Come sempre in questi casi, parli con Ivo Milazzo e non puoi fare a meno di non citare quell’esempio di genialità applicata al fumetto meglio noto come Ken Parker. In quest’intervista, condotta nei giorni del Comicon 2008 da Alberto Casiraghi insieme alla redazione di Wings of Magic e a Stefano Perullo, “una domandina su Ken Parker” offre all’autore il pretesto per ricordare un’epoca in cui lavorare nel fumetto era decisamente diverso rispetto a oggi.
Come è iniziata la tua carriera? Quali esperienze hanno portato lei e Giancarlo Berardi a creare le condizioni necessarie alla nascita di Ken Parker?
Voglio precisare che stiamo parlando di parecchi anni fa, visto che ho iniziato nel 1971; la situazione era molto diversa da quella attuale, perché avevo una fidanzata e avevo l’esigenza di guadagnare dei soldi. Gli inizi non sono mai facili per nessuno, ho avuto più di un tentennamento. Tuttavia, il fatto di essere in due (io e Giancarlo Berardi) ci ha permesso di bypassare molte difficoltà. All’epoca c’erano più opportunità di arrivare in maniera “corretta” a svolgere questo lavoro, era più facile avere buoni rapporti con l’editore. Questo pero’ ci ha creato anche delle difficoltà, perché alcuni editori tendevano a dividerci, ci mettevano nella condizione di collaborare con altri autori. Da ciò abbiamo appreso la lezione dell’umiltà e della perseveranza, una lezione molto importante che ci ha permesso di diventare quello che oggi siamo.
Quando tu e Giancarlo Berardi avete creato Ken Parker, oltre ad ispirarvi a Robert Redford per le fattezze del personaggio, a cos’altro vi siete ispirati?
A tutto ciò che colpiva il nostro immaginario: infatti siamo cresciuti entrambi senza il supporto della televisione, quindi per spaziare con la fantasia avevamo bisogno dei libri, dei fumetti, del cinema, tutte cose che hanno permesso di appagare la nostra voglia di fantasia. Nello stesso tempo, ho avuto la fortuna di avere dalla nascita quel dono di natura che è il saper disegnare. Alle superiori io e Giancarlo abbiamo scoperto questa voglia comune di creare storie. Abbiamo iniziato con un personaggio comico, Palafitta, che era tuttavia una striscia un po’ troppo “alta”, culturalmente parlando. Tramite la nostra naturale attitudine a descrivere temi cari ai giovani di allora abbiamo capito che il nostro istinto narrativo verteva a comunicare maggiormente attraverso storie di taglio realistico. In questo modo, senza saperlo, abbiamo gettato le fondamenta per quello che sarebbe stato Ken Parker. Chiaramente, quando ci siamo messi a fare Ken Parker non avevamo nessuna idea che un giorno potesse diventare il mito che poi è diventato.
In quel periodo c’era la consapevolezza che si stava in un certo senso rivoluzionando alcune regole del fumetto di genere?
Diciamo che c’era la consapevolezza di entrare nel mondo della comunicazione di massa tramite la porta dei fumetti. La distinzione tra fumetto seriale e fumetto d’autore è venuta dopo, e a mio parere non vuol dire nulla, perché un fumetto d’autore può essere anche seriale. All’epoca pero’ la serialità era vista in termini diversi: una serialità semestrale come per esempio quella di Gea, il personaggio di Luca Enoch, era impensabile trent’anni fa, in cui un prodotto seriale doveva uscire in edicola mese per mese. La consapevolezza che stavamo facendo qualcosa di diverso rispetto al mercato dei fumetti “da edicola” è venuta dopo, accorgendoci che non riuscivamo a produrre storie al ritmo di una al mese (infatti Ken Parker ha avuto da sempre una periodicità assai tormentata, con circa 9-10 uscite all’anno). L’editore inizio’ quindi ad affiancarci dei collaboratori: alcuni, come per esempio Carlo Ambrosini, donavano con la loro esperienza una certa fedeltà alle atmosfere originali del personaggio. Altri invece snaturavano un po’ con il loro stile lo “spirito” di Ken Parker, che era indubbiamente diverso da quello di altri personaggi bonelliani come Tex, Zagor, Mister No. In questo modo Ken veniva man mano “omologato” a tutti gli altri, sempre con rispetto parlando: preciso che il mio discorso non è volto a stabilire se Ken Parker sia migliore o peggiore dei fumetti che ho citato, quanto piuttosto a esaltarne una diversità concettuale di fondo.
