Luigi Siviero, “Indagare l’incubo”: frammenti di Dylan Dog

Luigi Siviero, “Indagare l’incubo”: frammenti di Dylan Dog

Luigi Siviero percorre il corpus sclaviano di Dylan Dog e colleziona spunti e tracce per un'analisi dell'approccio di Tiziano Sclavi al personaggio. Ricco di suggestioni e godibile, il lavoro resta caratterizzato da una certa frammentarietà.

La caratteristica che più evidente emerge dalla lettura del puntuale saggio di Luigi Siviero sul Dylan Dog di Tiziano Sclavi è la frammentarietà. L’autore sceglie infatti una modalità espositiva dove osservazioni e idee analitiche fanno da cornice a ricche sequenze di esempi tratti direttamente dalle pagine. Il risultato è una sorta di diario di viaggio di esplorazione attraverso le opere: introduzioni e chiusure dei capitoli sono il risultato delle scoperte e degli incontri nelle pagine e offrono un contesto comune agli altrimenti dispersivi frammenti proposti. Quello che seguiamo, quindi, sembra essere il processo stesso di ricerca, scavo ed elaborazione e la frammentarietà è allora il semplice riflesso del lavoro quotidiano e metodico di lettura e catalogazione tematica. Un’altra immagine che mi veniva alla mente nel corso della lettura è quella dell’esplorazione delle sale di un museo non ancora aperto al pubblico, dove è in corso la sistemazione delle opere in percorsi coerenti e significativi, con abbondanza di pezzi e collocazioni ancora fluide: lo stato delle cose prima della cristallizzazione delle scelte definitive.

Come scrive nella prefazione, Siviero è partito dall’idea di un confronto fra le figure di Dylan Dog e di Sherlock Holmes, ma, attraversando la produzione di Sclavi, ha raccolto spunti e materiale per altre piste e suggestioni, tecniche e culturali. Troppo forte la tentazione, l’autore dettaglia un vero e proprio stradario, marca i sentieri e per ciascuno di essi propone spunti di approfondimento. Il primo obiettivo, infatti, sembra offrire una lista il più ampia possibile delle linee di analisi del corpus sclaviano: in questa visione, l’abbondanza di esempi proposti serve a dimostrare la validità della linea esaminata.

Nel suo complesso, tuttavia, la ricchezza di spunti non va a costituire una trama omogenea e al termine di ogni capitolo spesso si ha l’impressione di un’interruzione brusca del ragionamento e delle argomentazioni. Forse eleggere uno dei tanti temi a filo principale di riferimento avrebbe consentito un maggior approfondimento, magari a scapito dell’ampiezza di sguardo? Penso al riutilizzo di idee e soggetti, più volte sottolineato: Siviero gli dedica anche un capitolo (Capitolo undici: Le Citazioni), ma l’impressione è che avrebbe potuto costituire il punto di vista principale, alla luce del quale esplorare gli altri. Dalle rinarrazioni per affinità (l’horror in generale) a quelle per contrasto (Sherlock Holmes, appunto), il Dylan Dog di Sclavi sembra una grande opera di metabolizzazione di luoghi narrativi. Siviero giustamente ne segnala l’affinità con una certa idea di postmodernismo, ma poi lascia sostanzialmente campo agli esempi1, senza approfondire. In un certo senso, potremmo sostenere che Siviero propone una catalogazione con glosse dei temi sclaviani, un lavoro che potrebbe fornire un ottimo punto di partenza per analisi magari più limitate ma più approfondite.

