Tutti i bambini, finché sono ancora immersi nel mistero, sono costantemente impegnati a decifrare con l’anima l’unica cosa importante, se stessi e l’enigmatica connessione tra la loro persona e il mondo che li circonda. I filosofi e i saggi tornano a queste occupazioni, con gli anni della maturità, ma la maggior parte degli uomini dimentica presto e abbandona per sempre questo mondo interiore costituito da ciò che è davvero importante;
Herman Hesse/Sull’amore
Un corpo smembrato è un fumetto che fa paura: la copertina mostra una donna con uno smile al posto del volto e sul punto di incidersi la fronte con uno scalpello, mentre la parola smembrato nel titolo racchiude una violenza carnale profonda, cui difficilmente si sopravvive. Significa prendere ciò che più sentiamo come nostro e dividerlo in parti: smembrare ha a che fare con la perdita di sé, con il non esistere più.
Le matite cupe di Samuele Canestrari ci fanno pensare, fin dalla copertina, che quello in cui stiamo per entrare assomigli molto a un incubo. Dopo il primo impatto segue la curiosità per la sceneggiatura di Luigi Filippelli, scrittore (Duplex e 13 sardine circa), fumettista (Cipolla, Stereolite, Fuori dall’Eden) ed editore per MalEdizioni, insieme all’attenzione per un oggetto editoriale sicuramente fuori dagli schemi.
Edito da Eris Edizioni, Un corpo smembrato infatti si divide in due pezzi: togliendo la sovraccoperta si possono vedere i fili della rilegatura che sporgono dalla costa, come se le due parti fossero state separate con la forza, andando a rievocare quel distacco violento che si fa sentire nel titolo. Poi ci si rende conto che la copertina è in realtà un poster, mentre sul libro si scopre un secondo frontespizio, forse più inquietante del primo.
La sequenza con cui si apre il fumetto è effettivamente un incubo e ci introduce ad alcuni elementi chiave della storia: la perdita del proprio sé bambino, quella parte più profonda e spontanea di sé (che risuona nell’epigrafe di Herman Hesse in apertura al libro); la casa come luogo in cui abitano i propri fantasmi e la macchina che viaggia sulla strada, metafora del dover prendere una direzione e della violenza di lasciarsi qualcosa alle spalle. Ma ciò che è centrale in Un corpo smembrato è la storia di un processo creativo: Marina ha lasciato la città in cui ha studiato all’Accademia e, costretta a tornare nel paese di provincia in cui è nata, alterna al lavoro di cassiera al supermercato la realizzazione di una scultura che andrà a decorare una rotonda. Una bella occasione per un’artista emergente, se questa non celasse pesanti lati negativi: innanzitutto la scadenza, vero incubo di ogni processo artistico; in secondo luogo, Marina è perfettamente consapevole di aver ottenuto la commissione solo grazie alle amicizie di suo padre, figura un tempo autorevole nel piccolo ecosistema politico del paese; da ultimo, Marina non voleva tornare al paese. Qualunque risultato ottenuto in uno spazio dove ci si sente fuori luogo non farà che dare eco alla sconfitta più grande, quella di essere lì.
Provincia, precarietà, difficoltà di trovare un proprio posto, di superare traumi, di capirsi. Difficoltà ad essere felici. Sono temi che tornano costantemente nell’ultima produzione di fumetto di quella che viene chiamata new wave italiana: Zuzu, Nova, Eliana Albertini, Miguel Vila, Martina Sarritzu, Percy Bertolini, Fumettibrutti, Paolo Cattaneo, Pablo Cammello, naturalmente Zerocalcare, sono alcuni nomi che vengono in mente, ma l’elenco potrebbe continuare. È un segnale che merita considerazione, qualcosa che va letto e discusso. E non si tratta di omologazione, ma di un sentire condiviso, in cui il fumetto può mostrare tutta la propria ricchezza nel rappresentare qualcosa di simile in maniere completamente diverse.