Infatti Ken Parker è un personaggio western decisamente atipico, più abituato a risolvere la situazione col cervello che con le pistole.
Ti diro’, essendo sia io che Giancarlo cresciuti a giocare a indiani e cowboy, a un certo punto non ne potevamo più del genere western! Perciò, quando ci mettemmo a fare fumetti, ci dicemmo: “Faremo tutto tranne il western!”. E infatti, siamo diventati famosi grazie a un fumetto western. Pero’, c’é da dire che in nostro soccorso venne un nuovo modo di approcciarsi a questo genere che era figlio di una nuova ondata di film americani prodotti tra gli anni sessanta e l’inizio dei settanta, i cosiddetti western “dalla parte degli indiani”. Questo nuovo filone ci ha aiutato a rappresentare un nuovo personaggio, meno eroe e più uomo, che era proprio ciò che noi cercavamo. Ricordiamoci che le esigenze dei lettori erano cambiate rispetto al dopoguerra, in virtù degli sconvolgimenti politici e sociali di quegli anni che si erano inevitabilmente andati a ripercuotere anche sul fumetto.
E il rapporto con l’editore? Qual era il rapporto di Sergio Bonelli con Ken Parker?
Sergio Bonelli, che all’epoca era giovane e viveva i suoi quarant’anni in giro per il mondo, all’inizio non colse le potenzialità del personaggio, ma lo tratto’ come un qualsiasi altro prodotto della sua Casa Editrice. Aveva visto le pistole, i cowboy, l’avventura, e disse: “Ma si, andrà sicuramente bene” e ci investì i suoi soldi. All’epoca la sua casa editrice viveva un momento splendido, in cui si investiva molto denaro per ogni progetto ed era denaro ben speso; del resto, ancora oggi Bonelli investe molto denaro per i fumetti e per fortuna che in Italia c’é ancora un editore come lui. Quando pero’ si rese conto di ciò che stava stampando, il processo era già in atto. Cerco’ di aiutare me e Giancarlo nel mantenere una certa serialità affiancandoci i suddetti collaboratori più tradizionalisti, ma la sintonia che essi avevano con lo sceneggiatore di Ken Parker non era sempre perfetta, in quanto le sceneggiature di Giancarlo li obbligavano indubbiamente a un lavoro di ricerca e di costruzione della tavola diverso da quello solito. Per esempio, veniva meno l’aiuto della didascalia che spiegava ciò che stava avvenendo nella vignetta. Ora, sappiamo tutti che col tempo il fumetto si sarebbe evoluto in questo modo, non siamo stati noi gli unici ad abolire i cosiddetti “spiegoni”, ma di certo io e Giancarlo partivamo avvantaggiati in questo lavoro, perché eravamo in grado di portare avanti l’idea di una storia capendoci al volo. Se Ken Parker lo avessimo portato avanti noi per sempre sarebbe stato il massimo, ma in quel caso sarebbe stato impossibile mantenere una serialità regolare e allo stesso tempo accontentare tutte le volte il lettore con storie di buona qualità. Al mondo non c’é nessun prodotto seriale che riesca a mantenere alta la qualità e allo stesso tempo garantire una periodicità fissa. La creatività ha dei limiti, non sempre tutto quello che si fa è eccezionale. Persino i grandi hanno fatto delle cose che sono passate più “inosservate”: Manara, Pratt, Giardino, o anche Fellini, per non rimanere confinati al fumetto. Comunque, per tornare al discorso iniziale, all’epoca né io né Giancarlo avevamo come fine quello di scardinare le convenzioni del fumetto seriale, ma solo la voglia di comunicare attraverso i fumetti con un linguaggio nuovo e adatto al pubblico di quegli anni.
