È stato un viaggio intenso e ricco di stimoli, meraviglia e stupore, quello nelle opere, nei mondi e nell’arte di Anke Feuchtenberger. Un viaggio fatto di ricordi e metafore, di sonno e veglia, di natura e umanità, di materia organica e inorganica che si incontrano sulla carta per creare qualcosa di nuovo. La conclusione di questo percorso non poteva che essere un incontro, prima via Zoom e poi di persona presso la Kunstanasammlung di Jena all’inaugurazione della mostra Der 7. Brunnen (La settimana) dell’artista Kerstin Grimm, amica e collega di Feuchtenberger: un incontro che aggiunge al valore dell’artista quello della persona, gentile, affabile, aperta e disponibile a donare il proprio tempo e a riflettere sul proprio percorso artistico e personale. Ecco l’ultima porta da aprire del palazzo di Anke Feuchtenberger, quella della vita e del pensiero dell’artista. Buona visita.
Partiamo dai suoi primi anni e dalla sua carriera artistica. Lei è nata e cresciuta nella DDR (Deutsche Demokratische Republik, Repubblica Democratica Tedesca) e lì ha mosso i primi passi come artista. Quali sono i suoi ricordi di quel periodo e dell’ambiente culturale, in particolare del collettivo PGH Glühende Zukunft? All’epoca lei disegnava molte cose diverse, dai manifesti teatrali e locandine alle illustrazioni per eventi politici e culturali, e qui i primi elementi fumettistici erano già riconoscibili.
La cosa speciale di questo periodo per me è stata probabilmente la molteplicità di coincidenze che si sono verificate. Mi sono laureata all’Accademia di Belle Arti nel 1988 e ho avuto un figlio nello stesso anno. Nonostante il mio coinvolgimento nel movimento clandestino, attivo già prima della caduta del Muro di Berlino, la nascita di mio figlio mi lasciò improvvisamente con una serie di nuove domande: come sarà il futuro per mio figlio? Come potrò vivere come madre nella DDR? Fino a quel momento, la DDR era semplicemente il mio Paese d’origine. Ma con le domande sul futuro e il completamento dei miei studi, mi sono improvvisamente resa conto che probabilmente non avrei avuto la possibilità di pubblicare i miei lavori, e anche che non sapevo quanto potermi affidare alle strutture sociale per l’infanzia nella DDR. Ho pensato di fare qualcosa che non attirasse l’attenzione. Ho fatto scultura, libri per bambini e poster, ma avevo già capito che non sarei stata in grado di pubblicare questi poster e questi lavori come avrei voluto, perché il mio stile non era molto conforme, non ero molto adatta ad alcuni tipi di lavoro e forse non lo sono ancora. Ancora oggi mi risulta difficile farmi un’idea chiara su come affrontare e portare a termine gli incarichi su commissione. Durante questo periodo, ancora nel pieno del socialismo, ho iniziato a pensare a concetti alternativi insieme ai miei amici. Ad esempio, ci siamo interrogati sull’idea di crescere i figli, sulla loro educazione. Anche il tema della discriminazione delle donne nella società mi interessava molto. Allo stesso tempo, ero particolarmente interessata agli eventi illegali nelle chiese, per esempio. In questa fase venne fondato il PGH Glühende Zukunft da un mio compagno di studi, Henning Wagenbreth. In questo collettivo si univano interessi artistici diversi. Gli uomini erano più interessati alla politica del momento, mentre io ero più interessata all’idea della vita con i figli, a temi relativi alle donne, alle madri, alle famiglie. In seguito abbiamo iniziato a stampare volantini politici in un’officina di biciclette che si trovava a casa di Henning. Già il mio diploma era stato ispirato da ciò che stava accadendo in quel momento in Unione Sovietica: era l’epoca della perestrojka, messa in moto da Gorbaciov, che era una specie di eroe per me. I cambiamenti nell’Unione Sovietica erano percepiti come una cosa molto incoraggiante e importante, un modello di riferimento per noi nella DDR. Da questo si originò uno spirito di ottimismo per il cambiamento molto tangibile già prima della caduta del Muro di Berlino. Poi, nell’estate del 1989, quando sempre più persone fuggivano dalla DDR passando per Praga e Budapest, mentre ero seduta con il mio bambino in grembo mi sono chiesta: “Rimarremo qui da soli? Sarà questa la nostra realtà?”. Perché sapevo che non sarei mai partita con un bambino. Fondamentalmente, noi come gruppo siamo stati sorpresi dalla caduta del Muro durante le nostre attività artistiche, che hanno sempre dato per scontato che il socialismo fosse un buon ordine sociale in sé, che doveva solo essere cambiato in linea attraverso una forma di perestrojka. Era la fine di qualsiasi impeto rivoluzionario che avrebbe potuto essere incanalato nelle masse.
Ho avuto la sensazione che improvvisamente tutto ciò che contava fosse il consumo, le persone andavano a fare shopping in Occidente perché finalmente c’era tutto da vedere e da comprare. Abbiamo continuato a gestire il nostro gruppo fino al 1994 e, grazie ai manifesti e delle immagini che realizzai in quel periodo, ricevetti improvvisamente molte richieste, soprattutto da gruppi teatrali indipendenti gestiti principalmente da donne. Così mi avvicinai molto al teatro e in breve tempo progettai e pubblicai numerosi manifesti. Spesso senza compenso, ma con grande gioia.
