressivi nei loro caratteri medio-orientali, ogni altro elemento della pagina è scomposto quasi cubisticamente, per cui chiari e scuri sono altrettanti tratti, più o meno spessi, più o meno concentrati. Siamo di fronte a incisioni – e dopotutto è Toppi stesso a definirsi un amante delle acqueforti4 – di una precisione, di una ricercatezza straordinarie, paragonabili in alcune pagine alle illusioni ottiche della opt art, alle decorazioni ghiglioscé e all’ebanisteria. Ma l’aspetto più stupefacente delle sue opere (non solo di Sharaz-de) è la fluidità con cui le immagini si susseguono, una dopo l’altra, in una meravigliosa soluzione di continuità. Ecco, allora, che il contorno di un uccello diventa chiome di alberi e poi uomo, e il suo corpo, scomposto in trattini ma ancora visibile, si unisce allo sfondo per diventare vegetazione e poi lago, in cui una figura umana si riflette due volte, in un effetto “negativo” (p. 22).
Toppi fa saltare la vignetta, scardina la convezione del contorno, per lavorare a pagina piena. Le sue splash-pages fondono piani sequenziali diversi, sfondi e oggetti diventano un tutt’uno, intrecciati al punto da non sapere dove finisca l’uno e inizi l’altro. E nel caso in cui le vignette ci siano, mostrano una porosità tale per cui il contenuto scivola nelle vignette successive, invadendole, completandole, arricchendole.
Che si tratti di piani interi, primi o primissimi piani, il punto focale cambia radicalmente, senza preavviso, passando da inquadrature frontali a plongée e contre-plongée. In Sharaz-de nulla è come sembra, sia a livello narrativo, sia a livello visivo. Addirittura il bianco, lo spazio vuoto della pagina, diventa altro da se stesso (e in questo si vede il modello di Battaglia portato a ben più sperimentali soluzioni).
Due esempi di questa tecnica magistralmente padroneggiata si trovano alle pagine 149, 156 e 157. Nel primo caso la pagina è suddivisa, questa volta chiaramente, in due aree. Quella superiore è occupata da una striscia nera, interrotta dalla sagoma di un ovale bianco la cui punta esce dal contorno della vignetta, fondendosi con il bianco del margine. All’interno si trova un uccello fantastico, simile a un airone gigante, che porta sulla propria testa un uomo. La didascalia recita: «Poi d’improvviso un cerchio di tenebra si strinse attorno a loro e l’uomo faticò per tornare alla luce del sole». Nella vignetta inferiore, infatti, vediamo un uomo fuoriuscire dalla punta di un uovo gigante, la cui forma e posizione rispecchiano quella dell’ovale nella vignetta soprastante. Lo sfondo di una vignetta, quello che potremmo definire il vuoto, il non luogo della pagina, s’è magicamente convertito in oggetto tridimensionale, la cui matericità è sottolineata dalla crepa che si apre lungo il suo guscio.
Nel secondo caso, invece, l’illusione ottica avviene tra due pagine contigue. La splash page a sinistra riesce, come in un gioco di architetture quasi impossibili, a unire tridimensionalità e bidimensionalità: il profilo del tempio, gli uccelli e l’uomo sono resi tridimensionalmente, mentre il supposto terreno sul quale egli è seduto, e soprattutto il bianco che fa da sfondo appaiono semplicemente come uno spazio vuoto, quest’ultimo a dividere le due vignette, apparendo nella parte superiore come un cielo, e nella parte inferiore, in corrispondenza dell’uomo, come un muro (e infatti vi si proietta l’ombra). Ma nella pagina a lato, divisa in quattro vignette verticali ritraenti la stessa porzione di immagine in rapida sequenza cronologica, in quello che sembrava un vuoto si crea una fessura, e il bianco inconsistente diventa una superficie reale, le mura del tempio descritte nella didascalia a pagina 156.