Di grande godibilità, il lavoro di Siviero, chiuso da un’intervista a Tiziano Sclavi, gratifica l’appassionato, riportandolo dentro le pagine, facendo risuonare dialoghi, proponendo numerose tavole e vignette e rievocando atmosfere tramite citazioni dirette.
Mette voglia di riaprire gli albi di Dylan Dog e magari anche qualcuno dei modelli sclaviani (personalmente, ho riletto dopo anni e anni Il Giudice e il suo Boia di Durenmatt, trovando tutte le corrispondenze indicate). Siviero isola e propone tutte le maggiori carateristiche del Dylan Dog di Sclavi, sia dal punto di vista dell’architettura narrativa (autonomia degli episodi, rifiuto della continuity, profilo del protagonista, eccetera) sia dal punto di vista dei richiami extra testuali e infratestuali: se non un classico “companion”, certo una pratica guida annotata di riferimento.

Abbiamo parlato di:
Dylan Dog e Sherlock Holmes: indagare l’incubo
Luigi Siviero
Edizioni NPE, 2012
240 pagine, brossurato, bianco e nero – 14,00 €
ISBN: 9788897141129


  1. Abbastanza stranamente, vista la completezza in tal senso del saggio, presentando un estratto da L’Isola Misteriosa, all’inizio del nono capitolo, manca il riferimento al racconto Fiori per Algernon di Daniel Keys, premio Hugo nel 1960. 

4 Commenti

1 Commento

  1. Luigi Siviero

    27 Dicembre 2012 a 21:09

    Grazie per esservi occupati del mio libro. Mi permetto di scrivere due commenti su questa frase:

    “Forse eleggere uno dei tanti temi a filo principale di
    riferimento avrebbe consentito un maggior approfondimento, magari a
    scapito dell’ampiezza di sguardo? Penso al riutilizzo di idee e soggetti, più volte sottolineato: Siviero gli dedica anche un capitolo (Capitolo undici: Le Citazioni), ma l’impressione è che avrebbe potuto costituire il punto di vista principale, alla luce del quale esplorare gli altri.”

    1. E’ vero che il libro è composto da dieci capitoli (escludo il dodicesimo con le conclusioni e l’undicesimo dedicato alle citazioni) che possono essere presi singolarmente e letti senza conoscere gli altri. Tuttavia c’è un ragionamento che va oltre i singoli capitoli: inizia nel capitolo 4 (confronto fra Dylan Dog e Sherlock Holmes) e si dipana nei capitoli 5 (Durrenmatt, la scienza e la casualità), 6 (il fallimento), 9 (la mancanza di confini fra sogno e realtà) e 10 (i confini del Mondo come metafora dei limiti della conoscenza). Inoltre nei capitoli 7 e 8 (sull’hard boiled e i gialli classici) viene completato il discorso sulle influenze della letteratura gialla iniziato nei capitoli 4 e 5, e nel capitolo 9 c’è un richiamo al capitolo 3 (la mancanza di confini fra realtà, sogno e finzione nella quadrilogia di Xabaras).
    Vorrei aggiungere che nel dodicesimo capitolo ho cercato di dare coesione e unità a tutti i capitoli precedenti (tranne il primo, ovviamente, perché è introduttivo).

    2. Ho inserito il discorso sulle citazioni nell’undicesimo e penultimo capitolo perché mi sembrava più semplice da capire dopo avere letto tutti i casi di citazioni esaminate nei capitoli precedenti.
    E’ anche il modo in cui ho proceduto quando ho scritto il libro. Nel capitolo 11 ho dato tre spiegazioni alle citazioni di Sclavi: una è presa di peso da un saggio di Daniele Barbieri e le altre due sono state inventate da me. Ho inventato le due spiegazioni solo dopo che avevo scritto il resto del libro.

    • Simone Rastelli

      28 Dicembre 2012 a 09:52

      Caro Siviero,

      la ringrazio innazitutto per l’occasione di confronto.
      In generale, l’impressione di frammentarietà nasce dalla presentazione del materiale di analisi: il saggio propone tantissimi estratti dalle storie, dedicando spesso a ciascuno un proprio paragrafo. Ora, in molti casi potrei rimontare i paragrafi in ordine diverso, senza modificare la struttura del saggio. Questo mi fa dire che non sono anelli di un ragionamento: il saggio, in questo senso, non si sviluppa, ma si accresce cumulando esempi. Più che di un ragionamento, che si estende attraverso i vari capitoli, siamo di fronte a un’accumulazione di casi: si presenta cioè l’implementazione della visione di Sclavi nei racconti di Dylan Dog.
      Inoltre, i capp 7 (Il genere hard boiled) e 8 (Il giallo classico) appaiono veri e propri inserti, note di approfondimento e contestualizzazione (molto interessanti),
      elevate tipograficamente a testo. Stessa considerazione vale per i paragrafi 9.4 (su Philip K. Dick) e 9.8 (sul film Blow up di Antonioni).