Quindi in fondo in fondo c’era la voglia di sperimentare nuove strade per il fumetto seriale?
Col tempo ci accorgemmo di avere un pubblico affezionato e soprattutto maturo, che aveva fatto proprio questo nuovo approccio al fumetto d’avventura. Era un pubblico anche mediamente numeroso (relativamente a quello di una testata Bonelli di allora): circa 60.000 copie vendute ogni mese. Insomma, a Bonelli dispiaceva chiudere la testata, non solo per motivi economici ma anche perché alla fine si era affezionato a Ken Parker. Era evidente che pero’ il nostro modo di produrre fumetti faceva a cazzotti con quanto si produceva invece in via Buonarroti. A me e a Berardi piaceva affrontare temi impegnati, e senza falsa modestia abbiamo intrapreso questa strada molto prima di tanti nostri colleghi. Temi come la condizione della donna o dei disabili sono scottanti ancora oggi, forse perché il disinteresse generale della popolazione è rimasto lo stesso. Io credo che questa pigrizia intellettuale venga creata ad arte: abbiamo dei media che giocano ad obnubilare le menti, ad ammorbare l’anima. è come se fossimo tornati indietro di un secolo.Se non si fa il pieno di benzina al cervello finisce anche la fantasia. Il fumetto è un ottimo carburante che ti permette allo stesso tempo di realizzare grandi cose e di comunicarle con la sensibilità dell’oggi.
Alla luce di tutto questo, si direbbe che il lavoro del fumettista è assai difficile. Qual è il percorso che consiglieresti a un giovane che vuole intraprendere questa strada?
Per essere un buon fumettista devi strutturarti e devi saper comunicare. Se sei un bravo pittore o un bravo illustratore non per forza sarai anche un bravo fumettista. Perché disegnare un fumetto non significa necessariamente dover fare in ogni vignetta la Cappella Sistina, bensì disegnare una vignetta funzionale a ciò che stai narrando: né una linea di più né una di meno. E questo sia a livello grafico che narrativo. Quello della sintesi è un discorso difficile, non lo metto in dubbio, perché all’inizio, soprattutto se si è giovani, si ha voglia di buttarsi a capofitto in quello che si sta facendo, di metterci dentro tutta l’anima e a volte anche di più. Per esempio, pensiamo ai cantautori: una volta c’erano questi ragazzi con la chitarra che prendevano un tema sociale o politico e ne traevano una canzone, che poi cantavano e suonavano. Poi col tempo si matura, e si cambiano tono e registro: pensiamo a Venditti, che era partito come il più arrabbiato di tutti ed è finito col cantare canzoni d’amore. Tutti iniziamo con la rabbia e la voglia di imporci, perché imponendoci prendiamo coscienza che esistiamo. Pero’ dobbiamo discernere, man mano che si va avanti, in che modo esistiamo a livello professionale e in che modo viviamo nel mondo.
Tu hai lavorato con diversi sceneggiatori: Berardi per Ken Parker, Artibani per Il Boia Rosso (a proposito, dopo puoi spiegarci perché la stampa dell’edizione italiana è così mediocre?)… C’é un filo comune, a livello di metodo, tra tutti questi autori con cui ti sei confrontato? Oppure ti hanno messo in condizioni di lavoro diverse di volta in volta?
