Marzo 2010. Seduti in una sala incontri ancora deserta, Alberto Casiraghi e il sottoscritto, armati di taccuino e telecamera, abbiamo di fronte un maestro dell’arte, dell’illustrazione e del fumetto: Lorenzo Mattotti. Purtroppo il video è rimasto nel cassetto per problemi tecnici e tempistici, lasciando questa intervista inedita fino a oggi. Riascoltandola e rileggendola risulta ancora ancora valida e interessante per apprezzare la visione di un grande artista italiano.
In un incontro durante Bilbolbul 2010 ho apprezzato molto il concetto che esprimi sul movimento applicato al paesaggio: non il paesaggio intenso come congelato in un momento, ma interpretato dal movimento dell’occhio al suo interno. Questo deriva anche dall’aver seguito tuo padre in tutti i suoi spostamenti di lavoro in gioventù? È rimasto un po’ quest’occhio al passaggio del paesaggio intorno?
Non so, questa è un’interpretazione un po’ psicoanalitica. È strano.
Di fatto la percezione del paesaggio, per me – a parte quando sei in un posto, lo guardi dalla finestra con un senso di attesa, di contemplazione, di calma – è passata attraverso il finestrino di un treno, attraverso le grandi passeggiate, attraverso queste distese enormi in viaggio, quando sei in macchina e devi fare chilometri su chilometri.
Quando sei in questi grandi spazi non hai quella percezione di fissità di quando ti metti in un posto e guardi dalla finestra o hai una cornice e c’è un posto che tu osservi e passi il tempo. Hai questa sensazione di guardarti attorno, di essere continuamente circondato dallo spazio, come nel deserto o come quando vai in montagna. Il tuo sguardo segue il cammino e segue le aperture, le grandi montagne: è uno sguardo in movimento. Credo che sia una delle caratteristiche non dico del mio sguardo, ma di quello di tutti: nel disegno quindi è come fermare questo senso di spazialità aperta.
Un grande che ha portato avanti questa ricerca con le sue fotografie è David Hockney, come quelle nel Grand Canyon. Mi ha influenzato molto questo tipo di riflessione sullo sguardo, sul paesaggio, per cui quando ho fatto questi viaggi c’è stato proprio il bisogno di dire: «Ma come faccio a fissare questa spazialità?». Mi sono accorto che io godo, gioisco del passaggio del mio sguardo nello spazio: uno sguardo in movimento.
Uno sguardo di presenza, nel senso di essere dentro il paesaggio e non osservalo da fuori come se non ti riguardasse.
Esatto. Essere all’interno di un paesaggio, all’interno di uno spazio e gioire di tutta questa spazialità. Dà grandi emozioni la spazialità, come essere in una foresta o in un grande prato.
Poi c’è anche un altro tipo di contemplazione: quella dei pittori dell’Ottocento, ad esempio Cezanne. Il guardare continuamente, osservare la montagna, cercare di fissarne tutti i passaggi; oppure Morandi, i paesaggi visti dalla finestra. Il paesaggio, sempre lo stesso soggetto, che solo col variare della luce, il variare delle ombre, col sole, con la pioggia, prende un’identità differente ed è uno specchio delle emozioni che cambiano, però rimanendo fisso.
Quello che forse io ho cercato di mettere nei miei disegni è proprio questo essere dentro il paesaggio. Una dei lavori di David Hockney che mi ha colpito moltissimo è stato il suo andare con il treppiede in un bosco nello Yorkshire, mettersi lì e dipingere. E diceva: «È l’unica maniera. Le fotografie non la possono fare questa cosa. L’unica maniera per poter fissare questo senso di spazialità che ci circonda è la pittura, è il disegno.» E lo teorizzava anche.
Disegnando con il pennello tu ricrei il movimento che hai fatto con gli occhi: l’allontanamento, il riavvicinamento. È proprio un movimento fisico che fai con il pennello, con la mano, e che ricrea, in miniatura, esattamente il movimento e il lavoro che fanno i tuoi occhi e che fa il tuo sguardo posandosi sulle pianure, sulle colline, sulle montagne. C’è una sorta di trasposizione: passare dallo sguardo alla mano. Come quando noi abbiamo scansionato un disegno e poi la stampante lo stampa sul foglio. Il laser degli occhi registra il movimento, il passare dello sguardo e la mano stampa e disegna quello che ha registrato, quello che hanno registrato gli occhi.
