L’ispettore Esposito è scomparso. Sulla sua scrivania c’é solo una confusione di carte, appunti presi al volo, buttati giù durante una telefonata concitata o in uno sbotto di nervi, la foto della moglie, una dei bambini entrambe scattate durante una vacanza al mare. Hanno facce rilassate, sorrisi smaglianti. Non voglio nemmeno immaginare il loro stato d’animo attuale. Devo indagare sulla sua scomparsa. Decido di iniziare dall’indagare sul suo lavoro. Una cartella attrae la mia attenzitenzione. Sopra c’é una descrizione che è tutta un programma: “Milano Criminale!”. La apro, resto di stucco. Appunti, fotografie, vecchi dischi. Un lavoro che ha del maniacale. Pesco nel mucchio. Leggo le sue parole: “Ogni giorno mi rendo contoconto di aver pescato una carta vincente. La pista che ho fiutato è quella giusta. Su NOCTURNO, una rivista sovversiva molto in voga in alcuni ambienti della mala milanese, ho trovato tutt tutte le indicazioni necessarie per capire quale sfida mi accingo ad affrontare”
Nato agli inizi degli anni Settanta sulle ceneri dello “spaghetti-western” – e in particolare dall’ultima fase di esso, definita “crepuscolare” e caratterizzata da un’esasperazione della violenza -, il poliziesco all’italiana, o “poliziottesco”, come l’aveva battezzato la critica italiana del tempo, rinnovo’ le glorie del suo filone d’origine tramite una massiccia opera di trasferimento e adattamento dell’armamentario western ai contesti urbani attuali.
Nella preistoria del genere, tuttavia, è possibile riconoscere altri influssi, a cominciare dai film di carattere “gangsteristico” che nella seconda metà degli anni Sessanta si svilupparono sulla scia del successo di Svegliati e uccidi e di Banditi a Milano, entrambi diretti da Carlo Lizzani, che ricostruivano le gesta criminali di personaggi come Luciano Lutring (il “solista del mitra”) o della banda Cavallero.
Parallelamente a Lizzani, i cui film riproducono la realtà con un taglio documentaristico, Fernando di Leo fonda un vero e proprio “noir” italiano, con caratteri autonomi e originali rispetto ai modelli francesi e americani, grazie a una trilogia di opere ispirate a racconti di Giorgio Scerbanenco: I ragazzi del massacro, Milano calibro 9 e La mala ordina.
Altri registi tentarono di mettersi per questa strada, con risultati discontinui: Romolo Guerrieri gira un bellissimo giallo “melvilliano”, Un detective (1969) e più tardi, nel 1976, si accosta a una sceneggiatura di Di Leo – sempre tratta da Scerbanenco – con Liberi, armati e pericolosi; Giorgio Stegani stupisce con l’ottimo: Milano il clan dei calabresi (1973), che potrebbe essere tranquillamente attribuito a un di Leo per taglio e forza psicologica dei personaggi, mentre Mario Lanfranchi cerca di ridurre in pellicola le imprese di Renato Vallanzasca in un film mediocre – ma salvato dalle belle musiche di Giampaolo Chiti – La banda Vallanzasca.
Tra i predecessori del poliziesco, meritano un cenno anche gli spy-movies, cioé le risposte italiane a 007, che si produssero su vasta scala tra il 1963 e il 1968. Basti citare il trittico di Sergio Sollima sull’Agente 3S3 (anche Sollima poi sperimento’ il “noir” con due ottimi film: Città violenta e Revolver) o Superseven chiama Cairo, di Umberto Lenzi, il regista che più di ogni altro avrebbe legato il proprio nome all’epoca d’oro del poliziesco italiano.
A volte si incontrano, negli anni Sessanta, rari film isolati che sembrano anticipare la moda dei “poliziotti violenti”; in un thriller del 1971, L’iguana dalla lingua di fuoco, Riccardo Freda aveva affidato a Luigi Pistilli il ruolo di un commissario particolarmente duro e rabbioso; e un personaggio del genere era apparso anche in Quella canaglia dell’ispettore Sterling (1968), di Emilio Miraglia, in cui Henry Silva veniva radiato dalla polizia a causa dei suoi metodi di indagine poco ortodossi.