      Sulla parte 2: non dubito che sia andata così, anzi, quanto scrive mi conferma nelle mie riflessioni: il suo lavoro è una sorta di diario di ricerca. In questo senso, proprio quegli ultimi capitoli potevano costituire il punto di partenza.

      Detto questo, ribadisco che la struttura adottata rende il volume assai gustoso e decisamente accattivamente per fan e lettori curiosi.

      • Luigi Siviero

        28 Dicembre 2012 a 11:58

        Il capitolo 7 (sull’hard boiled) fa il paio con i capitoli 5 e 6 (su Durrenmatt).
        Posto
        che Tiziano Sclavi voleva allontanarsi dal giallo tradizionale quando
        ha costruito Dylan Dog come l’opposto di Sherlock Holmes, mi sono
        chiesto se poteva essersi rifatto alle critiche al giallo classico mosse
        da Durrenmatt e Chandler, oltre alla critica al metodo deduttivo fatta
        nel saggio Il segno dei tre a cura di Sebeok e Eco (par. 4.3) e al
        racconto La morte e la bussola di Borges (par. 6.6).
        Il segno dei tre
        e Durrenmatt mi sembravano le fonti più convincenti. La critica di
        Chandler è stata presentata invece in forma dubitativa. Infine ho
        scartato La morte e la bussola.
        Nella prima parte del capitolo 7 ho
        raccolto i riferimenti all’hard boiled in Dylan Dog. Questa raccolta di
        citazioni e richiami stilistici mi serviva per verificare che Sclavi
        fosse effettivamente interessato all’hard boiled. Una volta fatta la
        verifica sono passato alla seconda parte del capitolo: ho esaminato come
        Chandler ha criticato il giallo tradizionale e mi sono chiesto se
        questa critica era compatibile con l’allontanamento da Sherlock Holmes
        fatto da Sclavi.

        Mi sembra che nei vari capitoli ci sia un discorso che procede in modo ordinato:

        l’allontanamento dal giallo tradizionale (attraverso la costruzione di
        Dylan Dog come opposto di Sherlock Holmes nella prima parte del capitolo
        4);
        — i motivi dell’allontanamento, cioè
        — la critica al metodo deduttivo di Sherlock Holmes nel saggio Il segno dei tre;
        — la critica estetica di Chandler;
        — La morte e la bussola;
        — la critica di Durrenmatt che conduce a due temi importanti in Dylan Dog:
        — la casualità;
        — il fallimento;
        —-
        L’impossibilità di poter descrivere sempre e fino in fondo la realtà in
        modo certo e oggettivo (Durrenmatt) porta al capitolo 9.