Era un periodo folle, eccitante, ma anche temibile, ricco di incertezze. Nella DDR, come giovane artista, ero relativamente protetta. Gli affitti erano bassi e i libri non costavano molto. C’era anche supporto per le madri single. Ma dopo la caduta del Muro all’improvviso tutto svanì. Il denaro non aveva più valore, così come le assicurazioni, e molte delle cose che avevo imparato erano diventate improvvisamente “superate”. Tutto venne messo in discussione. È stato molto emozionante e allo stesso tempo incredibilmente incoraggiante, perché improvvisamente avevo un futuro con la mia arte. All’improvviso ho potuto pubblicare e partecipare a un discorso pubblico, cosa che non avevo potuto fare prima.
In alcune interviste ha dichiarato di essere arrivata piuttosto tardi al fumetto. Quali sono state le sue influenze principali all’inizio?
Sì, è vero. Ho sempre detto di aver letto i primi fumetti solo a 26 anni. Ma non era del tutto vero, come ho capito in seguito. Nella biblioteca dei miei genitori c’erano edizioni in facsimile delle storie illustrate di Rudolf Toepffer che sfogliavo da bambina. Avevo cinque anni e non sapevo ancora leggere, ma mi piaceva molto. Ma non lo consideravo come fumetto, perché il sottotitolo, in francese, la definiva “Graphique Nouvelle” e non fumetto. È stato interessante vedere come questo termine sia poi tornato moderno.
In seguito ho scoperto il negozio di fumetti “Grober Unfug” a Berlino, dove sono stata davvero sopraffatta dall’abbondanza di immagini e fumetti durante la mia prima visita. All’inizio ho pensato che non facesse per me; non mi piacevano quei volti con i nasi bitorzoluti e gli occhi sporgenti (ride). Non vedevo nessuna bellezza in loro, e questa cosa era molto importante per me all’epoca. Ma poi ho incontrato artisti come Jacques de Loustal e Marc Bayer. Avevo la sensazione che la loro grafica si avvicinasse di più alla mia personale concezione di disegno. Improvvisamente si è aperta una porta e ho pensato che questo medium, il fumetto, potesse avere un potenziale anche per me.
All’epoca lavoravo molto per il teatro: realizzavo libretti, costumi e manifesti. Ho sempre voluto andare oltre il lavoro fatto sui manifesti, che contenevano sempre e solo un’immagine, volevo portare il flusso narrativo della letteratura, del dramma, in modo più forte nel mio lavoro. Così ho iniziato a inventare e inserire, con molta attenzione, delle piccole storie illustrate nei libretti. Naturalmente si trattava di adattamenti delle rispettive opere teatrali, ma erano i miei primi tentativi. In questo periodo ho anche iniziato a disegnare fumetti che parlavano della mia quotidianità. Inventai personaggi come BÄRMI&KLETT: una donna e il suo bambino che le era cresciuto attaccato sulla schiena. A quel tempo non volevo mettere nessun balloon, o quei nasoni bitorzoluti, ma più mi addentravo nel fumetto, più mi aprivo e mi ritrovavo sempre più coinvolta in gruppi che lavoravano in modo molto intenso con il fumetto.
E dopo aver iniziato a lavorare un po’ di più con il fumetto, ha avuto nuove influenze?
Julie Doucet, Renée French e Nicole Claveloux sono state sicuramente fonte di ispirazione, ma purtroppo all’epoca non avevo soldi, spesso ero registrata all’ufficio di collocamento, perché non avevo alcuna possibilità di sopravvivere con il mio lavoro come genitore single con un bambino piccolo, quindi non potevo comprare alcun fumetto.
Inoltre trovavo le mie ispirazioni in diversi altri ambiti: musica, teatro e, soprattutto, letteratura. Il fumetto era ancora piuttosto sottosviluppato e mancavano autrici donne. In quel periodo lavoravo intensamente, soprattutto di notte; durante il giorno ero in giro con mio figlio, mentre di notte cercavo di sviluppare le mie storie. Non avevo ancora 30 anni e mio figlio e il mio lavoro erano per me più importanti di qualsiasi altra cosa. Avevo naturalmente un’istruzione alle spalle, avevo studiato design grafico, ma mi occupavo di grafica libera, disegno e scultura. L’illustrazione era praticamente assente nel mio corso di studi, ma avevo comunque già una buona base nel disegno. Tuttavia la cultura del fumetto in senso classico non mi interessava particolarmente. Non volevo imitare nessuno: desideravo trovare la mia voce. In questo mi lasciavo ispirare meno dalla cultura fumettistica tradizionale e più dalla letteratura.
Vorrei parlare della sua tecnica e del suo stile, ma prima vorrei iniziare con una domanda semplice e forse per questo molto difficile: che cosa significa disegnare per lei? E come crea le sue storie? Ho letto in alcune delle sue interviste che il suo processo creativo è qualcosa di fisico oltre che concettuale, che emerge ancora più intensamente nelle opere di grande formato. Quindi il disegno è anche una catarsi del corpo e della mente?
