Una musulmana da non stuzzicare: intervista a Takoua Ben Mohamed

Una musulmana da non stuzzicare: intervista a Takoua Ben Mohamed

Abbiamo intervistato l'autrice presente a Lucca Comics and Games 2024 con il suo nuovo lavoro, "Non stuzzicate la musulmana", e con una mostra collettiva dal titolo Kalimatuna.
Sottoilvelo

Takoua Ben Mohamed rientra in quel gruppo, abbastanza ristretto in Italia, di una nuova generazione di fumettisti e fumettiste capaci di uscire dalla propria bolla e farsi conoscere al grande pubblico. Sin da quando ha 14 anni, grazie al progetto Fumetto Intercultura, Takoua ha saputo parlare di pregiudizi, stereotipi e discriminazione in maniera ferma ma ironica, raccontando con chiarezza la propria cultura e religione, soprattutto nel rapporto con gli altri. Dopo il suo primo fumetto, Sotto il velo (2016, Beccogiallo), Takoua Ben Mohamed ha poi realizzato opere autobiografiche e reportage a fumetti, prodotto documentari, partecipato a TedTalk e altri incontri pubblici. A Lucca Comics and Games 2024, oltre a presentare il suo nuovo lavoro, Non stuzzicate la musulmana (Beccogiallo), è stata protagonista insieme a Deena Mohamed e Zainab Fasiki della bella mostra collettiva Kalimatuna – Le nostre parole in libertà, dove le opere delle tre artiste dialogano tra loro mostrando una nuova generazione di fumettiste portavoce dei mutamenti che attraversano i loro paesi di origine, ma anche di una generale richiesta di libertà, diritti e rispetto che ha al centro la donna.
Abbiamo parlato con l’autrice del suo percorso degli ultimi anni e del suo ultimo lavoro.

Ciao Takoua e grazie del tuo tempo. L’ultima intervista che hai rilasciato per il nostro sito è del 2017, quando avevi appena pubblicato i tuoi primi lavori e ti affacciavi al mondo del fumetto professionistico. Da allora è passato del tempo e hai pubblicato molte altre opere. Cosa è cambiato per te in questi anni nel rapporto con il fumetto, cosa hai imparato?
Nel 2017 avevo pubblicato solo Sotto il velo, il mio primo fumetto completo. Da allora sono arrivati tanti altri libri, di vario genere, e sono passata dall’essere immersa nella mia storia personale al raccontare tanto altro. La piccola Taku si è messa nei panni di una reporter in giro per il mondo e questo ha sicuramente cambiato la consapevolezza con cui racconto le cose, aspetto che ho rafforzato lavorando al libro Il mio migliore amico è fascista, uscito per Rizzoli, e anche nel mio ultimo lavoro per Beccogiallo, Non stuzzicate la musulmana: soprattutto in questo si vedono le differenze rispetto al primo libro, in cui c’era una Taku molto timida, molto tenera nelle sue risposte, molto attenta a non offendere nessuno. In questo invece mi sento libera e non mi interessa il giudizio di nessuno.
Anche a livello grafico ho lavorato molto sul mio stile e ci sto ancora lavorando. Ho imparato a cambiarlo in base al tipo di racconto che faccio: quando parlo di me e delle mie esperienze personali è molto vivace, c’è molto colore, molta autoironia; nei reportage invece sto attenta alla sensibilità di chi vado a disegnare, curo molto i tratti delle persone in base all’etnia, in base al paese e in base al contesto che sto raccontando, tenendo conto dei drammi e delle tematiche spesso molto serie che non possono essere affrontati con un tono e un tratto ironico.

