Durante un laboratorio di scrittura, l’insegnante ci disse che leggere letteratura «è come togliere la polvere dal divano». La citazione veniva attribuita a Tolstoj, ma non l’ho mai trovata, oppure mi ricordo male; in ogni caso, l’immagine vuole dire che la letteratura (ma credo valga per le arti in generale) ci permette di tornare a vedere qualcosa che nemmeno notavamo più, di dargli un senso nuovo, di spolverare lo sguardo dall’abitudine. Allora un oggetto, una sensazione, un gesto acquisiscono nuovo significato, perché non sono più solo nostri: una voce ce ne ha mostrato un’altra faccia e li guardiamo come se non li avessimo visti da troppo tempo.
Lee Lai riesce a fare proprio questo nel suo esordio Stone fruit, edito in Italia da Coconino Press con la traduzione di Alice Amico. L’autrice australiana, che ha già pubblicato brevi storie a fumetti su The New Yorker, The Lifted Brow, Room Magazine ed Everyday Feminism, pone al centro del suo fumetto parole coperte di polvere come amore, relazioni, famiglia, ascolto e ne mette in circolo di nuove, quali sorellanza, cura, queerness, genitorialità1. Lontano dall’essere l’ennesimo fumetto che racconta una storia d’amore, Stone fruit è anzi un’iniezione di vita in un panorama in cui è facile pensare che nulla di nuovo possa essere detto.
La storia racconta un intreccio di relazioni che convivono e si mescolano, cercando un equilibrio ogni volta fragile: la prima è l’amore tra le due protagoniste, Bron e Ray, che trova i suoi momenti più sereni nei pomeriggi in compagnia di Nessie, piccola nipote di Ray; c’è poi la relazione tra sorelle, Bron con Gracie e Ray con Amanda, che è sia conflitto che luogo di sostegno e consolazione, e infine quella con i genitori, complessa e carica di non detti. In queste si inseriscono dubbi, debolezze, gelosie, il rapporto con la religione, quello con la salute mentale, la paura che prende quando ci si rende conto di dipendere da un’altra persona. Un fumetto denso, insomma: ripensando alle emozioni che sono concentrate nelle sue pagine, sento il cuore accelerare.
Ed è proprio questo il punto: potremmo dire che Stone fruit è un fumetto scritto da una donna trans che racconta di una relazione queer tra due donne e aggiungere, con un sorriso, che questo è un ottimo segnale, perché c’è un testo che si aggiunge alla lista di quelli che raccontano un amore “non canonico”. Un ottimo trafiletto sulla colonna di un giornale, che ci fa pensare al mondo come a un posto migliore grazie a una voce in più che viene da una soggettività invisibilizzata. Ma questa è la notizia e le notizie non bastano, soprattutto a chi si vede chiamato in causa solo quando fa notizia (il che spesso accade quando è vittima di violenza), per poi tornare a essere un’eccezione cui al massimo viene concessa una rappresentanza. Stone fruit va molto (molto) al di là questo: i legami particolari che racconta parlano a tutte e tutti noi, ci emozionano, ci fanno rivivere situazioni nostre, e lo fa, questa la magia, partendo dalla particolare relazione tra due donne e quelle che gravitano attorno a essa. Dice bene Jonathan Bazzi nella prefazione: «non si tratta di normalizzare nulla», quello che viene costruito è un mito nuovo, fatto di rapporti di cura, di ascolto, troppo spesso rimasti ai margini, ma che esplodono nel nostro immaginario mostrando nuove vie. Stiamo parlando della liberazione di una potenza che tocca chiunque e qui si capisce come un testo del genere non sia solo una buona notizia per il mondo LGBTQ+. Sarebbe troppo comodo.
Infatti Stone fruit è un invito alla messa in discussione, anzi alla decostruzione, di ciò che è quotidiano, a togliere quella polvere sul divano che è lì da così tanto tempo da essere scambiata per superficie. Certe domande, certi dialoghi invitano a questo:
– Posso toccarti?
– Sì… Scusami. In questo momento non riesco a non stare così.
– Lo so.
– Non ce la faccio, Ray. Qualcosa deve cambiare.
– Lo so. Bron… Puoi dirmi se quel “qualcosa” sono io?
– Non sei tu.
– Mi… Me lo dici di nuovo guardandomi?
…
– Non sei tu.
Chiedere il permesso del contatto, chiedere uno sguardo, sono gesti che per chi li condivide possono innescare una piccola rivoluzione. È una gran fatica: le protagoniste del fumetto di Lee Lai soffrono per le ragioni più diverse, non ce n’è una che stia davvero bene, ma sono lì, presenti l’una per l’altra, nonostante tutto. «Devi solo esserci» dice Amanda alla sorella: si dischiudono davanti a chi legge le pieghe dei rapporti di cura, il non mollare anche a costo di piangere davanti a una bambina, chiedere aiuto a dei genitori con cui non si parla da anni o il lasciarsi andare al gioco ai margini di un bosco. Qui, nelle corse a perdifiato con la nipotina, troviamo le scelte graficamente più interessanti, che rappresentano le protagoniste come dei mostri, delle creature bestiali che inseguono qualcosa che non c’è, ruggiscono e inventano filastrocche.