Sì, credo che il disegno abbia il potere di trovare soluzioni a problemi che prima mi erano completamente sconosciuti. Questo vale ancora oggi. Spesso mi sento disperata perché non riesco a raggiungere ciò che voglio veramente esprimere. Ma poi mi rendo conto che devo semplicemente disegnare. Attraverso il disegno, ciò a cui ho pensato per tutto questo tempo e che ho cercato di costruire diventa visibile in un modo nuovo. Devo impegnarmi per realizzarlo. Non ha molto senso per me sviluppare costruzioni dettagliate in anticipo e poi semplicemente raffigurarle. Devo impegnarmi nel processo creativo. Per me il disegno non è solo una tecnica; per me è importante l’atto del fare in sé, che si tratti di dipingere, disegnare o lavorare con materiali diversi. Si tratta di scoprire se le idee o le domande che mi pongo possano essere realizzate e se, nel processo del mio lavoro, sorgano nuove domande. Le risposte sono piuttosto rare. A volte mi sembra di pormi domande apparentemente assurde e di lottare per la soluzione come se fosse una questione di sopravvivenza. È un po’ folle perché non mi rendo mai conto in anticipo che avrei approfondito questi problemi. Ma quando tutto si risolve alla fine nell’immagine e l’immagine è corretta, ossia rappresenta il processo di lavoro, con cambiamenti e trasformazioni casuali che nascono da una necessità visiva, allora sono molto felice e penso che sia valsa la pena attenersi alla domanda e non alla costruzione iniziale, artificiosa e teorica. Per rispondere alla prima domanda su cosa significhi per me disegnare: mi insegna sempre qualcosa di nuovo. Quando penso di sapere qualcosa, il disegno mi riporta a una posizione di umiltà. Devo continuamente accettare di non sapere e di non essere capace di fare certe cose, cercando al contempo modi per risolvere comunque determinati problemi.
Nella sua carriera ha utilizzato molti stili. All’inizio usava una la linea chiara, per così dire, il tratto geometrico e le prospettive da angolazioni insolite; in seguito ha usato sempre di più il carboncino, che conferisce ai suoi disegni un’atmosfera chiaroscurale davvero unica. Questi stili, come ha detto in altre occasioni e anche adesso, sono sempre emersi dalle domande che si è posta In che modo queste domande influenzano il suo stile di disegno? Lo stile è sempre una risposta alle domande, una sorta di ricerca per trovare soluzioni attraverso l’atto del disegnare?
Durante i miei studi disegnavo molto con il carboncino, che era il mio materiale preferito. Dopo la laurea cominciai a disegnare formati più piccoli con l’inchiostro, spesso in uno stile espressionista simile all’incisione su legno. Durante l’epoca della DDR era importante creare forti contrasti in bianco e nero, poiché le tecniche di stampa spesso non consentivano buoni toni di grigio o stampe a colori. Per questo motivo era fondamentale realizzare disegni a linee nette in bianco e nero e questo era ciò che avevo appreso. Pensavo di dover continuare su questa strada, specialmente se volevo disegnare fumetti, mantenendomi all’interno di questa tradizione. Tuttavia, a un certo punto, sentii che questo stile stava diventando abbastanza sterile. Quando mi resi conto che molte persone stavano seguendo quella direzione mi infastidì, inoltre mi resi conto che stavo iniziando a ripetermi. I committenti volevano sempre lo stesso stile per le commissioni che mi chiedevano e quindi non mi divertivo più. Sapevo di dover cambiare. Molte persone mi dicevano che il mio stile era facilmente riconoscibile e questo mi infastidiva. Non mi è mai importato dello stile in sé: ciò che contava per me era raccontare storie e creare un’atmosfera particolare. Così sono tornata al carboncino e poi anche alla matita. Nel frattempo era diventato anche tecnicamente possibile riprodurre queste opere con grande precisione; anche le grandi illustrazioni potevano essere riprodotte, offrendo così una nuova prospettiva per noi illustratrici.
Un altro elemento molto importante delle sue opere è il lettering, su cui ha fatto molta ricerca e sperimentazione in ogni sua opera. Questa ricerca le fa sentire più vicino il testo, facendolo diventare di fatto parte integrante del disegno? Da dove nasce l’interesse per la tipografia?
Devo dire che nella DDR non mi piaceva molto studiare l’arte commerciale, il design grafico. Avevo discussioni molto accese con i miei professori, che avevano un approccio autoritario.
Dato che non avevo interesse per i font e il design della scrittura, che allora era solo prevista come tipografia a piombo, una volta iniziato a fare fumetti dovevo sviluppare un lettering che sembrasse un disegno. Ho disegnato poster fino al 1997, forse fino al 2000, e sono sempre stata felice di essere indipendente dal disegno tecnico, disegnando anche i font da sola, sviluppandoli come scrittura a mano. Quello che prima era un compito noioso durante gli studi, improvvisamente è diventato una sfida affascinante.
Grazie a questa formazione, avevo una buona base nel disegno tipografico tradizionale e questo mi ha permesso di divertirmi davvero molto. Ho quindi sviluppato ulteriormente questo aspetto e ho cercato di utilizzarlo nei miei fumetti in modo che il carattere si armonizzasse davvero con i disegni, mantenesse la sua individualità e non si perdesse nella composizione tecnica.
Oggi molti artisti utilizzano la propria calligrafia nel loro lavoro, ma all’epoca era ancora insolito. Spesso venivo criticata perché la mia calligrafia era difficile da leggere e sembrava strana, ma è proprio così che è nato il mio stile personale.