Chiaramente, ogni autore ha un suo metodo di lavoro; ho sempre trovato colleghi intelligenti, che hanno capito ogni volta che quando cambiavo – solo leggermente – il loro tracciato letterario, lo facevo nel tentativo di migliorare la comunicazione con il lettore, mai per prevaricare il lavoro dello sceneggiatore. Non mi interessa imporre il mio stile sulla storia, dimostrare la mia abilità nel disegnare; a me interessa raccontare, comunicare un’emozione, divertire. Anche nel mio ultimo libro, L’impresa di Baden Powell, in cui ho dovuto peraltro fare un lavoro di documentazione notevole perché non sapevo quasi nulla di quest’uomo, non c’era la voglia di sfruttare l’immagine di questo personaggio come pretesto per un banale racconto di avventura, bensì quella di presentarlo sia a chi già lo conosce sia a chi ci si avvicina per la prima volta. In realtà ho sempre bisogno di affrontare ogni argomento con la voglia di apportarvi qualcosa che ho imparato nel tempo. Per rispondere alla domanda sull’edizione italiana de Il Boia Rosso, essa è un po’ imperfetta perché le pellicole sono state rifatte in bianco e nero, e siccome quelle originali della versione francese non hanno il nero, che nel fumetto a colori e in linea chiara non si usa, i neri sono venuti un po’ sfocati, bruciati. Poi c’é la questione dell’affidare la propria opera ad altre persone, una cosa che mi fa rabbrividire. Il Boia Rosso è uno di questi casi: ho dovuto scartare circa una decina di coloristi, perché ognuno di loro proponeva delle colorazioni che mal si adattavano al mio stile di disegno; colorazioni piene di effetti di luce dati al computer, per intenderci. Quando mi viene data la possibilità di colorare da solo la mia storia non ho nessun problema, come nel caso de L’impresa di Baden Powell. Quando la mia storia viene affidata invece a un altro colorista, per me iniziano i problemi, soprattutto se non lo conosco: come faccio a fidarmi? Le atmosfere di una storia, infatti, vengono date o con il colore o con il contrasto tra bianchi e neri. Se il colorista non coglie il senso che io ho voluto dare alla tavola, il risultato finale non potrà che essere mediocre o addirittura deludente.
Quali sono adesso i rapporti con Giancarlo Berardi? C’é la possibilità che tu possa collaborare a un episodio di Julia?
Julia è una creatura di Giancarlo e sarebbe scorretto se io ci mettessi mano, soprattutto per il lettore. Comunque, per quanto riguarda una ritorno della coppia Berardi e Milazzo, tutto è possibile. Persino le voci che vogliono un ritorno di Ken Parker non mi è possibile smentirle… purché ci siano le condizioni favorevoli e, in particolare, un imprenditore disposto a investire bene in questo progetto [questa notizia ormai è un po’ datata: l’intervista è stata condotta ad aprile 2008 – N.d.R.]. Intanto, ognuno va per la propria strada ed è giusto che sia così. La mia è quella che percorro da dieci anni e che mi ha portato a collaborare per Tex, Magico Vento e tanti altri progetti. A proposito di Magico Vento, voglio precisare che la mia “uscita di scena” è dovuta al fatto che sono venute a mancare alcune prerogative basilari che non sto qui a spiegare, mentre resta inalterato il mio rapporto di stima reciproca nei confronti dell’editore e dello staff. Tuttavia, mi dispiace constatare che ormai alla Bonelli non è più possibile affrontare, per un giovane fumettista, quel percorso di crescita autoriale che invece era usuale fino a pochi anni fa; le difficoltà del mercato, la mancanza di idee o chissà che altro, fanno temere molto più di prima all’editore qualsiasi possibilità di un fallimento.
Per concludere, una domanda sul western: alla luce della recente riscoperta da parte del fumetto e del cinema, lo consideri ancora un genere attuale o forse ha esaurito le cose che aveva da dire?
Il western è un genere affascinante che ha riempito le menti di generazioni di fan per anni, ma sta attraversando un periodo in cui la gente ne è indubbiamente stufa. La difficoltà di oggi è trovare una nuova chiave di lettura per questo genere, un’ interpretazione che sappia portargli nuova linfa e, soprattutto, nuovi appassionati.
Riferimenti
Wings of Magic: http://www.wingsofmagic.it</a