Nicolò Pellizzon ha 27 anni e abita in provincia di Verona, dove lavora come fumettista e illustratore. Il suo primo libro Lezioni di Anatomia è in uscita da Grrrzetic nei giorni di Lucca Comics 2012.
Quando hai iniziato a disegnare?
Disegno da sempre, non ho mai smesso se non in alcuni periodi in generale poco edificanti della mia vita. I fumetti sono sempre stati vicini a quello che facevo: al corso di pittura dell’accademia dipingevo dei polittici con testo e immagini, che erano di fatto delle grandi vignette e delle piccole storie. La cosa triste era che tutti (me compreso, ahimè ignorante gioventù!) ci tenevano a precisare che quella era arte e non fumetti.
Quella fase è stata molto importante. Per gradi è poi successo che ho capito quanto quel modo di pensare, e quel mondo, fossero agli antipodi di quello che volevo fare ed essere: un gioco di ruolo da baraccone, composto da artisti montati, consiglieri comunali piacioni, imprenditori ignoranti e ricchi stronzi.
Non tutto il mondo dell’arte è così naturalmente, ma sono i risultati di un modo di fare “arte” contraddittorio alla base e insegnato nelle accademie senza nessuna autocritica. Rischierei di venire frainteso cercando di riassumerlo, non sono bravo: verrebbero fuori frasi come quelle che ha detto Cronenberg sui fumetti (anche se per me erano giuste, io capivo cosa voleva dire). E io non sono Cronenberg.
Comunque nel 2008 ho iniziato a disegnare le mie prime storie a fumetti, roba brutta che adesso sento anche poco mia. Era il periodo in cui conobbi Ausonia perché aveva la macchina fotografica rotta e abbiamo passato due giorni divertenti ad aiutarlo a fare le foto per una storia breve (di quelle fotografiche che fa lui). Vedere cosa faceva ha un po’ rimescolato le carte.
Nel 2009 ho disegnato Il Soffio delle Ossa. Volevo fare una storia da pubblicare su internet, in mente avevo Sammy Harkham o Lucy Knisley. Alla fine uscì un fumetto horror che non aveva niente a che fare con loro due, di cui mi sentivo soddisfatto. Partecipai a un concorso per la rivista Bang Art e in mezzo ci misi anche qualche tavola del fumetto. Quindi, girai tutte le sedici pagine alla redazione perché erano incuriositi. Tra loro c’era, oltre a Sebastiano Barcaroli, anche Alessio Trabacchini (che ritorna poi dopo). Il concorso non lo vinsi, ma poco dopo partecipai anche a Comicsweb, con un’altra storia che piacque (a me non piace affatto ora).
Le tue prime storie sono apparse su rivista (Animals, G.I.U.D.A., Delebile, Teiera, Kuš!); ci racconti com’è andata?
Ho iniziato mandando qualche bozza di storia ad ANIMAls, che fosse in linea con quello che pubblicavano. È andata così, senza troppa premeditazione, per tutti e quattro i numeri per i quali ho collaborato.
All’Accademia di Bologna (ho fatto il biennio di linguaggi del fumetto per un anno) come docente di fumetto c’era Gianluca Costantini, le mie cose gli piacquero e mi chiese di collaborare a G.I.U.D.A. (a Lucca Comics esce il quarto volume).
Sebbene studiassi a Bologna non ho mai incontrato le ragazze di Teiera e i componenti del gruppo Delebile quando abitavo là. Mi hanno scritto quasi contemporaneamente l’anno scorso. Ero davvero felice perché mi sono sentito apprezzato da chi apprezzavo. E le pubblicazioni con loro sono sempre fantastiche (Teiera ha da poco chiuso un progetto su Verkami “Pick-a-land” e Delebile uscirà con una nuova pubblicazione a Lucca: Home, diciotto autori, tra cui io, per diciotto storie.
Kuš! è una rivista lettone che pubblica autori lettoni e una selezione di autori internazionali. Fa degli open call periodici a tema: gli mandi una storia che vorresti venisse pubblicata sulla rivista e loro decidono. Ho partecipato, perché partecipo a molte cose se ci riesco. Non posso dire di conoscere i curatori (David Schilter e Sanita Muižniece), ma per le modalità dello scambio che abbiamo avuto posso credere che siano persone fantastiche.
