Alex Crippa: ogni Storia è un Mostro

Alex Crippa: ogni Storia è un Mostro

Abbiamo intervistato Alex Crippa, “sceneggiatore di genere”, insegnante di fumetto e batterista, per parlare di scrittura, orrori e lati oscuri.

Alex Crippa è uno sceneggiatore di fumetti. I suoi esordi risalgono al 1996 sulla mini serie Randall McFly. I suoi fumetti più noti sono 100Anime (Delcourt/Edizioni BD), Nero (Casterman/Edizioni BD/Renoir Comics), Come un cane (KSTR/Edizioni BD), Jonah Martini (Renoir Comics), Jacob (XL di Repubblica), ArcasacrA (Nicola Pesce Editore), Dei (Ankama Editions/Bao Publishing). Ha scritto storie per le riviste Splatter e Mostri e per Nathan Never e Dampyr (Sergio Bonelli Editore). Nel 2017 è uscito il graphic novel 16 (Edizioni Ink) e una storia sul Dylan Dog Color Fest #20. Insegna sceneggiatura alla Scuola del Fumetto di Milano, all’Accademia d’Arte Acme di Milano e alla Genoa Comics Academy di Genova. Suona la batteria nei Pasticcini Marci. Il suo blog personale è alexcrip.blogspot.com. Per Lo Spazio Bianco cura il blog Frattaglie.

Una tavola da Nero

Da qualche anno non si vedevano tanti tuoi fumetti “contemporaneamente” (la storia sul Dyd Color Fest, 16 per Ink, la riedizione di Nero per ReNoir, la collaborazione con Mostri): c’è un motivo dietro questa assenza?
L’accumulo di uscite nello stesso periodo è un caso. È impossibile prevedere che un fumetto scritto nel 2012 esca nel 2017, che una trilogia pubblicata in Francia più di 10 anni fa, e già uscita in Italia, venga nuovamente rieditata da un altro editore italiano. Certe dinamiche editoriali sono insondabili. La cosa bella è stata riscoprire storie che avevo quasi dimenticato. Il fatto invece che negli ultimi 2-3 anni ho in effetti scritto e pubblicato meno rispetto al passato lo imputo agli impegni scolastici che ho visto aumentare sempre più. Più classi e più allievi si traducono in più ore fuori casa e più roba da leggere! Mi piace parecchio insegnare. Mi piace avere orari fissi e uscire spesso dal mio Overlook Hotel. Le lezioni danno ritmo alla mia settimana e ho sovente la fortuna di incontrare allievi preparati e motivati. Gestire la creatività propria e quella altrui è stimolante, ma richiede tempo e pazienza.

Rivedendo le tue pubblicazioni si può dire che fosti tra i primi a riscoprire e rivalutare il fumetto di genere, che fino a qualche anno fa era appannaggio del fumetto seriale e a servizio dei personaggi. Credi che oggi ci sia più spazio per la tua concezione di fumetto e di fiction in senso allargato?
Penso di sì. Se, economicamente parlando, l’editoria a fumetti non sta attraversando un gran periodo, a livello puramente creativo vedo tante nuove realtà apparire sul mercato e titoli interessanti, originali e freschi farsi avanti. In questo bellissimo marasma c’è spazio per il fumetto prettamente d’autore e per quello di genere, che forse mai come oggi stanno andando così baldanzosamente a braccetto. Un titolo su tutti: “La terra dei figli” di Gipi. Un capolavoro della narrazione sequenziale e, per quanto mi riguarda, il suo capolavoro tout court. È l’unica storia post-apocalittica davvero realistica e credibile che abbia mai letto. Gipi si butta a capofitto nel Genere, anzi, nel Sotto Genere, e attraverso questo ci racconta la crescita, la paternità, l’ossessione, tirando le somme su quello che davvero conta nella vita. Forma ineccepibile, contenuto profondissimo.

Come nasce un’idea? Come alimenti la tua inventiva per trovare nuovi spunti e nuove storie da raccontare?
Se mi approccio a un personaggio altrui, se devo scrivere il soggetto per una serie già esistente, per intenderci, mi viene naturale usare il what if: cosa succederebbe se Dylan scoprisse di essere morto? E se Dampyr questa volta non incontrasse alcun vampiro?
Per le mie storie, invece, parto praticamente sempre da un tema, qualcosa su cui io per primo voglio riflettere, pormi delle domande e darmi delle risposte. Poi incastono questo tema in una struttura narrativa che cerco di rendere il più possibile chiara e solida, e lascio che il lettore sia prima di tutto avvinto dall’intreccio e infine sia, in qualche modo, toccato dall’argomento trattato.