Ma è significativo che in entrambi i film il protagonista non sia un poliziotto italiano; il nostro cinema non aveva ancora scoperto la possibilità che anche nella questura sotto casa potesse nascondersi un “commissario di ferro”.
Perché si giungesse a questo, furono necessari altri stimoli: da una parte quelli che provenivano dal cinema “d’impegno civile” e in particolare dal film di Elio Petri Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1969), con Gian Maria Volonté che interpretava un tutore dell’ordine insolitamente duro e nevrotico (all’opposto di quel che lo stesso anno faceva Ugo Tognazzi in Il commissario Pepe); e dall’altra quelli del ciclo dell’ispettore Callaghan, che introdusse nel cinema americano la figura dello “sbirro” deciso a battersi col crimine sul piede di parità, fregandosene delle leggi e delle procedure imposte da superiori.
Il primo film riconducibile al filone “poliziottesco” vero e proprio appare in Italia nel 1971: si tratta di La polizia ringrazia, di Stefano Vanzina e racconta di un commissario romano alle prese, tra rapine, sequestri e altri fatti di criminalità spicciola, anche con una banda di feroci giustizieri e con un tentativo di colpo di Stato. Enrico Maria Salerno, il protagonista, delinea un tipo di poliziotto ancora piuttosto riflessivo e tranquillo rispetto ai successivi eroi del genere, che preferiranno sempre l’azione alla meditazione, ma il suo carattere pieno di ombre e di malinconia filtrerà decisamente in quelli dei vari Maurizio Merli, Luc Merenda, Leonard Mann e Franco Gasparri a venire.
Un elemento altrettanto fondamentale di La polizia ringrazia è la colonna sonora, composta da Stelvio Cipriani: nel poliziesco, infatti, la musica non è mai un valore aggiunto alla storia ma parte integrante di essa, il suo cuore pulsante, senza il quale il genere stesso non sarebbe probabilmente potuto sopravvivere al di là di qualche esempio. Cipriani è stato uno dei compositori più efficaci, in questo senso, con decine di indimenticabili score all’attivo (La polizia ha le mani legate, di Luciano Ercoli o La polizia chiede aiuto, di Massimo Dallamano).
Se ancora il film di Vanzina si basa su un intreccio quasi fantapolitico, e manifesta ambizioni di “impegno civile”, La polizia incrimina la legge assolve, di Enzo G. Castellari (1973) punta tutto sul ritmo adrenalinico delle immagini, su inseguimenti e sparatorie mozzafiato, su un carismatico commissario-eroe che ha il volto di Franco Nero e sul commento musicale di Guido e Maurizio De Angelis.
Se bisogna trovare il vero prototipo del genere, questo è il film di Castellari, che oltre ad avere totalizzato incassi record per l’epoca, sancì la nascita del nuovo filone della violenza urbana.
Da questo momento in poi le città italiane: Roma, Milano, Genova, Napoli, Bologna cominciarono a trasformarsi sugli schermi (anche come riflesso di quel che accadeva nella realtà di ogni giorno) in giungle d’asfalto in tutto e per tutto paragonabili alle grandi metropoli del crimine d’Oltreoceano.
Nella prima fase del poliziesco, tra il 1973’74, Enrico Maria Salerno, più duro e incattivito rispetto ai tempi di La polizia ringrazia, è ancora l’unica star del genere (La polizia è al servizio del cittadino?, Un uomo, una città, entrambi di Romolo Guerrieri, e La polizia sta a guardare, di Roberto Infascelli); ma la sua diventa presto una figura desueta, la figura di Enrico Maria Salerno, viene scalzata, grazie alla più giovane età e alle maggiori virtù atletiche, dal già citato Franco Nero, dall’attore francese Luc Merenda – che esordisce nel genere con Milano trema: la polizia vuole giustizia (1973), di Sergio Martino – e da Tomas Milian, prima ferocissimo delinquente nel “noir” di Umberto Lenzi Milano odia la polizia non può sparare (1973), e poi spietato commissario giustiziere in Squadra volante (1974), dello specialista Stelvio Massi, relegando così Salerno in ruoli di “grande vecchio” (La città gioca d’azzardo, di Sergio Martino, dove è un “boss” mafioso, o La polizia interviene: ordine di uccidere, di Giuseppe Rosati, in cui interpreta un ministro degli Interni).