Hai illustrato anche un racconto di Edgardo Franzosini per la rivista Watt Magazine. C’è stato uno scambio tra di voi o avete lavorato in modo totalmente autonomo?
Maurizio Ceccato mi ha contattato per chiedermi se volevo partecipare a WATT due giorni prima che gli scrivessi io, poi silenzio per un bel po’ di tempo, fino a quando mi ha chiesto se volevo illustrare il racconto di qualcun altro o se preferivo fare delle illustrazioni libere, che poi sarebbero state raccontate da uno scrittore. Io ho scelto la prima possibilità, perché sennò facevo un fumetto.
Non c’è stato nessuno scambio con Edgardo, ma ci siamo conosciuti alla mostra al Santeria. Sapevo che aveva scritto dei libri, ma poi ho saputo che uno di questi e il prossimo che uscirà sono per Adelphi… ora non vuol dire che se non fossero stati per Adelphi non sarebbero stati dei libri fighi, ma questo lo ha posizionato nella dimensione della grande, grandissima stima: Adelphi è una delle mie case editrici preferite!
Non hai fatte molte altre illustrazioni…
No, è vero, c’è questa, quella per il MiAmi, quelle su Delebile n.3, poi adesso c’è l’illustrazione per la Light Grey Art Gallery a Minneapolis: fanno dei piccoli concorsi per delle mostre tematiche. Io avevo visto che avevano appena finito un open call per ridisegnare il mazzo di tarocchi Ryder Waite. Anche se lo avessi visto in tempo non so se avrei partecipato: sui tarocchi sono molto integralista, secondo me sono quelli di Marsiglia, e sono insuperabili. Ha senso solo The fantod pack di Edward Gorey, quello sì…
Invece ho pensato di partecipare al contest Girls: fact or fiction?. Non era male come titolo e poi ci sono tutta una serie di figure mitologiche per me: Winona Ryder, Barbara Steele, Kate Bush, etc. e avevo già pensato di fare una di quelle cose che fanno in tanti come le illustrazioni sui film oppure sulla gente famosa… insomma è stato divertente e fa parte di quelle cose per cui la gente che non fa parte dei fumetti o dell’illustrazione si appassiona perché si usano cose che conosce… Una specie di martelletto per rompere meglio l’uovo di pasqua!
Sei un lavoratore solitario?
Raramente accetto di lavorare con gli altri su una storia, è proprio difficile che mi appassioni, devo sentirla davvero mia. L’unica volta che ho collaborato con qualcuno è stato con Paolo Di Orazio per Shinigami. Mi ha contattato perché voleva pubblicare Il soffio delle Ossa e voleva chiedermi di disegnare una storia scritta da lui, di cui mi ha passato sia sceneggiatura che storyboard. Ci ho pensato un po’ e ho detto di sì. Poi naturalmente ho rotto un po’ le scatole su diversi argomenti inerenti (senza successo; bravo, Paolo!), però ho accettato perché mi sembrava molto personale. Non era una storia mia ma molto sua; sentivo lui, come dire, e attraverso di lui trovavo anche un po’ di quello che interessava a me. Poi era anche una storia completamente senza freni inibitori, e secondo me è una cosa importante non averne.
I tuoi primi passi nel mondo professionale sono stati come animatore. Pensi che questo tipo di esperienza abbia dato qualcosa al tuo lavoro come fumettista?
Ho fatto anche il grafico e il fotografo. Preciso che queste cose le faccio da autodidatta e non mi riescono bene come fare i fumetti, ma ho l’impressione che tutte mi abbiano dato molta più resistenza e mi abbiano costretto a focalizzarmi sull’obiettivo finale.
Quando facevo il grafico ho avuto clienti e collaboratori poco seri che non si fidavano delle mie competenze o del mio gusto estetico. Era normale realizzare anche venti proposte con minime variazioni per il logo di una pasticceria, perché l’agenzia non si fidava di me e non voleva perdere il cliente. È un esempio, ma è una situazione piuttosto tipica, purtroppo.
Ora, però, non mi spaventa rifare la stessa pagina tre o quattro volte ed è stato più facile decidere di ridisegnare interi capitoli di Lezioni di Anatomia, perché il libro aveva preso una strada diversa da quella che pensavo all’inizio.