Uno dei temi ricorrenti del suo lavoro, e che sono preponderanti nella prima parte della sua carriera fin dai primi lavori (poster e cartoline) e dal suo fumetto d’esordio Herzhaft Lebenslänglich fino soprattutto a La Puttana P., scritto da Katrin De Vries, è quello del corpo, in particolare quello della donna, spesso mostrato nudo, consapevole e politico, lontano dai canoni di bellezza comuni. Da dove nasce questa necessità di soffermarsi sul corpo e sul suo racconto a fumetti?
Ho fatto disegni di nudo per decenni, fin dalla più tenera età, e all’epoca non sapevo perché lo facessi. Pensavo che disegnare corpi umani facesse semplicemente parte di una formazione accademica. Mi piaceva altrettanto disegnare corpi di animali. Credo che non si tratti solo del corpo in sé, ma del corpo come entità spaziale. Il corpo è il luogo delle nostre esperienze, dalle primissime fino a quelle del presente, è uno spazio vivente che quando moriamo non c’è più. Ecco perché sono interessata a ciò che accade in questo luogo, a come il passato si manifesta nel corpo. Nel mio nuovo libro, anche se il corpo non è raffigurato esplicitamente, un tema centrale è quello di come il passato si manifesti nel corpo, del desiderio di vita eterna, e così via.
Quando ho iniziato a disegnare fumetti avevo il mio bambino in braccio tutto il giorno. Questa tra madre e figlio era un’esperienza fisica profonda per me, era una sorta di relazione simbiotica che si sviluppava tra i corpi, tanto da non rendersi più conto di essere in due. Questo è stato il punto di partenza per le mie storie. Penso che il corpo, le ferite, il passato e la narrazione siano collegati. Quando si ritorna alla realtà del corpo, i rapporti di potere sociali, che vengono mascherati da descrizioni romantiche, possono essere rivelati più facilmente.
Un aspetto che mi colpisce in queste rappresentazioni è la combinazione tra un certo mistero del corpo femminile, una sensualità più a livello concettuale e spirituale che carnale, e un profondo senso di dolcezza e maternità che però non ha nulla a che vedere con l’idea maschile di questi concetti. Si potrebbe dire che le sue donne siano un condensato dell’essenza femminile, ma anche una sua radicale reinterpretazione? Come si è evoluta nel tempo questa interpretazione?
Quando è caduto il muro di Berlino è stato per me una specie di shock: l’accesso alle immagini del corpo femminile è stato qualcosa di improvviso e completamente nuovo – riviste di moda, pornografia, pubblicità e così via. Le persone che non avevano mai visto nulla del genere, io stessa non guardavo quasi mai la televisione, quindi queste immagini non erano nemmeno presenti nel mio orizzonte visivo. E questo fu un grande trauma per me, perché avevo l’impressione che si trattasse di un passo indietro per la società, per le donne. Nel cosiddetto socialismo in cui sono cresciuta c’era un’idea di bellezza forse più aperta, non così fissata sull’ideale pubblicitario di bellezza che improvvisamente era ovunque. Come un’inondazione, le nuove enormi immagini piatte e colorate di volti e corpi idealizzati invasero la grigia città di Berlino Est. Volevo difendermi da questa inondazione. Ero determinata a creare la mia immagine di donna, e per farlo ho dovuto mettermi in gioco. Sono stata molto criticata per questo, perché non sopportavo che le mie amiche donne si sentissero improvvisamente brutte. Tutte loro, ma anche io, eravamo disorientate da queste riviste femminili, per questo ne abbiamo fondata una nostra, che per me sarebbe ancora oggi una bella alternativa. Questa rivista si chiamava Ypsilon Lì, era il tentativo di opporsi e inventare un’immagine diversa della bellezza.
E faccio questo ancora oggi. Non so se l’ha visto, ma attualmente è in programmazione il film “Die Unbeugamen, Teil zwei: Guten Morgen, Du Schöne“, un documentario sulle donne della DDR. Nel film ci siamo anche io e mia nonna. Commentandolo, una mia amica ha detto: “Perbacco, eravamo tutti così brutti nella DDR, riguardandoci oggi. È davvero ironico che il film si chiami “Buongiorno, bellezza”, anche se le donne nelle immagini sono così brutte”.
Ho risposto: “Non penso affatto che fossimo brutti e brutte”. Queste donne hanno lavorato tutta la vita, le foto sono in bianco e nero, non c’erano abiti alla moda da comprare, indossavano grembiuli, ma per me c’è così tanta vita ed esperienza in questi corpi che non posso descriverli come brutti. Per me la vita è sempre più bella della bellezza artificiale. E in questo film ho potuto vedere molto chiaramente, attraverso le vecchie fotografie in bianco e nero di lavoratrici, quale ideale di bellezza mi ha influenzato: quello della donna che lavora. Della principessa intelligente.
Oggi le sue figure femminili sono molto diverse dal punto di vista grafico soprattutto, ma in un certo senso anche concettuale, rispetto a quelle iniziali, anche se il valore politico della loro rappresentazione è rimasto lo stesso. Fondamentalmente l’interpretazione rimane la stessa per lei, solo con elementi diversi.
