All’angolo destro in calzoncini neri… Harry “Herschel” Haft!
Tra l’agosto 1948 e il luglio del 1949, il nome di Harry Haft riecheggiò ventuno volte nei palazzetti dello sport sparsi per gli Stati Uniti d’America. Harry Haft aveva ventitré anni quando iniziò la sua carriera da pugile professionista. Anche se Rocky Marciano in quegli anni andava dimostrando che l’altezza non era tutto, Harry Haft con il suo metro e settantacinque era tra gli atleti più bassi nel circuito dei pesi massimi e ciò, unito a una tecnica piuttosto grezza, lo mise in difficoltà contro più di un avversario. Il suo record finale non fu dei migliori: 13 incontri vinti, 8 persi.
Harry Haft non aveva caratteristiche fisiche straordinarie, non aveva colpi da maestro, non aveva preziosi anni di esperienza alle spalle, ciò che poteva portare sul ring era il suo passato. Un passato di dolore, sofferenza, rabbia, umiliazioni: il passato di un sopravvissuto all’Olocausto. Gli incontri di boxe che segnarono la vita di Haft non sono registrati in alcun tabellino, non conquistarono le pagine dei giornali né l’attenzione delle telecamere. Sono i quasi ottanta match che fu costretto a combattere durante la sua prigionia contro altri detenuti, quando il suo nome era ancora Hertzko.
Nei campi di concentramento, i nazisti fecero anche questo. Furono organizzati, per il divertimento dei gerarchi e per alimentare il giro di scommesse, incontri di boxe tra prigionieri provenienti da ogni parte d’Europa e accomunati dall’origine ebraica. Incontri all’ultimo sangue tra persone con un piede già nella fossa, malnutrite, disperate, senza distinzioni di categorie di peso, dove spesso perdere voleva dire morire. Furono in molti a condividere il destino di Haft: pugili dilettanti, professionisti, campioni, profani.
È una storia che a lungo è rimasta taciuta e che da poco si sta riscoprendo. Il film Triumph of the Spirit (Robert M. Young, 1989) ha avuto probabilmente un ruolo importante nel riaccendere i riflettori su questo pezzo di storia, sul quale poco alla volta si è cercato, tra mille difficoltà, di far luce.
Harry Haft, pochi anni prima di morire e molti decenni dopo i tragici eventi di cui fu vittima, raccontò la sua storia al proprio figlio, Alan Scott. La testimonianza orale è stata raccolta in un libro dal titolo Harry Haft: Auschwitz Survivor. Challenger of Rocky Marciano. Da tale libro, il talentuoso fumettista tedesco Reinhard Kleist, sempre più specializzato nel racconto biografico1, ha tratto il suo fumetto Der Boxer. Il volume è ora edito da Bao Publishing con il titolo di Il pugile e si completa di un ricco apparato redazionale, assai efficace nell’offrire una contestualizzazione agli eventi storici descritti.
Nel titolo del libro sono contenuti i due eventi maggiormente carichi di significato nella vicenda umana di Harry Haft: la terribile prigionia ad Auschwitz e l’incontro del 18 luglio 1949 contro Rocky Marciano, che assunse un’importanza che superò di gran lunga il suo valore sportivo. L’incontro durò solo tre round.
Round 1. Il significato della boxe
In una recente intervista il pluricampione Roberto Duran, causticamente, ha dichiarato «La boxe è sangue, non è quella dei film»2. Un modo, quello di Manos de Piedra, per ricordare che sul ring contano l’aggressività, la forza, la voglia di distruggere letteralmente il proprio avversario e quanto poco spazio ci sia per la retorica a cui il cinema hollywoodiano ci ha abituato. Eppure, se questo sport da decenni continua, tra alti e bassi, a emozionare e coinvolgere folle di spettatori, è anche e soprattutto in virtù della sua capacità di caricarsi di significati che vanno al di là delle sedici corde del ring.
È facile leggere nella storia di questo sport, nelle biografie dei tanti pugili che l’hanno onorato, storie universali: il desiderio di riscatto personale, razziale o nazionale, la lotta contro la paura, la sfida con se stessi, la fame di vita. «La boxe la fai se hai fame, non importa di cosa», scrive Baricco nel suo City, e sui suoi calzoncini la giovane promessa britannica Joshua porta una scritta simile, “Fuck Fear. Stay Hungry”.
