Teresa Radice e Stefano Turconi sono due nomi noti soprattutto agli appassionati di fumetto Disney.
I due autori, che fanno coppia anche nella vita, si sono infatti conosciuti lavorando entrambi per le varie testate disneyane dopo essersi diplomati all’Accademia Disney: lei – sceneggiatrice – ha esordito su Topolino nel 2003 con la storia Zio Paperone e l’emù di sangue blu, lui – disegnatore – è attivo sul settimanale e su altre riviste fin dalla fine degli anni ’90.
Dal 2009 iniziano a formare un team inossidabile, professionalmente parlando, con la pubblicazione della prima serie di Pippo Reporter. Seguono diverse altre storie “nate in casa” come Topolino e il grande mare di sabbia, Zio Paperone e l’isola senza prezzo e L’isola del tesoro, per arrivare al loro primo progetto extra-Disney: Viola Giramondo, edito da Tunuè nel 2013.
Il loro “covo creativo” è la Casa Senza Nord, nome dato anche al loro blog: http://stefanoturconi.blogspot.it/
In occasione dell’uscita di Il porto proibito, la loro graphic novel pubblicata da Bao a inizio maggio e di cui abbiamo già parlato qui, li abbiamo intervistati per conoscere qualche retroscena sull’opera.
Come mai una storia di mare? Quanto avevate bisogno di scrivere una storia che si discostasse dai vostri lavori precedenti, più legati ai bambini o, comunque, alla testata Topolino?
Teresa Radice: Abbiamo scelto di raccontare una storia di mare prima di tutto perché è un argomento che piace a entrambi, da sempre. Si tratta di una di quelle cose che abbiamo in comune e che avevamo voglia di provare ad affrontare. Avevamo anche tanta voglia di provare a staccarci da quello che era l’ambito del fumetto per bambini; già avevamo realizzato Viola Giramondo, un’opera adatta anche a un pubblico adulto, ma questa volta volevamo proprio creare una storia per un pubblico maturo. La voglia era tantissima, credo anche dal punto di vista di Stefano…
Stefano Turconi: Sì. Le storie di pirati mi sono sempre piaciute, L’isola del tesoro è stato uno dei libri della mia infanzia.
Il porto proibito ricorda, infatti, L’isola del tesoro in vari punti…
TR: Certo, per omaggiarlo abbiamo anche dato alle tre sorelle coprotagoniste della vicenda il cognome Stevenson! Anche se a me suonava anche come: “Sono disegnati da Stefano, quindi sono Figli di Stefano” [ndr: si riferisce al fatto che Stevenson si pronuncia nella stessa maniera di Steven’ Son, che tradotto dall’inglese significa appunto “Figli di Stefano”].
ST: Poi, da ragazzino è arrivato Le avventure del capitano Hornblower, il temerario, un film con Gregory Peck, e infine Master and Commander mi ha dato il colpo di grazia. Anzi ha dato il colpo di grazia a entrambi poiché l’abbiamo visto tutti e due nello stesso anno, senza conoscerci.
TR: È stato il primo film che abbiamo visto al cinema nel 2004 senza conoscerci!
ST: Ed è rimasto lì a macerare. Ho cominciato a leggere i libri di Patrick O’ Brian da cui è stato tratto il film e sono arrivato ad averli letti tutti, tranne l’ultimo che è incompleto poiché l’autore è morto mentre lo scriveva e quindi resta lì, in attesa che ne affronti la lettura.
Da dove nasce la figura di Rebecca?
TR: Questo libro nasce da un bisogno. Ci sono storie che nascono come un piacere di raccontare qualcosa, ce ne sono altre che crescono e gridano di essere raccontate. La storia di Rebecca e la storia di Abel sono una trasposizione di due persone che ho perso, a cui ho dedicato il libro, e che nella mia testa sono poi diventate questi personaggi. Ovviamente erano diversissimi da loro, per certi versi addirittura opposti… ma è stato un po’ come regalare una seconda vita a queste persone che l’hanno lasciata troppo presto. Tra l’altro, nella realtà erano due fratelli… Rebecca è venuta da qui, da questa ragazza a cui voglio bene, mia zia, che condivideva con il personaggio il diminutivo Re… C’è quel pezzo di Saving Mr. Banks in cui Walt Disney torna da Pamela Travers a Londra e non è ancora riuscito a prendere i diritti di Mary Poppins, quando capisce che lei non vuole lasciargli la storia perché c’è dentro suo padre. Allora lui le dice: “Non possiamo fare nulla per coloro che se ne sono andati, però possiamo dargli nuova vita, possiamo far sì che tante altre persone possano volere loro bene“, e le fa cambiare opinione.