Con l’animazione a passo uno è successa una cosa analoga. Dopo che sei stato su cinque minuti di video per sei mesi, quasi senza uscire e lavorandoci giorno e notte, è come essere stati iniziati. Ora so che se ce ne sarà la necessità potrò farlo di nuovo.
Silvana Ghersetti mi ha detto che i miei disegni sembrano vivi, nel senso che sembra si muovano. È una cosa molto bella, indipendente dalla mia coscienza, e che credo abbia a che fare con la realtà e non con l’animazione.
Ti sei fatto conoscere al “grande pubblico” per aver disegnato la locandina del MiAmi 2012. Nello stesso periodo era stata organizzata una bellissima mostra al Santeria di Milano, dove esponevi tavole originali del tuo libro in preparazione. Ci racconti, anche in questo caso, come è nata la cosa?
Milano secondo me è un mondo. Ci andavo spesso anni fa. Avevo degli amici, quando avevo 18 anni più o meno. Ero giovane, heavy metal e una persona diversa, però Milano si ricorda sempre con un po’ di nostalgia.
Comunque, riguardo al MiAmi, Stefano Bottura, uno degli organizzatori, mi contattò su Facebook. Era finito sul mio profilo per vie che non siamo riusciti a spiegarci, perché io ai tempi non conoscevo nemmeno Rockit, per dire. Comunque le mie cose gli sono piaciute subito e mi ha chiesto di disegnare la locandina. Ha organizzato anche la mostra, che poi abbiamo allestito assieme. Mi hanno aiutato anche la mia ragazza e mio fratello e la sua ragazza.
C’erano molti disegni inediti e dava un po’ l’idea del work in progress. Era voluto? Questa modalità mi è sembrato potesse coinvolgere più persone, che magari non leggono i fumetti.
Sì, dare l’idea del work in progress era voluto, anche se poi la cosa era un po’ vera e un po’ no.
Per me è importante che tutti possano vedere e capire, sennò non ha senso. Cioè il fumetto ha le potenzialità per arrivare a tutti, ma proprio per le sue modalità “costruttive”, di produzione, porta all’isolamento. E non solo fisico, ma anche linguistico, perché si legge da soli, quindi viene facile cadere nel “questa cosa la capirà solo chi fa fumetti”.
Io ci sto attento, mi baso molto su amicizie che non hanno niente a che fare con i fumetti. Alcuni dei miei amici d’infanzia credono che per fare un libro di duecento pagine ci vogliano un paio di mesi. È proprio fuori dalla realtà! Se non glielo spiego, anche il mio stile di vita risulta incomprensibile a certe persone.
Sul blog della rivista lettone Kuš! hai raccontato qual è il tuo processo di lavoro. Lo racconti anche a noi?
Nella parte pratica, per me si tratta essenzialmente di liberarmi il più in fretta possibile dei problemi noiosi, come la griglia (non mi piace fare le righe con la squadra e disegnarci dentro) e i balloon.
Più creativamente, invece, si tratta di non limitarmi a disegnare la storia, lasciandola in secondo piano, ma facendola uscire attraverso i disegni.
Inizio disegnando o scrivendo a caso, il più a caso possibile. Anche per Lezioni di Anatomia è stato così, anche se sapevo che sarebbe potuto diventare una storia lunga. Poi ragiono su quello che ho fatto, inizio a focalizzarmi su qualche documentazione o argomento preciso, ma con l’unica costrizione del cercare dentro a qualcosa di nuovo qualcosa che sento mio. Poi è dal quel “gancio” che parte tutto. La storia esce in maniera nebulosa, come i personaggi e i dialoghi. Tutto un po’ alla volta come se fosse lì che aspetta di essere sistemato e scritto. Anche nel disegno seguo questo procedimento.
Sembra che poi venga tutto perfetto, spiegato così, in realtà è un percorso lastricato di correzioni, pagine piene di toppe e vignette rifatte, di scene e dialoghi riscritti.