Quindi diventa un atto molto fisico.
Il disegno è fisico: è fatto con le mani, ed è fisico.
Questa sensazione di movimento si ritrova spesso anche nei tuoi personaggi, che non sembrano fermati in una fotografia ma raccontati nel loro andare. Penso per esempio a Stigmate, e sono curioso di capire il coinvolgimento tuo e di Piersanti nella realizzazione del film tratto proprio da questo fumetto.
Ci son venuti a trovare, ne abbiamo parlato. Ho pensato molto se dare o no la possibilità di far fare a questi ragazzi il film oppure no. Mi era già successo altre volte e avevo rifiutato. Per cui siamo stati coinvolti in maniera emotiva, sì. Poi loro ci hanno mandato la sceneggiatura – cioè la rielaborazione del fumetto – e abbiam visto che c’era un enorme rispetto proprio della storia e anche delle immagini. A quel punto ci hanno chiesto se volevamo partecipare alla ricerca degli attori e degli spazi e quando hanno cominciato a girare ci hanno chiesto se volevamo esserci, però per problemi lavorativi abbiamo declinato l’invito. Non volevo entrare nel progetto. Avevo paura che mi venisse automaticamente qualcosa da dire o da dare dei consigli e ciò non sarebbe stato giusto: quello è un lavoro fatto da qualcun altro, da Adàn Aliaga, è il suo lavoro e la sua maniera di interpretare le cose. A quel punto hanno fatto tutto in autonomia e credo che sia venuto fuori un lavoro incredibile con pochissimi mezzi. La qualità dell’immagine e della messa in scena sono altissime. Quando ci han fatto vedere il primo montaggio abbiamo collaborato con dei consigli, con le nostre impressioni. E ancora mi verrebbe da dargli qualche suggerimento.
Il senso di movimento dato dal disegno non è facile da riproporre, forse non è neanche possibile riproporlo nel cinema.
È un altro linguaggio. A volte il regista prende e poi interpreta, in questo caso è stato estremamente rispettoso.
Sempre riguardo al disegno e al colore applicato al disegno, nell’incontro cui accennavamo prima hai parlato di come i colori dei quadri e delle illustrazioni non siano quelli reali, perché ciò che l’occhio vede non è quello che l’autore percepisce. Il colore del disegno non è al servizio del realismo ma delle sensazioni dell’autore all’interno del paesaggio.
Io la vedo così, poi ci sono anche altre maniere di interpretare le cose.
A me capita che se disegno un paesaggio, un’immagine, in un primo momento quello che vedo sul foglio è molto simile a quello che vedo con i miei occhi, però manca sempre qualcosa. Ho la sensazione che non sia quello che io sento, per cui ho bisogno per interpretare di cercare il colore – forse anche la forma – che mi dà la sensazione che ho vissuto guardando quel paesaggio. Per cui a un certo punto diventa una distorsione, i colori diventano diversi: vedo quell’albero che è verde, che ha quell’ombra, però per avere la stessa emozione che ho avuto guardando quell’albero con quella luce, in quel momento, per darmi quella sensazione di magia che ho vissuto legata anche alla mia esperienza personale e intima, quell’albero deve essere blu sulla carta. Sono sempre visioni reinterpretate attraverso le mie emozioni.
Parlando sempre di Stigmate, in un incontro con protagonisti Gipi e Andrea Bruno, si è parlato dell’opera. Bruno ha detto che la sua lettura gli ha fatto abbandonare l’uso del colore che aveva prima; Gipi invece ha raccontato che lo ha fatto avvicinare al tratto sottile. Insomma, entrambi erano stati influenzati da quest’opera. Cosa vuol dire essere un esempio, aver lasciato degli insegnamenti anche non volendo – che forse è addirittura più bello?