Credo che i corpi altamente stilizzati che disegnavo all’inizio fossero per me un tentativo di estremizzazione, di resistere con veemenza all’ideale classico di bellezza. In seguito, ho potuto lavorare in modo molto più delicato con il carboncino morbido, così come con la matita. Di conseguenza, mi sono cimentata con altre forme del corpo che non riguardavano più solo gli aspetti stilistici, ma più la narrazione e l’atmosfera di cui avevo bisogno per la storia. Non riuscivo più a ottenere nulla con la forte stilizzazione; era riproducibile in serie, certo, ma mi mancava la sensazione dello spazio. Così mi sono concentrata maggiormente sullo spazio in cui esistono i personaggi: i corpi stilizzati spesso stanno da soli e lo spazio intorno a loro, e quindi la narrazione, non è così importante. Ma adesso lo spazio gioca un ruolo molto più importante, e questo è stato un passo significativo per me. Il mio lavoro è uno sviluppo costante; non voglio annoiarmi e mi piace scoprire cose nuove. È stato quindi importante per me sperimentare nuovi materiali e nuove idee, permettere alle cose di cambiare. All’inizio degli anni ’90 le mie figure avevano qualcosa di infantile, ma ora sono una nonna e i corpi sono cambiati, e cambiano con me. Anche questa è un’evoluzione.
Ha parlato delle atmosfere che caratterizzano le sue opere, che sono una parte essenziale del suo lavoro: sono spesso oniriche, metaforiche, a volte criptiche, ma anche fiabesche, come favole oscure e stravaganti.Quanto sono importanti questi due elementi – sogno e fiaba – per lei?
Il sogno in sé non è così importante per me. Una volta ho realizzato un libro in cui ho cercato di disegnare i miei sogni (Somnambule – NdR). Dopo ho avuto la sensazione che i miei sogni si fossero offesi, perché per un po’ non sono più riuscita a sognare, cosa che ho trovato piuttosto brutta. Ho pensato: “Oh oh, è una cosa delicata allora.” (ride) Non si possono rappresentare i sogni come sono realmente. Non ha senso per me disegnare i miei sogni. Invece ho avuto l’idea di disegnare come se stessi sognando – cioè mettermi in uno stato che permette tutto, senza pensare troppo, senza storyboard, per immergermi in un livello di coscienza più profondo, dove possono emergere mondi arcaici, indipendenti dagli eventi che vivo durante la vita di tutti i giorni.
Forse questo si collega con la fiaba, dove compaiono archetipi – la foresta, l’animale, la donna, l’uomo – e le cose assumono una dimensione temporale diversa. Per questo le mie storie sono spesso molto lente. Sono per lo più composte da due immagini per pagina, tutto avviene passo dopo passo. È un po’ come nei sogni: quando inizio una storia, ho la sensazione di entrare in una stanza, guardarmi intorno, e poi inizia il racconto. Ovviamente so che ognuno sogna in modo diverso, ma credo che esista un’idea di base del sogno che probabilmente ha sempre a che fare con un luogo.
Un altro elemento centrale delle sue storie è la natura. Ci sono alcuni animali ricorrenti nei suoi libri: uno di questi è il cane, per cui lei ha una grande passione (una storia a riguardo molto tenera e affettuosa è Die Holländische Schachtel). Molto spesso il cane viene antropomorfizzato, in tanti dei suoi ultimi lavori (La Fessura, Memoria della menta piperita, Genossin Kuckuck) i volti dei personaggi assumono le fattezze di quelle dei cani. Che cosa rappresenta per lei questa antropomorfizzazione? Mi sembra quasi un tentativo di colmare la distanza tra noi e il resto del mondo animale attraverso il disegno.
Prima di tutto, anche noi esseri umani siamo mammiferi. Considerare l’essere umano solo da un punto di vista psicologico mi sembra troppo limitato, ho la sensazione che sia troppo riduttivo. Ma se vedo l’essere umano come un organismo all’interno dello spazio, le relazioni mi appaiono più chiare – tra umani e animali, tra umani stessi e tra umani e lo spazio. Questo è ciò che mi interessa: la formazione dell’essere umano attraverso il suo ambiente, che per me include necessariamente gli animali. È una questione di sopravvivenza, il modo in cui trattiamo gli animali e le piante in questo mondo. Può sembrare una affermazione molto politica, ma è il tentativo di esprimere l’esperienza del legame che vivo ogni giorno: vivo in campagna e ho un contatto intenso con animali, piante, foreste e acqua. Questo mi influenza molto e ne voglio parlare. Per me è importante non considerare solo la psicologia dell’essere umano, mi interessa di più l’archetipo che ci lega agli altri esseri viventi. Quando riesco ad accettare che anch’io sono un animale, mi sento meno sola. Allora sento di essere connessa con molte più entità, piuttosto che pensare di essere solo un essere umano, unico come tale. Entrare in questo contesto di idee ha un carattere magico e curativo. Le trasformazioni diventano possibili e ci vengono mostrate dal regno animale: la larva, la crisalide, la farfalla, il fungo, l’uovo…
E ora arriviamo a Compagna Cuculo. Il primo titolo era “Un animale tedesco in una foresta tedesca” quindi ancora il tema degli animali molto presente. Ci è voluto molto tempo per lavorarci: com’è stato per lei lavorare a un’opera per dieci anni? Immagino non sia stato facile. Bisognava rifare molte cose, cambiare e ricambiare, e così via. Cosa ha richiesto questo tempo così lungo per elaborare e realizzare questa storia? E come si lavora in generale su una storia per un periodo così lungo? Nel frattempo, ha lavorato anche su altri progetti?