Dalla lettura del volume, anche se voi ci proponete una storia vera e propria, si percepisce che dietro c’è qualcosa di molto profondo e autobiografico…
TR: Sì, è davvero piena di eventi realmente successi. Poi, per come la vediamo noi, la cosa bella di un libro è la storia. Le numerose parti autobiografiche sono inserite all’interno di essa. E soprattutto questo libro parte da due persone vere; ad esempio, la storia del cristallo è piuttosto vera [ndr: Teresa mi mostra il ciondolo che porta al collo che altro non è che la collana con il cristallo di quarzo di Rebecca].
È una cosa che ti vedi allo specchio tutti i giorni, sono 21 anni che porto questo ciondolo e quindi da lì doveva avere origine qualcosa. Da cosa nasce cosa e poi la trasformi, la nascondi. Nascondi le verità dietro alla storia. Però come dice Rebecca: “La verità più profonda si può trovare nei racconti“.
Perché avete voluto dare così importanza alla letteratura e in particolare ai romanzi e alle opere del romanticismo inglese?
TR: Perché secondo me non si riesce a prescindere da quello che hai letto quando devi raccontare le tue storie. Si dice che siamo quello che mangiamo, siamo quello che vediamo, siamo le persone con cui ci vediamo e siamo quello che leggiamo… e io penso che sia vero. I romantici inglesi sono la mia passione da sempre, sin dal liceo, dove avevo come insegnante di letteratura inglese una piccola suorina scattante innamorata di Byron. Lei aveva questa passione per i romantici in genere e mi ha fatto conoscere The Rime of the Ancient Mariner di Samuel Taylor Coleridge. L’ho aggiunta nei ringraziamenti, anche se dubito leggerà mai il libro. La storia del marinaio, costretto per l’eternità a vagare per il mondo con il peso di questa storia da raccontare, era come mi sentivo io prima di scrivere Il porto proibito e quindi i romantici dovevano entrarci per forza.
Leggendo il vostro lavoro, mi è anche immediatamente venuto in mente il disco di Vinicio Capossela Marinai, profeti e balene…
ST: L’ho ascoltato tantissimo mentre disegnavo!
Tra le numerose citazioni che proponi all’interno del libro, c’è una poesia di Antonia Pozzi. Come mai hai scelto di inserire il lavoro di questa poetessa milanese davvero poco conosciuta, all’inizio dell’ultimo dei quattro atti?
TR: L’ho scoperta da pochi anni, credo nel 2011. A me piace raccogliere libricini che hanno delle riflessioni provenienti da tutto il mondo, come ad esempio quelli di Anthony de Mello, un gesuita indiano che raccoglieva frammenti di saggezza da tutte le religioni. Spesso in questi frammenti si trova qualcosa inerente ad altri poeti ed è così che un giorno sono incappata in una poesia di Antonia Pozzi, che mi ha stregato. Da quel momento, ho cercato tutto quello che ha scritto e non ho più smesso di leggerla. I suoi versi mi fanno commuovere ogni volta ti ci ritrovi sempre ed è un peccato che sia poco conosciuta. Prima o poi dovremo andare in pellegrinaggio a Pasturo [ndr: dove si trovava la settecentesca villa di famiglia della poetessa] per ringraziarla.
Avete inserito, grazie alla figura di William, il disegno all’interno della storia. Come mai questa scelta?
TR: La prima scena con lui che disegna serve anche a trascinarti all’interno della storia, proprio perché è affascinante vedere un disegnatore all’opera. Qui ti ritrovi sin da subito in un fumetto dove uno dei primi personaggi che incontri sta disegnando…
ST:… proponendo la formula del disegno nel disegno.
Tema principale del volume è il modo in cui l’uomo si deve confrontare con la morte. Un tema complesso che siete riusciti ad affrontare in maniera toccante e originale. Come mai avete fatto questa scelta?
TR: Forse proprio partendo dall’idea di dare una seconda chance alle persone che i miei personaggi rappresentano. Tutto questo si è mescolato alla passione per la ballata di Coleridge che conteneva, a sua volta, un personaggio che aveva bisogno di liberarsi da un peso.