Mi fa molto piacere perché vuol dire che c’è una sorta di continuità tra quello che c’è stato prima di me e quello che viene dopo; dà il senso della storia. È quello che ho vissuto io con i miei maestri: se non ci fossero stati dei disegnatori che mi hanno aperto delle finestre e detto «Guarda che si può andare da questa parte.» o che mi hanno colpito e influenzato, io non esisterei per niente. Ho sempre detto che non ho fatto altro che continuare il lavoro di Breccia o di Hugo Pratt. A volte mi hanno detto «Sei pazzo, stai rivoluzionando, stai facendo altre cose, non fai fumetto fai pittura, cosa credi di fare?» ma a me sembra di fare esattamente le stesse cose che hanno fatto quelli prima di me. Per questo mi fa piacere che dei disegnatori talmente bravi e talentuosi siano stati toccati da me e continuino la strada. Mi fa molto piacere che ci sia il rispetto di quello che è venuto prima, che ci sia l’ammissione che abbiamo sempre qualcuno prima di noi.
Non mi piacciono certi disegnatori che sembrano avere inventato tutto loro nel momento in cui nascono: questa è una cosa che mi dà spesso fastidio.
Il tuo adattamento della favola di Hänsel e Gretel è un punto di vista adulto, non rivolto a un pubblico di bambini. Questo ti ha permesso di scovare col disegno anche l’aspetto più violento di certe favole?
Io non l’ho vissuta come una favola, ma come una storia antica, una storia di ragazzini abbandonati nel bosco da genitori poveri e di tutta la loro angoscia.
Forse uno dei riferimenti che inconsciamente è venuto fuori è il film La morte corre sul fiume con Robert Mitchum. Fortunatamente ho avuto la libertà di fare questo lavoro non per un libro per bambini ma per una mostra a New York, quindi non avevo questo senso di dover mediare per un pubblico ben determinato. Questo mi ha dato la possibilità di esprimere la vera essenza di quella storia che è la paura, l’essere persi nel buio, l’essere persi nel mondo, una paura che non bisogna censurare.
Trovo sia interessante che sia stata accolta molto bene. Forse rompe qualche tabù che si costruisce attorno al libro per l’infanzia, alla pedagogia, all’immagine che deve essere fatta apposta per il bambino.
Io sono d’accordo, difendo il far passare certi contenuti al bambino, però non passerà mai il lavoro pedagogico del mettere il bambino di fronte alle proprie paure e alle proprie angosce se non le racconti. Il bambino con certi libri può permettersi di affrontare la paura, se poi non ci riesce chiude il libro: quest’ultimo deve dare la possibilità anche di fare dei passaggi di conoscenza al bambino.
Mi ricordo che per me era un grande piacere guardare le illustrazioni della Divina Commedia, dell’Orlando Furioso, del Don Chisciotte fatte da Gustave Doré. Il quale non ha mai fatto un libro per i bambini, lui faceva illustrazione per adulti. Io ho fatto Hänsel e Gretel con la stessa mentalità di Doré, senza pensare che fosse per bambini o per grandi. Ho seguito il mio bisogno di reinterpretare questi mondi.
Invece per Orecchio Acerbo hai lavorato a una collana specificatamente per bambini, i Pittipotti. È piacevole vedere il tuo diverso approccio al disegno. Come ti poni quando lavori su questi libri? Cosa rappresentano?
I Pittipotti sono stati inventati in un momento in cui Kramsky ed io avevamo bisogno di vivere, cercavamo un modo di pubblicare in maniera periodica su Il Corriere dei Piccoli e uno dei grandi esempi era la Pimpa. Volevamo parlare a un pubblico piccolino, inventare questi animali con una idea antropologica dietro, per cui abbiamo fatto un lavoro “tra virgolette” apposta per questa collana.
I Pittipotti però venivano fuori da un altro mondo che era quello delle le storie sperimentali che facevamo con Kramsky con questi animali stranissimi, che poi non sono mai state pubblicate. Era un po’ tratto dal mondo di Vaughn Bodé, un grande disegnatore underground morto molto giovane che faceva storie stranissime, visionarie, di animali strani. Poi abbiamo rielaborato l’idea per la collana destinata ai bambini.
Ho fatto tanti lavori che son molto diversi tra di loro, ogni lavoro ha il suo linguaggio, la sua struttura, la sua forma, rispetto al pubblico cui ci si deve rivolgere.
Intervista rilasciata dal vivo a Marzo 2010, durante il Bilbolbul di Bologna.