Se ai nomi appena fatti aggiungiamo quello di Maurizio Merli, che in Italia fu il “commissario” per antonomasia (capostipite delle diciassette pellicole da lui interpretate, Roma violenta, del 1975, di Marino Girolami), arriviamo al momento di massimo splendore del poliziesco.
Quantità e qualità delle pellicole dirette da Umberto Lenzi, insieme al carisma degli attori con cui lavora e che spesso “lancia” (Tomas Milian) giustificano appieno il ruolo centrale che gli si riconosce nel genere, come se ne esprimesse l’essenza. Milano rovente (1973), e Milano odia: la polizia non può sparare (1974), occupano ancora quello spazio in cui il “gangsteristico” – imperniato sul criminale più che sul poliziotto come “eroe” – ancora non si è trasformato completamente nel nuovo poliziesco; ma da Roma a mano armata, che propone la coppia Maurizio Merli a Tomas Milian – nel ruolo del coatto e spietato “Gobbo” – è un’escalation: Il trucido e lo sbirro, con Milian che per la prima volta indossa le vesti di “Monnezza”, Napoli violenta, La banda del gobbo, dove Milian ripropone contemporaneamente, sdoppiandosi, il “Gobbo” e “Monnezza”, Il cinico, l’infame, il violento, fino al tardo Da Corleone a Brooklyn (1978).
Buona parte delle pellicole appena citate portano alle musiche la firma di Franco Micalizzi (lo score di Napoli violenta merita una segnalazione particolare, per la perfetta aderenza alle atmosfere del film). Enzo Castellari – figlio di Marino Girolami che lanciò Maurizio Merli e diresse poi Italia a mano armata e Roma, l’altra faccia della violenza (anche questo con musica di Micalizzi) -, porta nel genere una grinta e un ritmo particolari, e, soprattutto, lo contraddistingue l’abilità nell’orchestrare conflitti a fuoco e scazzottate, che nei suoi film acquistano sempre una riconoscibile marcia in più.
Oltre a La polizia incrimina, la legge assolve e al Cittadino si ribella, sicuramente il miglior ricalco in circolazione di Il giustiziere della notte, appartengono a Castellari due film con protagonista Fabio Testi: Il grande racket (1975) e La via della droga (1977).
Il primo, in particolare, grazie all’uso iperrealistico della violenza e a una visione nichilista senza pari, merita di essere ricordato come uno dei polizieschi italiani più coinvolgenti e compiuti del periodo.
Sergio Martino trova invece nel granitico Luc Merenda il proprio interprete ottimale; nei suoi polizieschi è frequente l’aggancio con la realtà politica del tempo, tanto che il regista si guadagno’, a torto o a ragione, la fama di autore “di sinistra”. Dietro la storia di Milano trema: la polizia vuole giustizia, ad esempio, si intravedono chiaramente la figura e l’omicidio del commissario Calabresi, mentre La polizia accusa: il servizio segreto uccide (1975), prende spunto dal fallito “golpe Borghese” e dal piano “Solo” per aggirarsi senza mezzi termini tra servizi segreti deviati, sottrazioni di bobine e campi paramilitari sull’Appennino. Stelvio Massi è stato soprattutto il regista di Maurizio Merli, con il quale giro’ ben sei film: Poliziotto sprint, Poliziotto senza paura, Il commissario di ferro, Un poliziotto scomodo, Sbirro, la tua legge è lenta… la mia no e Poliziotto solitudine e rabbia (1980), ultima interpretazione di Merli e summa in extremis del genere e della sua filosofia.