Si affronta anche il tema della ciclicità della vita in un modo che rimanda al concetto di karma…
TR: Ci credo abbastanza. La mia mamma diceva sempre: “Tutti i nodi vengono a pettine“. Alla fine ciò che semini, raccogli, anche se non te ne accorgi subito. Nel libro c’è un momento in cui Rebecca parla della trama delle coperte, dicendo che da vicino non si capisce nulla e solo allontanandosi, con la distanza, si comprende il ricamo. Ecco, penso sia così. E poi è anche un modo per consolarsi quando non succedono le cose che avevi previsto.
Come avete costruito le scene di sesso presenti nel volume?
TR: Era una cosa difficile per noi che veniamo dalla Disney e che non abbiamo mai avuto modo di confrontarci con il tema. Era un passaggio che sentivamo di dover fare ma che ci spaventava. La scena di Rebecca e Nathan doveva risultare la prima volta di lei, anche se è una prostituta: si tratta, a tutti gli effetti, della sua prima volta proprio perché fino ad allora non si è mai sentita amata, si è sempre solo data senza avere. Sarebbe buffo farti vedere le indicazioni che ho dato a Stefano. Nella sceneggiatura c’era scritto: “Ci siamo, adesso devi essere delicato, mi raccomando” e poi gli ho descritto tutte le sensazioni che aveva lei e tutte quelle che aveva lui. Loro fanno l’amore per la prima volta e si conoscono in un momento particolare delle loro vite, in un momento di passaggio, e quindi il loro legame si forma in un momento difficile.
ST: Sapevo che si trattava di una scena d’amore, perciò ho fatto delle prove, ci ho ragionato su finché non ho trovato la misura.
Dovevo fare vedere, ma senza essere volgare… Non è stato facile trovare l’equilibrio.
Da dove arriva la scelta di usare la matita e mantenere il disegno così “grezzo”? Come ci siete arrivati?
ST: Dopo una serie di tentativi. Questo progetto nasce due anni fa, a colori. Volevo farlo tutto così, avevo fatto delle prove con gli acrilici, ma non funzionava, non usciva quello che volevamo. Poi è diventato una graphic novel, sono aumentate le pagine, raggiungendo la quota trecento, e quindi avevo bisogno di una tecnica che mi permettesse di velocizzare il lavoro. Ma soprattutto abbiamo scelto il bianco e nero perché funzionava con la storia e ci piaceva dopo aver visto Tre Ombre di Cyril Pedrosa, che mi ha dato l’ispirazione. I primi tentativi li avevo fatti con la china scarica riprendendo il suo stile, però non ottenevo l’effetto sperato. Dopo aver fatto varie prove è uscita fuori la matita, che è lo strumento con cui mi sento più a mio agio in assoluto. Io non sono bravo a inchiostrare, non ho la pazienza per usare il pennello, mentre il tratto a matita mi piace molto. Viola Giramondo era tutto a pastelli, e poi colorato con Photoshop, e anche qui volevo fare qualcosa del genere. Allora ho iniziato a prendere tutte le matite che trovavo, a cominciare dalla 2H fino alle 6B, pezzi di grafite di varie misure e ho fatto una serie di prove finché non ho trovato lo stile giusto. Questo stile graffiato e veloce funzionava proprio per la storia. E in più potevo uscire dai bordi, potevo muovere la gabbia, in questo caso molto libera, differenziandomi dal classico modo in cui lavoro su Topolino.
Nelle scene più toccanti, come la prima notte di Nathan e Re, ma anche nelle scene di mare in cui hai disegnato i velieri in movimento, questa scelta di non seguire la gabbia classica è, in effetti, molto funzionale.
TR: C’è anche da dire che questo disegno ricorda un po’ un carnet di viaggio e questo è un libro di viaggio, esteriore e interiore.
ST: E poi era anche bella l’idea che tu lo apri e immediatamente pensi che sia un vecchio libro. Poi vai avanti e ti ritrovi questo bianco e nero più incisivo… In questo contesto lo stile scelto aveva davvero senso.
Come è stato pensare alle tavole senza colore?
ST: In realtà ci sono abituato, poiché vengo dal liceo artistico dove si faceva la copia dal vero a matita e con essa dovevamo rendere i colori, sia per quanto riguarda le tonalità sia per la creazione dei livelli in bianco e nero. In più, nel tempo, ho realizzato diversi libri illustrati in bianco e nero. Ho sempre usato contemporaneamente colore e bianco e nero e per questo mi sono trovato abbastanza a mio agio. Ho ragionato per lo più sulle tonalità; le divise dei soldati sono rosse quindi andava bene un grigio intermedio, mentre il nero si ottiene con un grigio molto scuro… insomma non è così difficile.