Al discorso sulla precarietà, Un corpo smembrato aggiunge quello della creatività, cercando di prendere di petto il rapporto tra i due discorsi e le contraddizioni che lo animano. L’arte si mostra quindi sia come lavoro, come attività pratica e manuale, che come interrogazione del proprio io, come atto che porta fuori ciò che abbiamo dentro. In questo la sintonia tra Filippelli e Canestrari funziona: la storia mostra sequenze in cui al centro c’è il rapporto amoroso, alternate a serie di vignette concentrate sulle mani, sugli attrezzi da lavoro, sui materiali. La creatività non è solo ispirazione, sentimento e nemmeno pura speculazione accademica: è anche fatica e sudore, è qualcosa che si fa con il corpo.
È proprio quest’ultimo che, quando sottoposto a uno stress per troppo tempo, si ribella e manda segnali di un malessere diffuso. Dal proprio corpo non si scappa così come sembra impossibile evadere dagli spazi del paese, da quella sensazione di precarietà che si attacca come una nebbia ad ogni cosa. Filippelli e Canestrari hanno anche la lucidità di smentire la diffusa narrazione che “è fortunato chi riesce a trovare un lavoro nell’ambito che gli piace, un lavoro per cui ha studiato”. Il lavoro creativo implica un coinvolgimento di parti di sé che poco si accorda con tempi stretti e scadenze, con entrate stabili ed esigenze di mercato. Tutte forze che oggi sono costantemente in gioco e finiscono per lacerare anima e corpo di chi invece vorrebbe mettere se stesso in quello che fa. Non è un caso se al centro del dolore di Marina ci sia il braccio, quella parte del corpo che da sola rappresenta la capacità di fare, di creare (e anche di agire sul mondo).
Lo stile di Samuele Canestrari, molto vicino all’illustrazione, ci regala una narrazione che scorre per singole inquadrature, cambi di campo, scene di forte impatto grafico ed emotivo, ma che richiedono una narrazione anch’essa segmentata, rarefatta. In questo si vede una buona sintonia con la sceneggiatura di Filippelli, che però non è sempre facile da seguire, proprio per questo suo dissolversi, per l’utilizzo di una sequenzialità in cui la singola vignetta racconta una grande quantità di contenuti e richiede quindi una lettura lenta. Questo è forse il limite più grande dei disegni di Samuele (per il resto eccezionali) e che infatti risultano molto efficaci in narrazioni brevi e dal ritmo fiabesco come Il battesimo del porco, sceneggiato da Taddei. Il risultato è comunque un esperimento decisamente riuscito, in cui il disegnatore si misura con una narrazione lunga continuando a sperimentare con il suo stile grafico grezzo, con sfondi sporcati con la gomma, pezzi di disegno attaccati con lo scotch e vignette che sembrano non finite, in cui i corpi si dissolvono come in un quadro di Schiele.
È come se gli autori avessero deciso di calare dentro ad atmosfere da gotico rurale una storia contemporanea di precarietà esistenziale. Se la storia richiede (almeno) una seconda lettura per essere compresa in tutte le sue sfumature, dall’altra parte il messaggio arriva chiaro, proprio per l’atmosfera che domina l’intero fumetto. Questa emerge non solo dai disegni, ma anche da scelte che riguardano elementi strutturali: lo spazio che separa le vignette è sempre nero ed estremamente rigido. La struttura scelta dagli autori propone tre possibili dimensioni per i panels (splash page, mezza pagina e un quarto di pagina) che contribuisce al ritmo sospeso della storia; e se questo rimane costante, allora la grandezza delle vignette dipenderà soprattutto dal taglio, dall’inquadratura, da ciò che include e ciò che rimane fuori, con una grande attenzione ai corpi e agli spazi. Altro elemento singolare sono le vignette completamente nere, disseminate lungo tutto il fumetto: possono essere cambi di campo, pause di riflessione della protagonista, buchi neri narrativi o semplicemente una stanza buia, ma in ogni caso quello spazio nero ha una sua densità e si richiama per tutto il fumetto, come un tunnel scavato tra le pagine.
