Abbandonati i toni autobiografici del precedente La rivoluzione dei gelsomini, Takoua Ben Mohamed prosegue comunque il suo racconto degli angoli più difficili del mondo, sempre al crocevia fra popoli e culture. Un’altra via per la Cambogia nasce infatti come resoconto dei quindici giorni che l’autrice ha passato nel paese del sud-est asiatico, seguendo i volontari della ONG WeWorld, per raccontare così le moderne forme di sfruttamento e schiavitù di chi vive al confine con la Thailandia e il Vietnam.
Il libro è diviso in tre parti: la prima è il Passato e riflette una scelta stilistica già adottata dal precedente lavoro, introducendo il lettore alla situazione della Cambogia attraverso un rapido excursus storico sulle guerre che l’hanno dilaniata nel corso della sua storia. Sebbene ancora oggi terra di grandi tradizioni, cultura e turismo, la nazione è passata dalle secolari dominazioni imperiali agli scontri post-indipendenza fra Khmer Rossi, Vietcong, esercito regolare e le superpotenze che di quell’angolo di mondo hanno sempre fatto un privilegiato terreno di scontro. Genocidi e guerre si riflettono poi in un Presente instabile, che spinge molti abitanti a cercar fortuna oltreconfine, cadendo perciò nella rete dei trafficanti di esseri umani e nelle dinamiche dell’immigrazione irregolare.
Questa sezione è naturalmente anche quella che occupa la maggior parte dell’opera e in cui il libro si distanzia dal fumetto precedente attraverso una progressiva sparizione dell’autrice. Se La rivoluzione dei gelsomini usava infatti la storia personale come punto di osservazione sul percorso storico della Tunisia, qui Takoua Ben Mohamed si fa invece testimone silenziosa di un rispettoso resoconto della situazione cambogiana, anche a costo di un certo didascalismo. A un inizio più autoironico, in cui fa capolino il suo classico personaggio dal taglio caricaturale, impegnato in varie disavventure fra collegamenti aerei poco agevoli e bagagli smarriti, subentra ben presto una narrazione molto più asciutta, in cui l’icona resta dietro le quinte per lasciar parlare i fatti. Pure lo stile si adegua, i tratti diventano più lievi e, anche nell’immediatezza delle forme, i colori si fanno meno accesi, mentre si privilegiano splash page e vignette a tutta pagina, come istantanee del reportage da graphic journalism su quel mondo lontano.
I pensieri dell’autrice, a commento delle situazioni difficili di cui è testimone, sono invece affidati a singole pagine su fondo nero, che rendono in tal modo i pensieri incisivi e la narrazione scevra da ogni sensazionalismo, capace ancora una volta di fare un passo indietro, lasciando le peggiori rappresentazioni in fuori campo e affidandosi alla dimensione emotiva che denuncia le storture del mondo.
Sin dal titolo è un libro di percorsi, in cui la narrazione lineare è contaminata da varie e possibili “altre vie”. A volte sono lunghezze reali, come le peculiari tratte seguite dagli aerei per arrivare in Cambogia, evitando accuratamente gli spazi territoriali dei paesi in guerra. In altri casi sono dimensioni più ideali, in cui l’autrice cerca una chiave interpretativa al paradosso di una Cambogia dominata da templi millenari, costretti a risultare come vuote metafore di un passato silenzioso di fronte alle tragedie del presente, immaginando un Futuro diverso.
Il racconto è così sintetizzato da quattro storie, di persone che non hanno legami tra loro, ma che insieme formano un’ipotetica famiglia che sia simbolo di tutte le vite più sfortunate: Il padre è chi è partito per cercar lavoro, restando poi invischiato nella rete dei trafficanti; La madre denuncia invece la condizione della donna nel mercato del turismo sessuale occidentale; La nonna è il testimone delle anziane che, non potendosi far carico dell’educazione dei nipoti, sono spesso costrette a lasciarli negli orfanotrofi, rincorrendo lavori umilianti; Il figlio, infine, è il simbolo delle difficoltà di una gioventù che deve affrontare mille ostacoli per ottenere un’istruzione in un mondo che spesso spinge invece allo sfruttamento nei lavori pensanti.
In questo modo, Un’altra via per la Cambogia trova un suo equilibrio fra la militanza dell’opera che intende denunciare un’emergenza umana fuori dai riflettori e il racconto più sensibile che vuole lasciar provare allo spettatore le sensazioni vissute dalla stessa Takoua Ben Mohamed nello scoprire quanto accade a quelle dimenticate latitudini. Un affresco per questo duro, ma capace di riflettere una delicata empatia per la bellezza di una terra sofferente, in cui fra la cronaca si stagliano alcuni dettagli espressivi molto forti: un singolo fiore tra le piante, reticoli, fili spinati, tralicci dell’alta tensione e pali che descrivono limiti e confini, il terreno sporcato dal sangue dell’innocenza.
Il futuro diventa così l’unico tempo caratterizzato da un punto di domanda. Sebbene arricchita dall’esperienza e dal confronto con la Cambogia, l’autrice non nasconde infatti che “questo fumetto non può dunque che essere soltanto un inizio”. Qui, in un movimento circolare che ci riporta alle esperienze più personali degli esordi, Takoua Ben Mohamed riflette anche sul suo ruolo di narratrice, sull’utilità del raccontare storie che permettono di inquadrare il mondo da prospettive diverse, ma che lasciano anche un certo senso di impotenza. Il viaggio di ritorno ripropone così alcune delle vignette iniziali, ma stavolta l’ironia resta indietro, il personaggio dell’autrice è pensieroso e apre la sua ultima via rivolgendosi direttamente al lettore con una domanda: ora che avete potuto conoscere queste persone un po’ più da vicino, cosa farete per aiutarle?
Abbiamo parlato di:
Un’altra via per la Cambogia. 15 giorni nel cuore del sud-est asiatico con gli operatori della ONG WeWorld
Takoua Ben Mohamed
BeccoGiallo, 2020
160 pagine, brossurato, colore e bianco e nero – 18,00 €
ISBN: 9788833140112