Sì, credo di aver sempre lavorato moltissimo, in realtà troppo. In questo periodo ho fatto anche altri libri, ho ristrutturato una vecchia casa, ho avuto nipoti e soprattutto ho lavorato all’università, il che mi ha preso molto tempo. Mi è diventato sempre più difficile, dopo il lavoro all’università, tornare a casa e concentrarmi sui miei progetti personali. All’università, infatti, non parlo del mio lavoro, ma mi concentro completamente sul lavoro degli studenti. A volte mi sono un po’ persa. Quando tornavo a casa ero completamente esausta e spesso ci volevano due giorni prima che riuscissi a rimettermi a lavorare e ricordarmi cosa volevo fare. Questo dipende anche dal mio modo di lavorare: non ho uno storyboard che posso semplicemente seguire. Devo sempre immergermi profondamente nel lavoro e avere la mente libera per continuare la storia. Poi ho avuto la sensazione che il materiale fosse molto vasto. Ho iniziato in modo piuttosto leggero, nel 2009, con un capitolo che oggi non è nemmeno più nel libro, e poi ho capito che stavo scavando molto nel passato. Questo a volte mi ha destabilizzato durante il processo di lavoro. Nel libro ci sono temi piuttosto intensi, e non è stato sempre facile riprendere il lavoro e continuare a disegnare. Nel frattempo ho fatto delle pause, una volta addirittura per un anno intero, perché avevo la sensazione di non riuscire a proseguire. Non sapevo semplicemente come andare avanti. Anche se i vari capitoli sono stilisticamente molto diversi, però, ho sempre avuto in mente che fosse un libro completo. Non è mai stato un frammento, ho sempre avuto chiaro l’insieme. Quando lo perdevo di vista avevo bisogno di una pausa per riorientarmi. Alla fine la situazione è diventata piuttosto impegnativa: avevo tutti questi capitoli, ma poco prima della conclusione ero disperata perché non sapevo in quale ordine metterli. L’ordine che avevo scelto originariamente non mi piaceva – mi sembrava troppo casuale. In quel momento è venuta a trovarmi una mia amica fumettista, Birgit Weyhe, e mi ha detto: “Ascolta, ti aiuto io adesso, lo facciamo insieme”. Lei ha sviluppato un sistema per nominare i capitoli. Insieme abbiamo disteso per terra tutto il materiale, discusso e riorganizzato. Quando è ripartita, avevo trovato il mio ordine e ne ero molto soddisfatta. Avevo davvero bisogno di aiuto, perché nel corso degli anni avevo prodotto così tanti disegni che a volte perdevo la visione d’insieme. Nessuno ha un appartamento abbastanza grande per tutto questo materiale, e al computer non si può vedere tutto contemporaneamente. Questi sono stati sicuramente alcuni dei motivi per cui c’è voluto così tanto tempo. Ma a posteriori sono contenta di essermi presa il tempo necessario, anche se può sembrare strano. In questa fase mi sono evoluta a livello linguistico e come scrittrice e ho scoperto molte nuove cose che forse nel 2009 non sarei stato in grado di realizzare. Ci è voluto semplicemente tempo.
Da questo punto di vista, al contrario di molti suoi lavori precedenti, questo contiene molto testo e un lavoro nuovo e diverso sul linguaggio e sulla scrittura. Ci sono molti disegni, ma anche il testo gioca un ruolo molto più importante, cosa che non era così pronunciata nei suoi lavori precedenti. A volte un capitolo è costituito esclusivamente da testo. Come ha lavorato su questo aspetto, sulla parte testuale intendo? Perché per me è stata una novità interessante, un’evoluzione nel suo lavoro.
Anche questo cambiamento è in qualche modo collegato al disegno. Ho iniziato a disegnare e parallelamente scrivevo sempre testi. In quel periodo viaggiavo molto ed è un altro motivo per cui il libro ha richiesto così tanto tempo. Spesso ero in viaggio con i miei lavori e non riuscivo a disegnare bene, ma la scrittura mi riesce ovunque – in treno, in aereo, ovunque fossi. Scrivere mi riesce bene anche all’aperto, così ho accumulato una montagna di testi. Quando mi sono poi messa a disegnarli ho avuto la sensazione di annoiarmi terribilmente, perché i testi erano già lì – perché dovrei disegnarli? E ci è voluto anche un po’ di coraggio per dire: “Va bene, lascia i testi così come sono. Rimarranno così, mentre altri capitoli si origineranno solo dai disegni.” È stato quindi un passo importante accettare che i testi avessero un immaginario poetico diverso rispetto ai disegni. E poi mi sono divertita a vedere che i disegni raccontano una storia diversa. Anche quando decido di raccontare una storia con un disegno e non con parole, si sviluppa in modo diverso. Trovo tutto ciò molto interessante. Inoltre, anche chi ha visto il lavoro prima della pubblicazione mi ha incoraggiata a lasciare i testi così come sono e a mantenere aperto questo spazio.
Si dice che in ogni opera d’arte ci sia sempre una parte dell’artista, ma in questo caso c’è molto di più perché si tratta di una storia di bambini e di crescita nella Germania dell’Est. Quindi, quanto c’è di lei in Kerstin ed Effi? Quanto della sua esperienza personale si riflette in questi due personaggi principali?