Partirei da questo doppio registro, concentrandomi sui tuoi lavori autobiografici. In Non stuzzicate la musulmana torni alle tue origini, recuperando il personaggio del tuo primo libro dopo otto anni. Cosa ti ha spinta a tornare a questo personaggio, a trattare temi autobiografici ma anche della tua cultura di origine, della tua religione e del rapporto che gli altri hanno con questa?
Nei miei libri non parlo mai direttamente né di religione né di velo, ma parlo di società, di come reagisce nei confronti di una cultura diversa, dell’immagine della ragazza col velo che cammina per strada. Per tutta la mia adolescenza, ma anche i miei vent’anni, ho vissuto una crisi identitaria, sono quindi sempre stata immersa nella ricerca dell’io, ho sempre dovuto rispondere a delle domande sulla mia identità e mi sono spesso confrontata con il giudizio degli altri. Arrivata a trent’anni ho detto basta, ho deciso di non accettare più il giudizio di nessuno, men che meno la discriminazione, il razzismo; mentre prima scusavo l’ignoranza, adesso il non sapere non è più una attenuante per me, viviamo nel mondo dell’informazione che è accessibile a tutti quanti gratuitamente, non ci sono più scuse. Diverso è il pregiudizio, che è cosa umana, e sta a noi scegliere se restare chiusi nella nostra bolla e rifiutare il confronto, diventando razzisti e xenofobi, oppure trasformarlo in curiosità e cambiamento, una sfida a conoscere le cose e ad aprirsi. Ho sviluppato la consapevolezza che mi permette di scegliere da che parte stare e imporre questa cosa agli altri: non accetto che qualcuno mi dica che non sono italiana perchè non rappresento qualche tipo di idea che hanno in mente, o che non sono tunisina: io sono tutto e niente magari, ma sono io a decidere cosa sono e non gli altri. Posso affermare con serenità che sono diventata molto cattiva. [ride]

In questo senso mi è sembrato che il personaggio, mantenendo la sua ironia e il suo sarcasmo, esprima un certo grado non tanto di cattiveria, quanto di severità maggiore rispetto al passato. Riflette proprio questo cambiamento?
Questa consapevolezza di cui parlavo è arrivata non solo crescendo, ma anche avendo a che fare con altre persone nella mia vita quotidiana e professionale. Quando si incontra il pubblico si capisce se le domande sono per mera curiosità, come quelle dei bambini, oppure se sono provocatorie. E ho capito cose nuove di me anche incontrando un pubblico fuori dall’Italia e dall’Europa: quando mi chiedevano da dove venissi, non sapevo bene cosa rispondere, dovevo raccontare una storia per far capir loro che sono italiana, ma anche tunisina. Mi sono resa conto che il tema dell’identità è qualcosa di complesso, è un tema internazionale, e ci sono continui cambiamenti. Il meticciato e la vera e propria transcultura che si stanno creando in Italia e in Europa si trovano anche altrove, anche in Medio Oriente per esempio, e anche qui il tema delle migrazioni è molto forte. E ho notato come viene trattato il tema in altri paesi: esistono discriminazioni e razzismo, certo, ma ho visto una maggior pace nella ricerca di sè stessi, meno conflitto. Io ho capito che per trovare questa pace per me stessa dovevo togliere dei filtri, mettere dei limiti ben precisi, e far capire che determinate cose non si possono e non si devono fare. Insomma, diventare più cattiva. [ride]

