Sopravvivere a se stesso è stato probabilmente il caso più difficile che Dylan Dog, il fortunatissimo personaggio creato da Tiziano Sclavi, abbia dovuto affrontare. Un personaggio e una serie capace di raggiungere lo status di vero e proprio fenomeno sociale; un fumetto che miscelava abilmente il genere horror, in pieno boom letterario e cinematografico (e, dopo il successo della testata Bonelli, anche fumettistico) negli anni ’80, alle inquietudini esistenziali di una generazione di adolescenti alle prese con l’era del consumismo e della mancanza di punti di riferimento. Una generazione difficilmente inquadrabile e sotterraneamente insoddisfata, pronta a ritrovarsi nel ribaltamento dei ruoli tra i mostri e i “normali” che la serie spesso proponeva, pronta a patteggiare per il diverso, ma soprattutto a identificarsi nell’emarginato, nell’orrore manifesto piuttosto che in quello strisciante del perbenismo, del conformismo, della mancanza di morale e di prospettive. I mostri presentati da Sclavi erano orrori molto più interiori che espressi, l’angoscia e il senso di vuoto erano gli appigli per trasmettere il terrore, un terrore molto più sottile e inquietante di quello dato dalla “creatura” o dall’assassino di turno.
Come per tutto il mercato, le brillanti cifre raggiunte nel periodo di maggior splendore dal mensile sono calate molto; forse, più di ogni altra cosa, si è perso lo spirito che Sclavi aveva infuso a piene mani nel suo personaggio, a causa del suo progressivo disimpegno ai testi. Si sono alternati così scrittori dai diversi registri, non sempre capaci di seguire un percorso tanto personale come quello tracciato da Sclavi, a mio vedere uno dei migliori sceneggiatori mondiali, né abbastanza liberi di rinnovarne il messaggio e l’identità della serie. Negli ultimi anni, in quest’ultimo senso, è stata Paola Barbato a diventare nume tutelare del personaggio, cercando di imprimervi una sua personale visione; magari con risultati altalenanti, ma quantomeno con un’indicazione generale di direzione che sembrava mancare.
Questo lungo preambolo serve a sottolineare che Dylan Dog, come è quasi inevitabile dopo tanti anni di (onorata) vita editoriale, è cambiato con il tempo. Sarebbe ingiusto e sbagliato affermare, al di là dei gusti personali, che sia cambiato in meglio o in peggio e non è lo scopo di questa recensione; semplicemente, la serie sta prendendo una nuova strada, avvicinandosi a un pubblico dalla diversa sensibilità, a una nuova generazione di lettori, forse meno identificabile. D’altronde, se all’inizio il pubblico della serie sembro’ nascere quasi dal nulla, e fu il fumetto a costruirsi un seguito con un’identità, ora forse il concetto è ribaltato; esiste un pubblico dai gusti già formati da coinvolgere, abituato a nuovi stili cinematografici e letterari, alla contaminazione tra i generi e al citazionismo (o post-modernismo, se vogliamo darci un tono) ormai abusato, marchio di fabbrica di Sclavi e oggi meno spiazzante e sorprendente.
Ma per i nostalgici di certe atmosfere dei “bei tempi che furono”, questo numero dell’Indagatore dell’incubo sembra riportare indietro nel tempo, ripresentare un certo spirito quasi anarchico nella narrazione, sovvertendo il bisogno di una vera trama, di un’indagine con colpevole e soluzione e priva di una netta distinzione tra quanto è reale e quanto è fantastico, tra l’orrore e il quotidiano.
Se pure certi passaggi nella storia di Michele Medda risultano forzati, come la serie di problemi affrontati da uno stanco Dylan, e certe considerazioni suonano al limite della retorica e scontate, soprattutto su temi come il consumismo e il conformismo, le sue capacità di sceneggiatore sono evidenti, così come la sicurezza nel dare una sua precisa impronta alla storia, nell’osare portare avanti una non-storia di non facile approccio per il lettore e mantenere costante l’interesse per l’evoluzione (o non-evoluzione) della trama.