Una tecnica, questa, che pare riecheggiare opere di Fontana – sebbene i suoi Concetto spaziale. Attese. rendessero la tridimensionalità in modo plastico, pittura e scultura al tempo stesso – e i trompe l’oeil magrittiani. Il risultato è quello di un realismo magico, di una dimensione talmente dettagliata da sembrare reale pur nella sua fantasmagoria, specialmente nella storia Ho atteso mille anni. Qui le pagine vibrano di colori irreali, non mimetici; sono verdi acquamarina e viola, lilla e arancioni, magenta e ocra, effluvi tonali che sospendono la storia in una dimensione insieme fantastica e concepibile (da non dimenticare il chiaro riferimento a Klimt a pagina 84).
Un’ultima doverosa considerazione riguarda il personaggio di Sherazad, colei che ci conduce nei meandri di un Medio Oriente illusorio, crudele e meraviglioso. L’astuta fanciulla non ha nulla della «civettuola maliarda», per dirla con Ranieri Carano5 , che siamo soliti associare al suo personaggio, mentre assume i tratti di una donna mediorientale, specificatamente nella forma del naso e degli occhi, sensuale ma forte, quasi impassibile. Tuttavia, mi trovo a dissentire da Carano quando parla di «espressione […] tesa fino al parossismo», poiché sono convinta che il volto della donna non tradisca né tensione né paura, e sia molto più simile a una maschera imperturbabile. Il suo sorriso enigmatico e il suo sguardo magnetico, inalterati in quasi tutte le apparizioni, sembrano celare una superiore conoscenza del mondo e degli uomini, una profonda comprensione dell’arcano che è la vita. Il che sarebbe perfettamente in linea con il senso profondo di questi racconti, di cui Sherazade è l’unica a comprendere la portata, mentre tutti gli altri esseri vagano soli, spersi, in perenne lotta tra di loro, costantemente in bilico tra la vita e la morte. Sherazade è in bilico, sì, ma il suo volto mi pare tradire la soddisfazione nei confronti dell’astutezza del suo piano.
In conclusione, l’opera di Dino Battaglia e di Sergio Toppi possiede una grande pregnanza espressiva, in grado di trasportare il lettore verso dimensioni non tanto sconosciute, quanto più ataviche, presenti ma sepolte nel passato di ognuno di noi.
Battaglia in numero maggiore, cimentandosi con classici della letteratura ottocentesca, con fiabe popolari e con un’opera imponente come il Gargantua e Pantagruel rabelesiano; Toppi ricreando le atmosfere magiche delle Mille e una Notte ↩
Toppi: L’uomo del Nilo (1976), L’uomo del Messico (1977) e L’uomo delle paludi (1978); Battaglia: L’uomo della legione (1977) e L’uomo del New England (1979) ↩
Battaglia L’ispettore Coke (1983) e Toppi Il Collezionista (1984) ↩
Si veda questa intervista ↩
Vedi «Medioevo Esotico» in Sharaz-de, Castiglione del Lago, Edizioni Di, 2001, p. 11 ↩
alessio
27 Aprile 2015 a 14:58
assolutamente in piena sintonia con ciò che hai scritto…
DUE VERI MOSTRI SACRI E MAESTRI
gianni
14 Gennaio 2016 a 13:18
secondo me, Dino Battaglia e Sergio Toppi sono, come disegnatori (fumettisti e illustratori) con Hugo Pratt, dei “fuoriclasse” assoluti; per fare una paragone nel mondo della pittura si può pensare , a titolo esemplificativo, a Tiziano, Rembrandt, Caravaggio e Velazquez, nella scultura a Michelangelo o a Lorenzo Bernini, nella storia del calcio a Maradona e Pelè. E’ sufficiente mettersi con gli occhi davanti ai loro disegni, o guardare i semplici segni e … in me sento qualcosa che me li fa amare. Dino Battaglia è quello che “sento” più di tutti. Voglio ricordare anche Aleardo Terzi … un altro mostro capace di rapirti coi semplici segni. Tra i disegnatori li metto nel gruppo dei massimi di tutti i tempi con Michelangelo, Guercino, Rembrandt, Parmigianino, G.B. Tiepolo, Andrea Del Sarto ecc. o per passare ai più moderni ricordo Daumier e Schiele. Certo ognuno fa le sue valutazioni … questa e la mia visione.
la redazione
14 Gennaio 2016 a 21:34
Grazie del commento. Hai ragione, parliamo di due artisti di livello assoluto.