A Harry Haft, la fame di certo non mancò: in senso tanto letterario quanto figurato.
Quella di Reinhard Kleist è una sceneggiatura sobria, senza fronzoli, che riesce a evitare il rischio della frammentazione episodica o della retorica a buon mercato che non di rado sviliscono il racconto biografico. Il pugile è un fumetto caratterizzato da una semplice ma efficace struttura narrativa, sublimata dalla capacità dell’autore di raggiungere alte vette emotive anche solo attraverso una manciata di battute, silenzi ben piazzati, minimi ma significativi cambiamenti dei volti. Abbondano i primi piani e i mezzo busto, con il viso di Haft sempre chiamato a essere veicolo emotivo, tramite del dialogo col il lettore; viso che Reinhard Kleist padroneggia a pieno, del quale è in grado di sfruttare ogni elemento, ogni ruga, movimento della bocca, inarcamento delle sopracciglia. Le chine giocano un ruolo fondamentale nel donare potenza grafica ed emotiva a ogni tavola.
L’autore è abile nel rappresentare Harry Haft nella sua complessità umana, di sopravvissuto sul quale il lager ha lasciato segni indelebili. Dopo Auschwitz, Haft intraprese una faticosa ricerca di sé e del senso delle cose. Una ricerca nella quale in gran parte fallì: non ritroverà mai ciò che la prigionia gli aveva tolto, né riuscirà a liberarsi di quei demoni interiori che gli aveva innestato. La prigionia lo rese un uomo arrabbiato, violento, taciturno, attraversato da una ostilità perenne verso gli altri e il mondo che lo circondava, un uomo che ebbe difficoltà a donare amore al suo stesso figlio.
Quando Haft venne deportato, ad appena quattordici anni, era poco più di un ragazzino la cui vita, nonostante fosse stata già sconvolta dalla guerra, era comunque segnata da quegli elementi che impreziosiscono ogni biografia: la famiglia, l’amore, la speranza nel futuro. I lager nazisti privarono Haft di tutto ciò e soprattutto lo privarono della possibilità di influire sul proprio destino: la macchina infernale dell’Olocausto ridusse l’uomo a numero seriale, schiacciandolo, umiliandolo, in un certo senso beffandosi della sua forza, ricordandogli ad ogni istante la sua impotenza. Fu solo tra le sedici corde del ring che Harry Haft ritrovò quanto il mondo fuori gli aveva tolto: la possibilità di essere almeno in parte artefice del proprio destino, di recitare un ruolo attivo nella sua tragedia.
Round 2. Sopravvivere
Questo libro è dedicato ai reietti:
a quanti sono stati condizionati, emarginati,
sedati, perseguitati e ingiustamente accusati.
E che sono incapaci di ricevere amore.
Con queste parole uno dei più grandi e controversi pugili di sempre, Mike Tyson, ha deciso di aprire la sua biografia3: parole che tragicamente si addicono a Harry Haft.
L’uomo che la guerra risputò fuori nel 1945 non era più il bambino che aveva inghiottito sei anni prima. Le chine di Kleist seguono e allo stesso tempo dettano il ritmo di tale orrore: con fare neoplastico si impadroniscono degli spazi, fagocitano la tavola bianca, si sostituiscono ai volti, deformano la realtà.
Sopravvivere nei campi di concentramento significò anche scendere a patti con la propria coscienza, arrivare a compiere atti inimmaginabili. Nel fumetto, ad esempio, ci vengono mostrati alcuni detenuti che arrivarono a praticare il cannibalismo. Haft per sopravvivere salì su un ring improvvisato, circondato dai suoi aguzzini e stendendo un avversario dopo l’altro si guadagnò il soprannome di “belva giudea”.
Tuttavia, come già detto, il ring è forse l’unico luogo dove Haft recupera la possibilità di decidere il proprio destino. La prigionia nazista lo annullò, lo confuse nella massa di prigionieri, lo rese nonostante la sua forza fisica un individuo tra i tanti, le condizioni lo portano a uno stato di necessità che spesso vanifica il suo arbitrio, annichilendolo. Sul ring la sua forza tornò a contare, la sua rabbia acquisì un’utilità: racchiusa tra quei quattro angoli non c’era una massa informe e anonima ma c’erano solo due uomini, un vincitore e uno sconfitto. Vincere ad Auschwitz volle dire sopravvivere.