L’ospite sgradito è una storia dal ritmo lento, che sembra priva di un vero filo conduttore, che illude il lettore con il “fantasma” di un mistero da svelare, per spiazzarlo poi lasciandolo senza riferimenti. Un racconto intimo, quasi tutto incentrato su Dylan, sui suoi pensieri, sulla sua sottile angoscia di fronte alla sensazione di sentirsi invaso. Non è un caso che Groucho scompaia dalla storia alle prime battute, in maniera teatrale e un poco forzata, per lasciare così Dylan Dog ancora più unico attore; solo nella sua guerra di nervi contro un invisibile topolino che ha invaso e progressivamente rovinato la quiete di casa sua; solo contro un senso di opprimente angoscia come quello che attanagliava una sua cliente morta suicida; solo contro un mondo che sembra voler finire da un momento all’altro, tra disordini naturali o umani, e nella ricerca di un po’ di pace.
La storia è ambientata in una Londra popolata da allegorici mostri, tranquillamente a loro agio nei panni di solerti e cinici commessi, pronti a illustrare i sadici modi per eliminare il fantomatico roditore; una città dove i fantasmi si presentano, non invitati, a turbare la notte o aspettano l’ultimo viaggio in metropolitana; una città dove l’orrore maggiore sembra essere il conformismo e l’indifferenza – come reso in maniera fin troppo goffa nella scena del negozio di telefoni.
Ai disegni la nota matita di Angelo Stano contribuisce all’atmosfera “vecchi tempi” dell’albo; il disegnatore storico, autore del primo numero della serie e di alcuni dei più importanti episodi nonché copertinista (veste nella quale in questo numero non si distingue particolarmente, utilizzando un soggetto piuttosto abusato), conserva un segno affascinante e personale, nervoso nelle spigolature dei suoi personaggi ed elegante nel suo tratteggio. Purtroppo pero’ non poche vignette tradiscono una certa imprecisione e superficialità, con anatomie e movimenti rigidi che si salvano per le sempre ottime scelte di inquadratura e per la comunicabilità e capacità di sintesi. Siamo lontani dalle sue opere più belle e curate, ma resta un autore di primo piano.
L’ospite indesiderato presenta un’altra particolarità: la forte ispirazione al monologo teatrale “Il grigio“, di Giorgio Gaber e Sandro Luporini, che narra la tragicomica lotta tra il protagonista e un intelligentissimo topolino che infesta la sua nuova casa, facendo scivolare l’uomo nell’angoscia e nella depressione; nel finale l’uomo finirà per sviluppare un bizzarro sentimento di stima e affetto per il roditore, una sorta di comprensione tra i due sfidanti che lo porterà anche a una nuova comprensione dell’umanità. La stessa comprensione che conclude anche questa storia di Dylan Dog, assieme a una sensazione di sopraggiunta pace interiore ed esteriore: il mondo non è finito, nessuna catastrofe ha posto fine alla vita – o meglio, volendo essere cinici, alla vita di Dylan Dog, alla vita a Londra, mentre in altre parti del pianeta uragani e incidenti hanno comunque causato la fine del mondo per qualcuno.
Questa recensione esce intempestivamente, mentre già il nuovo numero è in edicola, ma potete comunque trovare questo albo come arretrato o in fumetteria. Se siete di quelli che sospirano guardando la propria collezione dei primi anni di Dylan Dog, o di quelli che comprano un numero ogni sei mesi tanto per vedere come va, o semplicemente siete curiosi di leggere una storia atipica e spiazzante, vale la pena di imbarcarsi in questa piccola “caccia al tesoro”.
Riferimenti:
Sergio Bonelli Editore: www.sergiobonellieditore.it
Craven Road 7, sito non ufficiale: www.cravenroad7.it