        Avevo anticipato questa impostazione nella prefazione:
        “Uno degli
        aspetti più affascinanti del Dylan Dog di Tiziano Sclavi è il legame fra
        l’indagatore dell’incubo e Sherlock Holmes. (…) Nei fumetti di Dylan
        Dog sono presenti
        svariati indizi dai quali ho ricavato che l’indagatore dell’incubo è l’antitesi di Sherlock Holmes.
        Il
        desiderio di passare al setaccio tutti questi indizi per portare alla
        luce il rapporto fra Dylan Dog e Sherlock Holmes è la molla che mi ha
        spinto a scrivere il libro. L’aspetto più stimolante che ho notato
        procedendo nell’analisi – e la cui portata non avevo previsto appieno
        quando ho iniziato a pensare al libro – è che il confronto fra Sherlock
        Holmes e Dylan Dog mi forniva una chiave di lettura per dare una
        spiegazione esaustiva e un’inquadratura organica a temi cardine della
        serie come il caso, il fallimento e la mancanza di confini fra realtà,
        sogno e finzione.
        Sherlock Holmes è il capostipite del detective
        deduttivo: è figlio del positivismo filosofico in voga nella seconda
        metà dell’Ottocento. Dylan Dog è l’opposto di Sherlock Holmes, quindi è
        figlio della crisi del positivismo. Per questo motivo è imperfetto e
        fallisce. Per questo motivo le sue indagini possono essere condizionate
        dalla casualità. Per questo motivo non agisce all’interno di una realtà
        comprensibile e spiegabile oggettivamente ma in un Mondo nel quale il
        confine fra realtà, sogno e finzione è caduto.”

        Per quanto riguarda il capitolo 9, quando ho chiuso il libro ero
        consapevole che si poteva andare più in profondità nell’analisi di un
        argomento come il rapporto fra sogno, realtà e finzione in Dylan Dog.
        Da
        un lato ero contento di quello che avevo scritto perché mi sembrava di
        avere creato un quadro generale abbastanza esaustivo. Ho parlato dei due
        grandi filoni nei quali può essere diviso il capitolo: il rapporto fra
        parola e realtà e la mancanza di confini fra realtà, sogno e finzione.
        Dall’altro
        lato mi dispiaceva di non avere usato dei saggi filosofici come basi
        per trattare l’argomento. I paragrafi su Philip K. Dick e Blow-Up
        servono a indicare delle opere alle quali Sclavi potrebbe essersi
        rifatto per trattare il tema del rapporto fra parola e realtà, però
        potrebbe esserci dell’altro.
        Forse il capitolo 9 avrebbe dato una
        minore impressione di frammentarietà se avessi distribuito l’ordine dei
        paragrafi in maniera più razionale, per esempio mettendo i due paragrafi
        su Dick e Blow-Up uno di fianco all’altro e introducendoli
        collettivamente come due probabili fonti di Sclavi.

        Non mi sembra che nel resto del libro ci siano problemi di questo
        tipo. Per esempio anche il capitolo 2 è formato da paragrafi
        autoconclusivi. In questo caso però non è vero che se ne può invertire
        l’ordine. Nel capitolo 2 ho dato importanza a come il tema dell’orrore è
        stato trattato da Sclavi nel corso del tempo. Il fattore tempo è
        importante e invertendo l’ordine dei paragrafi salterebbe.

        In altri casi ci sono paragrafi che non possono che essere
        autoconclusivi. Per esempio i paragrafi 6.6 (su La morte e la bussola) e
        6.8 (sul fallimento dell’eroe nei fumetti bonelliani che hanno
        preceduto Dylan Dog).

      • simonerastelli

        30 Dicembre 2012 a 09:05

        Caro Siviero,

        la sua spiegazione è assolutamente chiara e dimostra la solidità del progetto. Quello che tengo fermo è che il modo in cui ha scelto di metterlo sulla pagina, dando cioè ugual rilevanza alla fonte (ovvero alle sequenze di episodi di supporto al ragionamento) e alle sue argomentazioni produce l’effetto di framentarietà. Per questo ho usato l’immagine della mostra in allestimento: anche lì nessun dubbio sulla chiarezza del progetto sui cui la mostra è basata, ma un conto è l’esposizione delle argomentazioni e riflessioni, un conto è l’esposizione dei reperti. Il risultato, in genere, è l’associazione di un tassello di ragionamento a ogni reperto. D’altra parte, è anche chiaro che i visitatori della mostra seguono la sequenza dei reperti e, se ben organizzata la gradiscono e ne ricavano anche molti spunti. Che è ciò che vale anche per il suo lavoro.

        P.S.
        La ringrazio nuovamente per la disponibilità.

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