Qual è stata la scena più difficile da disegnare?
ST: Un po’ la scena d’amore, perché complicata, ma è stato più complesso disegnare le navi. In realtà mi venivano abbastanza bene, ma poi continuavo a ritoccarle quando mi rendevo conto di aver sbagliato delle cose. Io sono molto pignolo…
TR: Sai le volte che ha richiesto indietro le tavole a Michele [ndr: Foschini, art director di Bao Publishing] per correggere le vele che aveva sbagliato!
ST: Erano disegnate a matita, se mi accorgevo di qualche errore, volevo correggerlo. Se la nave della fine del ‘700 è fatta in un certo modo, deve essere così anche nel disegno. Il costume dei personaggi, la divisa da capitano… Per capire come disegnare la divisa dei capitani della Compagnia delle Indie – introvabili – ho recuperato dei quadri in un’asta che raffiguravano il ritratto di un capitano, di modo da ricostruirla in questa maniera. Quelle ricerche, più che difficili, sono state lunghe. In realtà non c’è stato niente di particolarmente difficile.
TR: Bé, il viso di Rebecca un po’ lo è stato.
ST: Il viso di Rebecca l’ho cambiato un sacco di volte fino a trovare quella definitiva. Fino all’ultimo, poco prima di andare in stampa, ho cambiato ancora le ultime facce. Diciamo che in generale i processi erano lunghi, più che difficili. A me viene molto più facile disegnare una cosa del genere piuttosto che qualcosa di contemporaneo su un argomento che non mi interessa, tipo il calcio. Se vuoi uccidermi, fammi disegnare una partita di calcio! Fammi disegnare un veliero o un tempio indù ed io sono felicissimo.
È una cosa che traspare dal tuo lavoro. Quanto vi siete documentati?
ST: Tantissimo. Abbiamo fatto due viaggi in Inghilterra. Siamo andati nei porti storici della marina inglese, a Portsmouth e a Chatham. Siamo stati una settimana a Plymouth, dove è ambientato il libro, a scattare fotografie delle location. Infatti, tantissime vignette sono prese pari pari dalle foto. Lì abbiamo trovato libri; abbiamo poi fatto arrivare della documentazione dall’America, come il volume sulle divise napoleoniche che era ormai fuori produzione. Abbiamo consultato tomi sulle navi, sulla marina, sulle divise, sui costumi, sulle leggende marinaresche, sui canti marinareschi.
TR: Il viaggio è stato emozionantissimo. Io ho voluto scrivere tutta la storia, tutto il soggettone dettagliatissimo prima del viaggio, per portarmelo dietro. Quindi viaggiavo con la storia nello zaino, scritta fittissima in venti fogli e ogni tanto la tiravo fuori, mentre Stefano non l’aveva ancora letta. Ne avevamo parlato, ma non sapeva il dettaglio. Poi siamo saliti sulla Smeaton’s Tower che, ai tempi del libro, era in mezzo al mare, mentre ora è stata sostituita da un altro faro e ricostruita su di una spianata. Noi ci siamo saliti, e dall’alto abbiamo visto il faro nuovo, dove si trovava la Smeaton’s Tower una volta. Era una giornata limpida e si vedeva benissimo. Io mi sono emozionata perché questa struttura ha un posto particolare nella storia… Insomma ci voleva proprio!
Quando tornerete, sarà ancora diverso!
ST: Sì. E ricordiamo che camminare sul molo di Plymouth significa camminare sul molo da cui è partita la Mayflower con i pellegrini, dove sono partiti Cook, Darwin…
TR: Sì, un posto pieno di storia. Ci sono luoghi che hanno un’energia particolare…
ST: Siamo andati a vedere la nave di Lord Nelson a Portsmouth e Michele, il nostro piccolo, ha fatto i primi passi da solo sul ponte della nave ed è caduto sulla targa dove è scritto “Qui cadde Nelson“. E alla fine è emozionante perché sei in una vera nave, i cannoni sono quelli veri che hanno sparato a Trafalgar. Fanno un certo effetto e tu da appassionato sei lì e ti esce la lacrimuccia.
Grazie!
Grazie a voi.
Intervista realizzata al Salone del Libro di Torino il 16 maggio 2015