In un’altra intervista ho detto: “Tutto è inventato e tutto è vero al 100%”. E anche questo ha a che fare con il disegno e il corpo. Non posso disegnare la realtà in modo realistico perché è passata. Non posso semplicemente ricreare queste storie, quindi ho dovuto inventare un mondo in cui queste cose possono accadere. E mentre disegno, cambiano. Nella mia vita non ci sono né Kerstin né Effi. Molte delle cose presenti nel libro non sono accadute nella mia vita, eppure tutto è assolutamente vero, perché tutto ciò che si sente e si fa è accaduto in qualche modo. Quindi il libro è autobiografico e allo stesso tempo tutto è completamente inventato, perché non si può disegnare una vita per come è stata realmente. È stato molto importante per me prendere le distanze, inventare nuovi personaggi che non sono esattamente come me e attraverso loro raccontare le esperienze più intime prendendo le distanze dai personaggi.
Attraverso il disegno e la narrazione, è possibile – come dire – mettere simbolicamente le mani nel passato e forse cambiare o fare ammenda per qualcosa che non può più essere cambiato nella realtà.
Proprio su questo punto, per esempio, nella storia c’è questa separazione tra Kerstin ed Effi: vanno in due direzioni completamente diverse e sembra che si siano perse, ma alla fine c’è qualcosa che mantiene vivo il loro legame. Anche se si pensa che la relazione sia completamente finita, il rapporto rimane. E forse si tratta anche di un modo, per lei come artista, di modificare il proprio passato.
Per me è stato anche un tentativo di capire quali sono le prime esperienze della vita – il primo amore, la prima amicizia, la prima consapevolezza della fisicità – e come queste esperienze plasmano tutta la nostra vita. Non si tratta di una verità assoluta, non voglio essere dogmatica, ma sto ponendo la domanda su cos’altro si può aggiungere nella vita e su quanto tutto sia fortemente determinato da queste prime esperienze. Come vengono plasmate le continue esperienze di crescita? Ed è per questo che ho spostato la questione nel regno animale alla fine, quando le due si incontrano: non si tratta più di un incontro tra donne anziane, ma di un incontro su un altro livello. Di solito non disegno mai dei lieti fini, ma ho trovato un po’ divertente il fatto di poter disegnare un “quasi” lieto fine (ride).
In un’intervista lei ha detto che questo lavoro è molto incentrato sulla violenza. La violenza intergenerazionale, di genere, ma anche umana in generale, sempre presenta anche se mai esplicitata completamente. Cosa significa per lei affrontare la violenza e come ha sviluppato questo tema nel suo libro?
Credo di essere stata fortemente influenzata dalle storie sulla guerra, soprattutto da mia nonna, poiché sono cresciuta con molte donne anziane. Queste storie erano estremamente presenti nella mia vita. A volte mi sembrava di essere stata io stessa in guerra, perché avevano un ruolo così centrale nella mia infanzia. La violenza era onnipresente. A quel tempo, come possono confermare molti amici e parenti, abbiamo sperimentato molta violenza da bambini e giovani, era una parte normale della vita. Più tardi, quando sono diventata madre io stessa, ho cercato di capire che cosa succedeva veramente all’epoca e se fosse possibile distaccarsi consapevolmente da questo ciclo. Quanto profondamente si radica la possibilità della violenza fisica nella memoria e nel proprio agire? Questa è stata una domanda molto importante per me, che mi ha anche reso politicamente attiva prima e dopo la caduta del Muro di Berlino, perché sentivo che bisognava parlarne.
Un esempio è quello che è accaduto alle donne nel 1945, durante la liberazione dal fascismo a Berlino e in tutta la Germania: una violenza enorme di cui non si è mai parlato nella mia famiglia. Questa segretezza non si applicava solo a livello politico, ma anche all’interno delle famiglie. Le persone non parlavano di essere state picchiate o di aver subito abusi. Oggi è diverso, con movimenti come #MeToo, ma all’epoca c’era un silenzio estremo che fa male alla società così come all’interno di una famiglia. Non ho cercato di raccontare direttamente la violenza, ma piuttosto di mostrare come si è sviluppata la vita – come mi sono sviluppata io o come si è sviluppata la mia generazione in quel luogo e in quel periodo – con questa oppressione del senso di violenza.
Qual è stato il capitolo più difficile da realizzare per lei, sia a livello tematico che di rappresentazione?
Penso che la “storia rossa”, dal titolo Rosso Cinese, quella della teiera su cui si animano le storie e che parla di mia nonna, sia stata la più difficile. Tratta molto della violenza che mia nonna, la generazione dei miei genitori e io abbiamo vissuto. Allo stesso tempo, parla anche di amore. Ho amato mia nonna e questa ambivalenza tra l’amore e l’esperienza della violenza è molto impegnativa. Questa ambivalenza è legata alle esperienze di bellezza e amore, ma anche all’abisso e alla violenza, che deformano ogni percezione. Ecco perché l’ho disegnato con l’inchiostro, perché sentivo così di poterlo finire più rapidamente, e passare oltre. Tuttavia, è stato comunque molto difficile. Ho fatto molti tentativi perché non sapevo come rappresentarlo. Alla fine, l’ho disegnato in modo comico e grottesco, non troppo realistico.
Sì, esattamente. È grottesco, ma allo stesso tempo comprensibile: parla di violenza e di amore allo stesso tempo. Ogni capitolo cattura un sentimento forte, caratterizzato da un preciso stile di disegno. Lo stile riflette i suoi sentimenti riguardo a questi momenti?