L’atmosfera, tuttavia, rischia di essere troppo monotona, troppo coerente con sé stessa: la claustrofobia della dimensione in cui vive Marina è costante e monolitica, anche in momenti in cui ci si aspetterebbe un minimo di luce, come la passeggiata nella natura. Un corpo smembrato dunque fa paura non solo per i disegni: si ha l’impressione di essere davanti a un testo che dà voce a una disperazione, che mette in scena una vita giunta a un vicolo cieco. È una narrazione scomoda, che pone domande sul lavoro creativo dei due fumettisti (e, per estensione, di chiunque faccia fumetto). Questo testo racconta una caduta che non si conclude con un atterraggio, ma con qualcosa di peggio: c’è una sequenza in cui la protagonista precipita da una certa altezza e, per come viene sapientemente montata, sembra che debba ricadere esattamente da dove si è mossa.
Una situazione simile e completamente diversa si trova in Da sola di Percy Bertolini: qui il protagonista si tuffa e la sua caduta è una danza, un modo di esprimersi rivoluzionario in un mondo che comunque lo opprime e lo isola. Esistono diversi modi di raccontare un disagio, come ci sono diversi modi di viverlo ed affrontarlo. Se dal lavoro di Percy emerge la carica sovversiva che può animare chi abita il margine, Un corpo smembrato mette in scena una sconfitta, senza possibilità di riscatto. L’atto di denuncia arriva quindi a libro chiuso, quando si mettono a fuoco le sfaccettature e la complessità della triste storia cui si ha assistito. Un parallelismo possibile sono i soggetti scelti da un regista come Ken Loach, famoso per i suoi film che mettono in scena situazioni di disagio (soprattutto sociale) senza mai un lieto fine.
Riguardo alla denuncia della precarietà e dell’alienazione della situazione lavorativa contemporanea, non può non venire in mente 24/7 di Nova: anche in questo fumetto il giovane protagonista Dante lavora come cassiere e, nello scontro con le bestiali e mutanti forze del male, perderà un braccio. La differenza tra Dante e Marina è forse che lui non si pone troppe domande: non è lui a tenere in mano lo scalpello e a ficcarselo in fronte, a lui non viene chiesto di mettere sé stesso e le proprie emozioni, nel lavoro. È un guscio vuoto e va bene così, perché in fondo il suo lavoro “potrebbe anche farlo una scimmia”. Ciò che distingue davvero i due fumetti è lo spirito, perché se l’ironia e il grottesco di Nova non danno alla vicenda la stessa coltre cupa e inquietante di Un corpo smembrato, l’epilogo non è troppo diverso: un massacro, un fallimento, una caduta. Dante non ha nessun guadagno dalla vicenda, solo un vuoto in più, un pezzo in meno.
Come si vede, le riflessioni da trarre sono numerose, anche grazie a quella rarefazione di cui si è parlato: c’è molto spazio e molto silenzio per poter riempire le pagine di questo fumetto, dai pensieri sul ruolo dell’amore e dell’insegnamento nell’attività artistica, o a quelli relativi all’essere sempre sorridente, a fingere (anche davanti a se stessi) che in fondo va bene così, fino alla scultura, alla creazione di qualcosa fuori da sé che forse non è altro che il condensato di tutte le proprie paure, aspettative, ambizioni, fallimenti, solitudini, uscito da noi stessi per tormentarci.
Un corpo smembrato è un fumetto estremamente attuale, certamente cupo, con una buona sintonia tra storia e disegno e un segno grafico che osa essere personale anche scostandosi da scelte di norma più efficaci, canoniche, e quindi spesso meno originali. Mantiene la promessa del titolo e della copertina: è un fumetto che spaventa, perché mette in scena delle paure che, sottopelle, sentiamo in tantə.
Abbiamo parlato di:
Un corpo smembrato
Luigi Filippelli, Samuele Canestrari
Eris Edizioni, 2021
152 pagine, brossurato, bianco e nero – 16,00 €
ISBN: 9791280495051