Nel dopoguerra, vincere e conquistare le pagine dei giornali volle dire, per Haft, gridare al mondo di essere ancora lì. Nel suo pantaloncino con la stella di David cucita sopra, a suon di ganci, uppercut, jab e dritti Haft recuperò dignità, speranza, riannodò i fili della trama del suo essere. Fino all’incontro con Marciano.
Chiunque abbia visto qualche incontro di Rocky Marciano sa che un pugile come Haft non avrebbe mai potuto vincere: come pugile, The Brockton Blockbuster era di un altro pianeta. Ma, per Haft, più dei pugni e della sconfitta ciò che bruciò fu l’essere privato ancora una volta della possibilità di decidere per se stesso: l’incontro lo doveva perdere, non poteva nemmeno provarci a vincere, su questo i mafiosi che lo raggiunsero negli spogliatoi erano stati chiari. Ancora una volta, Haft non poteva essere altro che una vittima in un meccanismo più grande di lui.
Round 3. La necessità della memoria
Dal suo match contro la vita, Haft uscì sconfitto, deluso, colmo di rancore, lontano da ogni modello eroico. Con un passato ingombrante, sempre pronto a occupare lo spazio che spettava al presente
La vicenda di Haft è resa ancor più toccante dal ruolo che hanno il passato e la memoria nel tentativo del giovane ebreo di ripartire dopo la tragedia dell’Olocausto. Haft, analfabeta, impiegò cinquant’anni per iniziare a raccontare la sua storia al figlio. Quando Alan Scott Haft pubblicò le memorie del padre, una volta sottoposte al vaglio della critica storica, furono notate – come in tutte le memorie, del resto – delle incongruenze e alcune imprecisioni.
Essendo trascorsi cinquant’anni, è normale che il tempo influisca sulla fedeltà e sulla precisione dei ricordi; ciò che però è evidente nel ricordo di Haft della “sua Storia” è il ruolo che la memoria ha avuto nel corso di quei cinquant’anni per quell’uomo tanto devastato, deluso, rude, chiuso in se stesso. La memoria per Haft ha l’effetto di un palliativo. Un rimedio temporaneo, provvisorio, apparente, che necessita di una continua edificazione: un rimedio inadeguato a risanare quell’infinità di ferite che il passato ha inferto e che ancora sanguinano.
«Mio padre sanguina storia» recita l’efficace titolo della prima parte del più famoso fumetto sull’argomento Olocausto4: Haft come Vladek Spiegelman, come migliaia di altri sopravvissuti, forse non ebbero mai una reale chance di pareggiare i conti con il proprio passato, ciononostante non smisero di raccontare.
C’è una scena particolarmente significativa verso la fine del fumetto, che apre la terza parte. Si svolge nel negozio di frutta che Haft gestisce, diversi anni dopo la sconfitta con Marciano. Haft discute animatamente con un cliente, forse non per la prima volta, e il figlio assiste da un angolino: l’argomento è la sconfitta contro Marciano, con il cliente che sostiene la bontà della carriera del pugile italo-americano e Haft che si ostina ad addebitare la sua sconfitta alle minacce subite. Il figlio da lontano osserva il padre infuriato, non crede alla sua versione ma ne ammira comunque la forza con la quale la sostiene. La sua energia, che come sempre continua a confondersi con quella rabbia che nonostante tutto gli ha permesso negli anni di sopravvivere e rialzarsi, Harry Haft la trova nel ricordo che a un certo punto acquisisce una verità e una sostanzialità che prescinde dalla realtà.
Letta in questo modo, la vicenda di Haft acquisisce un valore più che mai universale, in cui la memoria diventa il montante per uscire dall’angolo, lo shifting per riguadagnare terreno, la guardia per resistere ai colpi che stanno per arrivare, il clinch di tanto in tanto necessario per recuperare fiato e lucidità e rimanere in piedi fino al suono della campana.
Abbiamo parlato di:
Il pugile
Reinhard Kleist
Traduzione di Anna Patrucco Becchi
Bao Publishing, 2015
200 pagine, brossurato, bianco e nero– 16,00€
ISBN: 9788865432600