Prima di iniziare a tutti gli effetti la produzione delle tavole, faccio dei piccoli storyboard. Seguo sempre una griglia fissa per liberarmi presto del problema, come dicevo prima. I multipli di quattro e a volte quelli di tre in orizzontale mi sono sempre sembrati un buon compromesso per sentirmi libero di riempire grandi spazi. Non uso quasi mai vignette di dimensioni variabili, per scandire il tempo di lettura come spiega McCloud, perché non credo ci sia qualcuno, esclusi gli autori di fumetti, che riesca a leggere questa sfumatura percettiva.
Questo metodo è stato molto influenzato da quello di Andrea Bruno. Ho avuto modo di seguire un workshop con lui all’Accademia di Bologna, e l’ho trovato molto vicino a quello di cui avevo bisogno, qualcosa che mettesse a tappeto le inibizioni.
Uso vari brush pens, ma preferisco i pennelli normali con le setole giuste. Sembra la stessa cosa e invece sono quasi all’opposto: nelle brush pens il colore viene dalla base, mentre nel pennello si deposita sulla punta. Schiacciare tutta la fiamma sul foglio non serve a fare un segno più grosso se non c’è colore alla base e questo influenza molto il gesto.
Per il resto uso le penne Sakura, e un mix di tempera e legante acrilico per le “correzioni” (che spesso sono campiture di bianco sul nero, più delle aggiunte pensate dopo).
Le matite, come dicevo sul blog di Kuš!, le uso il meno possibile, perché ho l’impressione che rendano i disegni meno spontanei.
Disegno in qualsiasi momento, anche perché non ho un lavoro fisso al momento (ma dovrò inventarmi qualcosa).
Una delle cose che mi spaventano (sì, mi spaventa proprio) è quando siedo al tavolo alle 8 del mattino e mi alzo dodici ore dopo. Tutti pensano che sia molto bello essere così appassionati – ed è vero – però guardo il mio gatto e mi chiedo se non sia lui quello che si è divertito di più alla fine della giornata.
Come è nata la collaborazione con Grrrzetic? Hai proposto tu il libro su cui stavi già lavorando o sono stati loro a farsi avanti?
Lezioni di Anatomia è iniziato un anno e mezzo fa, quando dopo le prime venti circa tavole ho impacchettato il tutto, compreso il soggetto, in un pdf. Da quel periodo in poi ho girato il file a un po’ di persone con cui ho collaborato o collaboravo.
Alessio Trabacchini era già il mio personal editor (o aiutante magico se, come dice lui, vogliamo usare le figure del mito) per altre cose.
L’ho presentato personalmente ad alcuni editori, ma senza grande successo, anche Alessio lo portò con sé ad Angoulême lo scorso anno, ma ogni volta l’interesse dimostrato non era abbastanza alto per arrivare alla pubblicazione.
Nel frattempo continuavo a lavorarci a ritmi irregolari.
La scorsa primavera ho iniziato ad anticipare il libro attraverso il blog senza avere idea del modo in cui l’avrei pubblicato. Pensavo che se non avessi trovato i soldi per la stampa avrei usato il crowdfunding: Kickstarter e le ragazze di Teiera mi consigliarono Verkami. Il problema è che non avevo abbastanza seguito.
Nel frattempo finii anche i soldi per vivere, ma ero comunque ottimista. Sono un tipo sicuro di me, se non si era ancora capito…
A Grrržetic il libro è arrivato tramite Alessio allo scorso Comicon di Napoli. Silvana Ghersetti e Andrea Benei, si sono subito dimostrati interessati.
Io li conoscevo per Trama di Ratigher, che è diventato subito uno dei miei fumetti preferiti. Ora che il libro è in stampa so che non poteva andare meglio di così.
Ci puoi anticipare qualcosa sulla storia?
La storia è ambientata tra Torino e la Pianura Padana alla fine dell’Ottocento. I protagonisti sono due cugini che si incontrano di nuovo dopo molto tempo. Lorenzo studia medicina, mentre Lorena è pittrice. Su di loro incombono le ombre del passato, il colera che li ha resi entrambi orfani e ha distrutto le loro famiglie, e le convenzioni sociali dell’Ottocento italiano.
I disegni che hai mostrato fanno pensare a un’accuratissima documentazione. Quali sono state le tue fonti e i tuoi riferimenti visivi?
Nel libro ci sono diversi tributi mascherati all’arte classica e a quella rinascimentale. Caravaggio, Artemisia Gentileschi e Dürer tra gli altri. Per un intero capitolo ho deciso di restare fedele a vari ritratti del Cinquecento e dell’Ottocento.