Naturalmente questi temi, che sono universali, non possono non essere messi in relazione con la situazione presente: in un momento in cui siamo più che mai distanti, spesso soli e sole, la parola cura va tolta dallo scaffale in cui l’avevamo lasciata. Va praticata adesso, a maggior ragione se pensiamo che il modo di rapportarci cui siamo abituati è già stato messo in discussione da una pandemia che fa sembrare il lavoro l’unica attività concessa e che ci ha costretto a vederci attraverso degli schermi.
Veniamo al disegno: Lee Lai adotta un tratto semplice e realistico, fatto di poche linee di contorno che descrivono bene sia gli spazi che le protagoniste e che possono ricordare i disegni di Daniel Clowes in Ghost world e di Craig Thompson in Blankets. Con questi l’autrice condivide anche una certa atmosfera data dal colore: per Stone fruit Lee Lai sceglie di alternare bianco, nero e varie sfumature di blu che tendono al grigio, utilizzate per lo sfondo, sia esso un bosco, una strada o una camera da letto. Queste tonalità fredde sono spesso usate per storie che hanno a che vedere con il passaggio, l’incertezza, la crescita: basti pensare a Ghost world, appunto, che racconta il passaggio di due adolescenti all’età adulta e anche Blankets, per quanto disegnato in bianco e nero, presenta la copertina esattamente con quelle tonalità di blu sia nell’edizione americana che in quella italiana (vengono in mente anche Lo scultore di Scott McCloud e Quando tutto diventò blu di Alessandro Baronciani, ma l’elenco potrebbe continuare). Oltre a questi, c’è però dell’altro nel disegno di Lee Lai. Si può notare infatti una certa vicinanza con i disegni dell’amica e collega Tommi Parrish: i corpi sono grandi, per quanto proporzionati, danno la sensazione di essere pesanti, materici, le espressioni dei volti sono sempre molto stilizzate e negli sfondi colorati sono ben visibili le pennellate dell’autrice, che danno un tocco più artigianale, meno realistico, al testo.
Lee Lai tuttavia è ben lontana dal personalissimo disegno impressionista di Tommi Parrish: come le tinte che sceglie, il suo disegno non ha alti o bassi, non ci sono picchi o variazioni grafiche, se non minime. Tutto il disegno appare monotono, sulla stessa frequenza malinconica dei personaggi, intrappolati in quello schema di quattro vignette per pagina che vede pochissime varianti. Questo, se da una parte è in linea con le atmosfere del racconto, alla lunga può stancare chi legge, facendolo sentire a sua volta intrappolato in quelle linee sempre uguali. Per spiegarmi meglio, prendo l’esempio del lettering: non ci sono parole più grandi o più piccole (se non qualche rarissima eccezione), nemmeno grassetti o sottolineature, le protagoniste parlano sempre con lo stesso tono. E se questa può essere una scelta consapevole, dimostra comunque delle debolezze in alcune situazioni, come i litigi e le discussioni: leggendo certe sequenze viene da chiedersi «ma qui non dovrebbero stare urlando?».
Sulla rappresentazione dei corpi ci sarebbe molto da dire: le linee di tessitura che evidenziano le pieghe della pelle sono identiche a quelle dei vestiti e fanno pensare a dei corpi spessi, vissuti, ma anche fragili e mutevoli. Sono la superficie sotto cui si muovono le emozioni, le complessità di ognuna: «Grazie pelle che tieni tutto insieme», dice Bron sul pendio di una collina, trasformata in mostro dall’entusiasmo del gioco. Proprio da questa trasformazione emerge, per contrasto, la monotonia e la prigionia del quotidiano: ai boschi e ai fiumi corrispondono i corpi dinamici e sorridenti dei mostri così come le case grigie e le stanze spoglie sono abitate da corpi pesanti con facce tristi e malinconiche.
Per concludere, se il fumetto di Lee Lai non brilla per impatto visivo, d’altra parte l’autrice riesce nella difficilissima impresa di emozionare profondamente con una storia nuova, la cui complessità sta dietro ai disegni, scorre sotto la pelle delle protagoniste. Stone fruit va a toccare il nostro vissuto come una carezza, facendoci sentire meno soli e sole, e allo stesso tempo ci prende per mano per mostrarci orizzonti inesplorati. È l’inizio di un’educazione sentimentale nuova, di cui abbiamo più che mai bisogno.
Abbiamo parlato di:
Stone fruit
Lee Lai
Coconino Press-Fandango, 2020
237 pagine, brossurato, colore – 22,00 €
ISBN: 9788876185670
Naturalmente queste non sono affatto nuove per quelle persone che le praticano quotidianamente e che si impegnano a portarle nel discorso pubblico e nelle narrazioni cosiddette mainstream. ↩