Rivoluzionegelsomini

Parlando sempre di identità, nel 2018 hai pubblicato La Rivoluzione dei Gelsomini, in cui la tua storia personale si intreccia a quella del paese di origine della tua famiglia, la Tunisia. Vorrei chiederti come è nata e come hai affrontato quell’opera, molto personale e un po’ diversa dal resto della tua produzione.
Ho lavorato tre anni a La Rivoluzione dei gelsomini ed è stato essenziale per quello che ho fatto dopo, anche e soprattutto per Non stuzzicate la musulmana, perché, banalmente, non puoi completare la ricerca della tua identità senza conoscere il tuo passato. Io gran parte del mio passato non lo conoscevo, anche se vedevo cose che accadevano intorno a me durante l’infanzia, ma non sapevo dare una risposta; i miei genitori ci hanno nascosto tante cose per proteggerci, soprattutto a noi fratelli e sorelle più piccoli, e quindi quel lavoro di ricerca è stato importante per me perchè mi ha portata in Tunisia dopo tanti anni, dopo la dittatura, dopo la rivoluzione.
È stata per me come una secchiata d’acqua fredda, perché mi sono accorta di non conoscere niente, nè i miei parenti, i miei cugini, nè della Tunisia tranne vaghi ricordi della casa dove abbiamo abitato durante l’infanzia, la casa dei miei nonni. Diversamente da altri coetanei di seconda generazione che magari passavano le vacanze estive nel paese di origine, loro o dei genitori, insieme a zii, cugini, altri parenti, io ho vissuto dodici anni di esilio, quindi sentivo un pezzo vuoto della mia identità, di cui fino a quel momento non riuscivo a parlare nei miei libri.
Questa lontananza mi aveva fatto addirittura dimenticare l’arabo: dopo gli attentati delle Torri Gemelle è diventata una lingua associata a cose negative, al terrorismo, quindi a scuola o comunque fuori casa evitavo di parlarla, e sono quasi arrivata a dimenticarla, tanto che una volta, durante un workshop in un festival in Algeria insieme a Claudio Calia, in un paese che condivide un confine con la Tunisia, che è molto legato al mio paese di origine, ecco lì mi sono trovata con un pubblico che parla arabo e francese (che dovrebbe essere una seconda lingua per me) e ho dovuto farmi tradurre dall’italiano. Ero arrivata fino a questo punto, è stato come uno schiaffo in faccia perché la lingua è un’identità che fa parte di te. In quel caso mi sono veramente accorta che vivevo in una dimensione separata e dissociata, che ero diversa dagli altri di seconda generazione.
Questo mi ha spinto ad andare in Tunisia a fare questa graphic novel, parlare con le persone, conoscere la mia storia e ha rafforzato anche il legame con il mio paese di origine, con la cultura, con il mondo arabo, mi ha portato a conoscerlo meglio: crescendo in Italia si conosce una storia da parte dei colonialisti, da parte di chi ha vinto la guerra; fortunatamente mio padre è un ex insegnante e mi ha sempre raccontato anche un’altra storia, quella di chi la guerra l’ha persa. Sono quindi cresciuta a cavallo tra chi dice che gli arabi sono brutti e cattivi e chi invece dice che sono dei partigiani, e questo viaggio mi ha fatto capire che sono cresciuta con una visione eurocentrica. Lo stesso vale per il femminismo e i diritti delle donne: quando sono stata in Iraq, in Kurdistan, in Arabia Saudita, ho scoperto che anche in questi paesi ci sono altre storie, movimenti, non è tutto bianco o nero. Tutto questo mi ha fatto riflettere sul fatto che se questa visione eurocentrica era permeata così tanto in me, figuriamoci negli altri, in chi non ha vissuto tutto questo, chi è 100% italiano e non ha mai conosciuto altro, o in chi non è stato fortunato come me a vivere in una famiglia acculturata, nell’avere la possibilità di fare volontariato e entrare in contatto con altri. Per questo ne La rivoluzione dei gelsomini e anche negli altri reportage c’è sempre un paragrafo storico in cui cerco di bilanciare ciò che viene insegnato qui e ciò che viene raccontato negli altri paesi, e questo equilibrio deriva dalla ricerca sulla mia identità.