Ci sono i libri di alchimia, tra cui l’Aurora Consurgens, e i tarocchi, sia quelli di Marsiglia che i Ryder-Waite. In realtà però ho cambiato e invertito molte delle simbologie per altri scopi.
Poi ci sono gli atlanti di anatomia ottocenteschi, che ho preferito quasi sempre alle fotografie (che mi mettono di cattivo umore), anche se alla fine ho usato molto meno di quanto pensassi.
Credo che stilisticamente all’inizio del libro mi sia sentito influenzato dal Guro Hentai, ma spogliato delle sue componenti misogine e nosense.
Comunque ognuno di questi elementi è mescolato ad altri e ad altre cose ancora che non hanno alcun riferimento visivo.
Tutte le tue storie giocano con il genere horror, ma molto più sottilmente con l’inquietante e il perturbante. Perché ti interessa questo tipo di storia?
Mi interessa ciò che scuote.
In questa definizione di scossa io ci trovo anche la commedia (quella bella però) e il fantasy (il fantastico, la fantascienza… non ci sono necessariamente gli elfi…). Entrambi danno scosse che salgono più lentamente, ma quando arrivano sono lo stesso belle forti. Penso a quando Paul diventa lo Kwisatz Haderach in Dune; oppure a quando prende definitivamente forma quello che non va nel partner di Jenny Mellor in An Education.
Sia questi momenti che quelli del genere horror (e del fantastico e del perturbante in generale) toccano delle corde e suonano delle note dentro di noi. Non è come sentire la storia di un personaggio in cui ci riconosciamo, è qualcosa di ancora più forte.
Però vedo la spinta perturbante come qualcosa che oltre al guardare dentro, va anche all’indietro, nel passato: al formarsi dell’archetipo piuttosto che alla sua cristallizzazione.
Il ritrovamento del cadavere di Laura Palmer (un esempio che mi è molto caro, ma la cosa è valida per qualsiasi ritrovamento di cadavere) porta inevitabilmente a chiedersi quali siano state le cause della morte, ma oltre a cercare l’assassino guardiamo anche dentro di noi. Lo stesso avviene con Carmilla di J.S.LeFanu e Dracula (per fare altri di esempi). Siamo inevitabilmente costretti a chiederci quale sia il passato di questi doppi/spettro/vampiro.
Da cosa trai ispirazione?
Riguardo l’ispirazione, recentemente mi è capitato solo per la storia su Kuš! di dire, e di capire, che mi ero ispirato a qualcosa di particolare: uno dei racconti di Finzioni di Borges.
“Trarre ispirazione” è un modo molto chiaro di dire una cosa che in pratica non fa mai nessuno nel modo in cui lo si pensa.
Ci sono film e libri che ho letto da adolescente che mi stanno influenzando ancora oggi, altri invece che vorrei lo facessero di più. In verità il processo creativo nasconde una tale infinità di meccanismi di miscelazione di schemi, simboli e sostanze, che risulta difficile capire davvero cosa di ciò che fruisco ora mi influenzi.
Ti ritieni un “fumettista di genere”?
Non so di preciso se mi ritengo un “fumettista di genere”: il “genere horror” soprattutto nel cinema ha una struttura narrativa molto rigida, ma io mi impegno sempre per cercare di essere libero mantenendo facilità di lettura. In ogni caso, spesso mi trovo a dire tra me e me “non fa abbastanza paura” quando scrivo. Ma è più una convenzione mia per dire che non è abbastanza forte.
Si potrebbe dire che il fantastico e le storie di paura sono un linguaggio per raccontare in maniera condivisibile la realtà soggettiva. Quindi se non vengono utilizzate per parlare senza senso di vampiri (che è come parlare di Batman, per tornare a Cronenberg), sono storie reali.
Chiuderei la mia risposta citando una frase di Austin Klenon, l’autore del libro Steal like an Artist:
“Your job is to collect ideas. The best way to collect ideas is to read. Read, read, read, read, read. Read the newspaper. Read the weather. Read the signs on the road. Read the faces of strangers. The more you read, the more you can choose to be influenced by.