Sì, per me era importante sapere cosa volevo disegnare e come volevo rappresentare ogni emozione e situazione. Si trattava più di atmosfera, come per i capitoli ambientati nella foresta per esempio, o di narrazione con i personaggi? La storia ha approcci diversi: a volte osservano passivamente, a volte agiscono attivamente, e io ho disegnato di conseguenza. Sono stata in grado di disegnare le scene più attive più rapidamente, mentre le scene d’atmosfera hanno richiesto più tempo, come la “Regina Vontjanze”. Si trattava di un momento più contemplativo, che in realtà è durato solo cinque minuti. Tuttavia io ho percepito di aver osservato a lungo quel momento, il movimento di una lumaca, e poi ho dedicato un intero mese a disegnarlo.
Molti critici, me compreso, hanno detto che Compagno Cuculo è il suo “magnum opus”. È d’accordo con questa affermazione? Che significato ha quest’opera per lei e per la sua carriera?
È stato sicuramente un lavoro enorme. In seguito sono stata malata per molto tempo, ho avuto alcuni incidenti e di recente non ho disegnato molto. È stato impegnativo rendersi conto improvvisamente che è passato un anno dalla fine del libro e che non ho fatto quasi nulla di nuovo. Mi sono ripresa bene e ora sto lavorando ad altri progetti. Non so se sarò in grado di scrivere di nuovo un libro così grande. Per quanto riguarda l'”opus magnum”, non è così importante per me, si tratta di attribuzioni esterne. È stata sicuramente un’enorme quantità di lavoro, perché nel frattempo ero anche impegnata su altri libri e progetti artistici. Ora mi piacerebbe lavorare di più con il colore. Il colore potrebbe portare un nuovo aspetto, un qualcosa di forse meno narrativo. Sono molto curiosa di vedere cosa nasce dall’interazione tra immagine e testo.
L’ultima domanda: vorrei sapere di più sulla sua prospettiva sui fumetti tedeschi. Lei lavora nel settore dei fumetti in Germania da più di trent’anni e ora è professoressa ad Amburgo. Come vede lo sviluppo del fumetto tedesco oggi? Cosa pensa della situazione attuale e del futuro del fumetto tedesco?
Mi viene spesso chiesto quale sia il futuro del fumetto tedesco, ma non ho un’opinione precisa. Vedo i miei studenti e sono spesso impressionata dal loro lavoro. D’altra parte il fumetto non ha ancora una forte tradizione in Germania, anche se sono passati molti anni. Quando mi trovo in Italia o in Francia ho la sensazione che il fumetto sia molto più radicato nella società. In Germania cerco di dare ai miei studenti un ampio spettro, in modo che possano lavorare in diversi modi e guadagnarsi da vivere.
Spero di non deludere le sue aspettative, ma per me il fumetto è solo uno dei tanti strumenti. In generale sono interessata all’arte, alla letteratura e ad altre forme di espressione. I fumetti sono solo una parte di ciò che mi ispira. Posso comunque dire che negli ultimi anni, grazie all’impegno di tanti giovani artisti del fumetto, la percezione sociale dei fumetti è cambiata. All’improvviso ci sono diversi importanti premi, finanziamenti, borse di studio, nuovi festival e l’uso dei fumetti nelle scuole è diventato significativo. I fumetti come libri di saggistica, ecc. È incredibile ciò che sta accadendo attualmente in Germania in questo senso.
In Italia ci poniamo la stessa domanda: come si sta sviluppando il panorama del fumetto? È sempre bello ricevere risposte diverse. Penso anche che sia importante l’affermazione che i fumetti non sono tutto e che i fumetti dovrebbero essere ispirati da molte influenze diverse per creare qualcosa di nuovo.
Trovo molto interessante questo scambio continuo. Sono stata nominata per il Premio della Fiera del Libro di Lipsia a marzo e l’autrice che ha vinto il premio, Barbi Marković, ha scritto un’opera letteraria che si legge come un fumetto e che si ispira a quel linguaggio. È quasi divertente vedere come il fumetto sia improvvisamente rappresentato nei media letterari. Tuttavia vale ancora la regola: solo quando si definisce “letteratura”, con le parole in bianco e nero, diventa davvero accettabile nei salotti. Le immagini lo sono solo nel contesto dell’arte, ma anche lì c’è ancora resistenza. Questo mi fa ripensare a quando ho iniziato a leggere intensamente i fumetti americani nei primi anni 2000, cosa che non avevo mai fatto prima. I fumetti americani degli anni ’40 e ’50, Jack Kirby e così via, mi hanno davvero ispirato all’epoca, soprattutto l’estetica. Anche se non lo si riconosce immediatamente nel mio lavoro, in quel periodo ho iniziato a realizzare disegni a carboncino di grande formato, ispirati da questi fumetti. A posteriori, non lo si riconosce immediatamente, non si sa da dove vengono le immagini, ma sono chiaramente influenzate da questi vecchi fumetti. Questa fase è stata un momento di formazione molto importante per me. Anche se quei disegni non erano fumetti e non raccontavano una storia, fanno riferimento a ciò di cui ho poi parlato in seguito in Compagno Cuculo. In questo senso ho messo la mia infanzia e le mie esperienze di donna sul foglio dei fumetti di supereroi e ho cercato di capire la distanza, o meglio lo “spessore”, che divideva questi due livelli di me stessa, un’operazione molto divertente. Quindi sì, il fumetto è una delle tante forme che mi ispirano, a volte in maniera inaspettata e che mi danno nuove idee per la mia arte, ma non l’unica.
Intervista realizzata via zoom il 13 settembre 2024.