Ma sempre a Massi fa capo un fulminante trittico incentrato su un giovane commissario, Mark Terzi, in cui l’alleanza del regista con il divo dei fotoromanzi Franco Gasparri risulta vincente: Mark il poliziotto (1975), è il capostipite, seguito da Mark il poliziotto spara per primo e dall’ottimo Mark colpisce ancora, con inedite connessioni terroristiche nell’intreccio.
Naturalmente non è con la filmografia dei “maestri” che si esaurisce la storia del poliziesco.
Molti sono infatti i piccoli capolavori sparsi che non vanno passati sotto silenzio; a cominciare da Con la rabbia agli occhi, di Antonio Margheriti, con Yul Brinner spietato sicario della mala che vola da New York a Napoli a vendicare l’assassinio del fratello (i De Angelis hanno composto per questo “noir” una delle loro partiture più riuscite).
Mario Caiano (già regista dell’ottimo Milano violenta), dal canto suo, gira un seguito del classico di Lenzi Napoli violenta con Napoli spara! , in cui Leonard Mann prendeva il posto di Maurizio Merli (cupezza e malinconia si sposano perfettamente nelle note di Francesco De Masi).
Massimo Dallamano diede invece il via a un piccolo ciclo poliziottesco con Quelli della calibro 38 (1976), interpretato dal duro commissario Marcel Bozzuffi.
Questo film può vantare un sequel, dello stesso anno ma diretto stavolta da Giuseppe Vari: Ritornano quelli della calibro 38, con Antonio Sabato, e una specie di remake ultraviolento girato a Bologna per la regia di Domenico Paolella: La polizia è sconfitta (in cui Marcel Bozzuffi tornava a essere protagonista e se la doveva vedere con il cattivissimo bombarolo Vittorio Mezzogiorno).
Il cinema poliziesco si teneva aggiornato alle “mode criminali” del momento, per cui, quando tra 1974 e ’76 l’Italia assitette a una recrudescenza del fenomeno dei sequestri di persona, i film sull’argomento si moltiplicarono.
Uno dei primi fu L’uomo della strada fa giustizia, di Umberto Lenzi (1974), che anche in Il giustiziere sfida la città (1975), con Tomas Milian, mise il rapimento di un bambino al centro della storia.
Il grande di Leo si cimenta con il tema dirigendo La città sconvolta: caccia spietata ai rapitori (1975), dove Luc Merenda è un povero meccanico che fa strage di chi gli ha sequestrato e ucciso il figlio, mentre Giovanni Fago segue le vicissitudini del rapimento di un minore in Fatevi vivi: la polizia non interverrà (1974), film notevole soprattutto per l’atmosferica colonna sonora composta da Piero Piccioni.
Come era accaduto per il western, anche il poliziesco finì, nella sua fase tarda, per estinguersi nella parodia: dopo essere stato Monnezza e il Gobbo, Tomas Milian incarno’ l’ispettore Nico Giraldi in una lunga serie di pellicole (prima le varie “Squadre”: Antiscippo, Antitruffa, Antifurto… e poi i “Delitti”) che dal 1976 portarono alla prima metà degli anni Ottanta, approdando alla commedia brillante.
Ma si trattava di una tendenza alla smitizzazione e alla burla che agiva fin dalle origini, se si pensa che nel 1973, quando Fernando di Leo realizzava il più cupo e feroce mafia-movie che la storia ricordi, Il boss, Giuseppe Vari metteva in farsa le “cose di cosa nostra” in un film dalle sfumature sexy-ridanciane come La padrina.
Resta da dire del largo influsso che il genere esercito’ anche sulla produzione televisiva dell’epoca: le attuali fiction poliziesche hanno una storia che affonda le proprie radici negli sceneggiati televisivi come Qui squadra mobile (1974) o L’ispettore anticrimine (1980), memorabili soprattutto a partire dalle belle colonne sonore composte, rispettivamente da Francesco De Masi e Stelvio Cipriani.
Ringraziamo La redazione tutta della rivista cinematografica NOCTURNO per la gentile concessione di questo articolo.