(Il tuo lavoro consiste nel raccogliere idee e il modo migliore per raccoglierle è leggere. Leggi, leggi, leggi, leggi, leggi! Leggi il giornale, leggi il meteo, leggi i segnali stradali, leggi le facce degli sconosciuti. Più leggerai e più potrai scegliere da cosa essere influenzato.)
Sei stato bravissimo a muoverti su internet e su i social network, creando una grande aspettativa sul tuo nuovo libro attraverso un blog e un tumblr, rilanciati su facebook e twitter: anteprime, video, foto del tuo spazio di lavoro. Quanto di tutto questo fa parte di una strategia consapevole e quanto, invece, è venuto come è venuto?
Io non leggo tanti fumetti, come dovrei; guardo più films, leggo più libri. Mi focalizzo più su una modalità che io chiamo all’americana, perché mi ricorda Capitan America sul cartone della pizza…
Fare un video su un fumetto ambientato nell’Ottocento, che tra le altre cose parla di esoterismo, vuol dire mescolare immaginari precisi con media altrettanto precisi.
Cioè, è come dire: una volta stabilito che il fumetto è arte, ma è anche narrazione, tutte le forme di diffusione che assume nei media sono valide.
Una volta capito questo, e l’ho capito prima di iniziare il libro, il libro è diventato un progetto più articolato, che comprendeva i video fin dall’inizio.
Ecco, io trovo questa cosa abbastanza singolare, perché non sempre c’è la consapevolezza di come si lavora o l’interesse a volerlo mostrare all’esterno…
Io lo voglio mostrare perché così si capisce meglio anche il fumetto in sé. È come dire: «Vedete? questo non è il fumetto che pensavate si facesse in due settimane, andando a caso. Questa è una “cosa” che non è meno laboriosa di un film.»
Mi sembra che un tuo grande pregio sia quello di unire una certa ricercatezza visiva con il racconto di genere; di tenere insieme un’estrema leggibilità con l’indeterminatezza dei finali aperti; il popolare e riferimenti pittorici “alti”. Sei consapevole di questa tensione?
Una delle cose (tra le tante) che mi ha sempre infastidito dell’arte (e ne ho parlato anche sopra) è che non parla a tutti. Parla a quelli che hanno studiato arte, alle categorie che ho elencato e a quelli che la seguono. È diventata ancora più elitaria delle avanguardie del Novecento.
Ma tra cinquant’anni sarà scomparsa dalla conoscenza e dalla leggibilità comune, a differenza di Cézanne e Picasso (che oggi sono compresi molto di più rispetto al loro tempo), perché si è adattata perfettamente ai beni di consumo. Non c’è niente che travalichi il suo (squallido, a volte) piano materiale, tentando di essere invece esperienza, idea o pura filosofia. Tutto si perde inesorabilmente.
Le “discipline” artistiche che hanno subito meno questo tipo di fascino della perdizione, per modalità produttive, ma anche più semplicemente per caratteristiche strutturali, sono la letteratura e il cinema, che hanno ancora vita perché dentro di loro c’è la narrazione. In qualsiasi forma possibile, a volte rarefatta, ma c’è. Non tutte le emozioni, le situazioni o le cose che compongono la vita si possono dire a parole, ma si possono far intuire o sentire. Come gli abbracci oppure i baci.
Anche il fumetto, come forma d’arte la cui elevatezza spirituale deve essere continuamente confermata, ha questa potenzialità: la forza delle immagini e l’immaginazione indotta dalle parole.
Nell’arte contemporanea, anche se si ha questa disponibilità non c’è più nessuna immedesimazione. Non mi sono mai sentito coinvolgere da Andy Warhol o Cattelan, sebbene capisco cosa vogliano dire, ma mi sono sentito miliardi di volte come un personaggio di Daniel Clowes, o come David B., o come Polina.
Il lettore deve essere accompagnato, e poi lasciato quando sta per perdersi, per non farlo più tornare indietro. Questo lo cerco sia nelle storie che nei disegni.
Si può rassicurare con le forme figurative, confondere con quelle simboliche, spaventare quando le immagini perdono definizione. E la storia porterà fino a un certo punto, ma non potrà mai darti le risposte che cercavi, perché attraverso lo specchio devi trovare le tue, di risposte.
Riferimenti:
in-the-fauces.tumblr.com