Version 1.0.0

Il tuo stile è molto semplice e stilizzato, capace di arrivare con facilità anche a pubblici diversi. Secondo te questo ha aiutato le tue opere a entrare in contatto con generazioni più giovani, è stato affrontato in scuole e percorsi di formazione civica? E come hai visto l’approccio di ragazzi più giovani alle tue storie e al tuo lavoro? Pensi che ci sia da fare in questo senso, nel far conoscere un’intera regione che è vicinissima a noi ma di cui non sappiamo niente o pochissimo, sopratutto per più giovani?
Quando andavo a scuola pensare che il fumetto potesse essere portato in classe come parte di un programma didattico era impensabile, come anche in un ambiente accademico che è forse l’ambiente più esclusivo che ci sia. Oggi è diverso: mi capita spesso di fare conferenze e formazione per futuri insegnanti tramite il fumetto; questo in particolare è stato uno dei miei più grandi successi personali, perché ho avuto problemi, tanti problemi con i miei insegnanti, quindi arrivare a un punto in cui sono io a formare loro mi sembra la cosa più bella che che abbia conquistato! [ride]
È bello e importante che nelle scuole si usi il fumetto per raccontare personaggi e periodi storici, soprattutto la storia moderna italiana, quindi perchè non portare anche storie di paesi che come dici tu sembrano lontani ma in realtà sono molto vicini a noi? E non solo la Tunisia che è vicina geograficamente e legata alla nostra storia, ma tanti altri paesi a cui siamo legati per commerci, economia, uso di risorse, oppure paesi a cui siamo legati per cose meno nobili, come il traffico di esseri umani e il turismo sessuale. È un modo anche per capire gli sbagli dell’occidente, e in questo vedo le nuove generazioni molto più consapevoli rispetto ai miei coetanei. Quando andavamo a scuola non ci si ponevano domande e anche gli insegnanti, quando non apertamente razzisti, erano inesperti, non sapevano come trattare altre culture, come approcciarsi a noi di seconda generazione. Per noi era pura sopravvivenza in una giungla, mentre oggi vedo le scuole effettivamente e realmente trasculturali, la maggioranza degli studenti sono effettivamente figli di immigrati o figli di coppie miste, quindi tante cose che erano strane ai miei tempi sono diventate normali. Quando nelle scuole chiedo ai ragazzi se il proprio compagno di seconda generazione sia italiano o meno, loro rispondono che è romano o milanese, nemmeno italiano; anche una ragazza con il velo è normale. E questo non perché non ci sia razzismo: posso dire che vedo razzismo e transculturalità paradossalmente crescere allo stesso modo, parallelamente, per tanti motivi. Oltre alla consapevolezza dei ragazzi, c’è l’impegno di tanti insegnanti a fare attività in questa direzione, ma bisogna essere fortunati ad avere insegnanti bravi e sensibili, perchè a livello ministeriale non si fa nulla. A volte mi è capitato che siano gli studenti stessi a prendere la decisione di invitarmi nelle scuole. Questo ti fa rendere conto che effettivamente le cose stanno cambiando, ma questo non toglie il fatto che c’è ancora molto da fare.

Nel corso di questi anni hai pubblicato anche su molte riviste a grande tiratura, su internet, hai fatto TEDTalk e sei stata una delle poche fumettiste a uscire dalla cerchia ristretta del solo fumetto per portare i tuoi temi oltre un pubblico fidelizzato e abituato al medium: quale credi sia stata la chiave di questa diffusione?
Oltre i temi di cui parlo, che interessano anche chi di fumetto non sa nulla, credo che il fatto di lavorare in contesti esterni al fumetto mi abbia aiutato: ho lavorato in aziende per campagne di sensibilizzazione per capire come gestire i loro clienti diversificati a livello culturale, ho lavorato in campagne pubblicitarie, ho fatto formazione all’università, formazione all’ordine degli psicologi, a quello degli avvocati. E ho fatto tutto questo grazie al fumetto, che va considerato arte ma che è anche un potente mezzo di comunicazione, e sono stati proprio questi ambienti a volere il fumetto. Quindi credo che proprio il contatto con altre realtà possa servire a portare il fumetto fuori dalla sua bolla. E anche io sono venuta da fuori questa bolla, dato che la prima pubblicazione che ho fatto nella mia vita, a quattordici anni, è stato proprio un libro di sociologia per l’università, quindi sono un esempio vivente di questa possibilità di interscambio continuo.

Grazie mille Takoua per il tuo tempo!

Intervista realizzata a Lucca Comics and Games 2024 il 31 ottobre

Takoua Ben Mohamed

Takoua Ben Mohamed

Nata nel 1991 in Tunisia e trasferitasi all’età di nove anni a Roma con la sua famiglia, è fumettista, illustratrice, produttrice cinematografica e graphic journalist. Ideatrice a soli quattordici anni del progetto online Fumetto Intercultura, ha collaborato con la rivista Origami de La Stampa e con il Corriere della Sera. Con Beccogiallo ha pubblicato Sotto il velo (2016), La rivoluzione dei gelsomini (2018), Un’altra via per la Cambogia (2020), Crescere in Mozambico (2022) e il recente Non stuzzicate la musulmana! (2024), mentre nel 2021 ha pubblicato per Rizzoli Il mio migliore amico è fascista. Ha partecipato a vari Tedx Talk e ha ricevuto molti riconoscimenti tra cui il Premio Prato Città Aperta nel 2016 e il Premio speciale come miglior graphic journalist all’Evens European Journalism Prize (2019). Nel 2019 ha prodotto il docufilm Hejab Style per Al Jazeera Documentary Channel, sui mille modi di portare il velo.

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