Tre ragazzi vivono in una qualche periferia cittadina, indistinta: Fivi, le cui azioni fanno da filo conduttore al racconto, Tam, la ragazza, e Deca. E poi un quarto personaggio anonimo (adulto? coetaneo?) e il fratello di Fivi, incapace di badare a se stesso. Intorno, un ambiente umano fra l’ordinario e il surreale, attraversato dai prodromi dell’ennesima guerra fra poveri. Lo scenario urbano è cupo, immerso in una luce livida, disseminato da edifici spigolosi e incombenti e montagnole di terra (bizzarri decori? scarti di lavorazione?), che limitano lo sguardo e aumentano il senso di sciatteria e incuria diffusa, e parchi popolati da alberi neri che danno un senso di malsano.
Il tratto di Armin Barducci è spesso, i personaggi vengono ritratti con un aspetto caricaturale, che mette in evidenza gli elementi distintivi e nasconde gli altri. Braccia e mani sono abbozzati e stilizzati, sembrano appartenere a delle bambole, dei pupazzi. Sensazione acuita dalle pose dei personaggi, rigide, fissate nel tempo come fotografie, a volte lievemente innaturali. Le tavole sono piene di grigi, che ammantano tutto di una patina dimessa e deprimente, e di neri pieni e soffocanti. Elementi grafici che nel loro insieme trasmettono un mood ben preciso e caratterizzano già di primo impatto la storia e l’atmosfera che la permea.
Palliativi e tentativi
Partiamo dal titolo: Misantromorfina, ovvero la misantropia come palliativo per superare il dolore. A seguire questa terapia è Fivi, che mostra disprezzo senza distinzioni per tutto e tutti: le sue interazioni sono immancabilmente provocazioni e parla, parla, senza ascoltare, quasi intendesse evitare al mondo esterno di toccarlo. È una posa? Una scelta? Qualcosa di subìto?
Appoggiandoci al titolo, è ragionevole leggerla come una resa allo stato delle cose: la terapia del dolore intende infatti accompagnare il malato senza speranza alla morte, evitandogli sofferenze gratuite. Nel caso di Fivi, quelle evitate sono le sofferenze dello spirito, poiché quelle materiali si riveleranno inevitabili.
Se Fivi è interamente ripiegato su se stesso, gli altri personaggi nutrono speranze, cercano l’altro: Deca coltiva un uomo pianta, annaffiandolo con un’apposita “acquetta per piedini“, ed è attratto da Tam; Tam cerca di conquistare Fivi; il fratello di Fivi, nella sua supposta debolezza mentale, dispensa pseudo saggezza, come se sperasse di indurre gli altri a pensare. E il personaggio anonimo sembra ancorarsi a delle regole di convivenza umana e civile, anche quando appaiono semplicemente gratuite. Ma tutte queste speranze sembrano destinate alla frustrazione. Deca e Tam non riescono a comunicare, le massime del fratello di Fivi restano sterili, e così via. È quindi Fivi l’unico malato terminale, l’unico consapevole di esserlo o il primo a essersi arreso?
Volti e ambiguità
Il racconto segue i personaggi mantenendo sempre un netto distacco emotivo, mostrandoci il loro qui e ora: mette sulla pagina azioni, sguardi e parole, non i pensieri né alcunché possa suggerirli. E niente sappiamo del loro passato. Di Fivi ci è offerta una piccola parentesi familiare, ma che non offre particolari indizi. In generale, siamo liberi di costruire inferenze varie, collegando lo scenario del racconto alla cronaca corrente secondo i nostri punti di vista, ma queste, in assenza oggettiva di agganci nel testo, restano elucubrazioni.
Domina l’istante, anche attraverso le emozioni dei personaggi, trasmesse dalla mimica dei volti nelle loro tante e sottili sfumature: volti che sono veramente finestra su un mondo interiore ancora vivo, sebbene, si sospetta, ridotto alle pulsioni primarie dell’istinto.
E proprio in quest’ottica è interessante la resa dell’ambiguità dei personaggi di Fivi e dell’anonimo, che potremmo considerare uno riflesso dell’altro, essendo gli unici che sembrano aver fatto una scelta, aver assunto un atteggiamento definitivo verso la vita. L’incertezza sulla personalità dei due personaggi è resa dalla definizione dei volti. Quello di Fivi è rappresentato come una maschera (attenzione: non è una maschera fisica: non solo perché nessuno degli altri personaggi la riconosce come tale, ma soprattutto perché su di essa compaiono le linee di espressione); l’anonimo come un volto cubista, preso nel movimento.
Per Fivi possiamo quindi domandarci se il suo comportamento sia effettivamente una posa consapevole (la cura del dolore, la ricerca della provocazione), così come possiamo domandarci se lui stesso abbia scelto il proprio soprannome (Fivi deriva dal termine tedesco per “bastardo”, in realtà il ragazzo si chiama Ivan); per l’anonimo, il dubbio è che quel volto sfuggente, che non si offre fermo allo sguardo, sia indicazione di un’ipocrisia di fondo.
Per il resto, il racconto fornisce pochissimi indizi sui personaggi e il senso di distacco verso di essi nasce proprio dal loro essere sospesi nel nulla: un nulla che può certo essere metafora del nulla sociale dell’ambientazione, ma che limita la partecipazione del lettore ai loro destini, e lascia, come dominante, un senso di ineluttabilità degli eventi tale da non suscitare né indignazione né solidarietà.
Alla fine, al di là dell’apprezzamento tecnico per la recitazione dei personaggi sempre in tono, mai sopra le righe, e la definizione degli ambienti, che informa della propria ostilità tutto il racconto; quel che resta è una superficiale empatia, che tuttavia non lascia strascichi, né inquietudini.
Abbiamo parlato di:
Misantromorfina
Armin Barducci
Eris Edizioni, 2014
128 pagine, brossurato, bianco e nero – 15,00 €
ISBN 9788898644063