Il passaggio dall’idea alla sceneggiatura: quanto tempo e quanta fatica comporta? Quanto cambia l’idea originale in questa fase?
Il lasso di tempo che intercorre tra idea e sceneggiatura completa è talmente variabile, soggettivo e soggetto a fattori esterni che è impossibile dare una risposta. Indipendentemente dai tempi di consegna, un autore può passare mesi alla ricerca della buona idea e magari un paio di settimane belle concentrate per realizzarne la sceneggiatura. O il contrario. Io di solito dedico molto tempo all’individuazione di un’idea che mi convinca al 100%. Finché non trovo l’idea giusta, quella per cui vale la pena combattere, non propongo niente a nessuno. Quanto cambia l’idea originale in fase di sceneggiatura? Diciamo che l’idea base, il tema, non cambia. Non deve cambiare, è il dna di una storia (ne ha parlato in modo esaustivo Giorgio Salati su queste pagine, tra l’altro). Quel Mostro in continua evoluzione che è la Storia Che Vuoi Raccontare può cambiare pettinatura, trucco, look, perfino razza ed età, ma il cuore è quello, se lo modifichi stai scrivendo un’altra cosa.

Sul tuo blog personale parli dell’egocentrismo dello scrittore: scrivere è anche un atto di vanità?
Mettiamola così: se dopo i 20 anni non superi la fase della scrittura masturbatoria e continui a considerare te stesso l’unico target possibile delle tue storie tardo-adolescenziali, non diventerai mai un narratore professionista. L’egocentrismo è la spinta necessaria per uscire dal guscio. L’umiltà e il raziocinio sono i salvagente che ti faranno restare a galla.

“Come un cane”, Crippa/Ponticelli

Il rapporto con i disegnatori: quanto è importante conoscere chi disegnerà la tua storia?
È davvero molto utile conoscere chi disegnerà la storia che uno sceneggiatore come me, che non ha alcuna competenza grafica, può solo immaginarsi. Quando anni fa ho iniziato a scrivere fumetti mi sono spesso sentito suggerire dai più grandi: “fai disegnare al tuo disegnatore quello che gli riesce meglio”. Mi pareva una cosa un po’ troppo riduttiva, troppo castrante nei miei confronti… perché avrei dovuto limitare la mia creatività per favorire il lavoro di un altro? Col tempo capii che era un consiglio saggissimo perché valorizzava al massimo le doti artistiche di un disegnatore e imponeva a me un minimo di confine oltre il quale non andare, che è lo stimolo più creativo per un narratore. L’horror vacui nasce proprio dalla totale libertà creativa, senza paletti, senza restrizioni, senza direzioni. Se non avessi ceduto a quel consiglio quando proposi al buon Ponticelli, ormai 10 anni fa, una storia di combattimenti clandestini, a lui che oltre a essere un eccezionale disegnatore è anche un praticante di arti marziali e conosce perfettamente le dinamiche e le anatomie in gioco, ci saremmo incartati sull’idea di quella pessima zombie story su cui stavamo rimuginando e che non avrebbe mai visto la luce. E invece nacque “Come un cane”, uno dei fumetti miei a cui sono più affezionato e uno di quelli che ha riscosso più interesse.

Quanto spazio lasci a chi disegna? Sei geloso delle tue scelte di impostazione o tendi a fidarti delle modifiche apportate dal disegnatore?
Tendo molto a fidarmi dei disegnatori. Ripeto, non ho mai disegnato né studiato grafica, quindi accetto molto umilmente il fatto che un disegnatore professionista abbia una visione della tavola più azzeccata della mia. Ovviamente se viene snaturato il senso di una sequenza o una scena non è chiara, dico al disegnatore di rientrare nei ranghi e attenersi a quello che ho scritto. Ma succede di rado, devo ammettere.

Come visualizzi nella mente le tue sceneggiature, hai un disegnatore o uno stile in mente mentre le scrivi?
In realtà il mio immaginario è occupato al 60% da film e al 40% da fumetti. Amo l’arte sequenziale per le sue potenzialità espressive, è un linguaggio che creativamente mi sorprende e mi stimola sempre. Ma, detto terra terra, mi sono nutrito e mi nutro più di film che di fumetti. Quindi tendo a visualizzare inquadrature e sequenze attingendo in particolar modo dai capolavori cinematografici che più mi hanno segnato. È istintivo. La mia difficoltà, a inizio carriera, consisteva nel tradurre in immagini statiche quello che nella mia testa invece si muoveva e parlava. Col tempo è diventato praticamente un modus operandi. I miei fumetti sono pieni di inquadrature e sequenze “ispirate a”, ma non sono quasi mai citazioni, semplicemente perché non ci penso. L’obiettivo non è citare, ma raccontare. A volte mi accorgo solo con lo storyboard che ho pescato dal tal film la tale sequenza. E a volte sono talmente poco esplicite che nessuno se ne accorge. Per esempio, in “16 – L’odore della morte” tu hai notato la citazione di Arancia Meccanica in un’inquadratura?

Parliamo del tuo ruolo di insegnante che dividi tra Milano e Genova. Intanto, cosa significa insegnare a scrivere fumetto? Soprattutto, si può insegnare?
Non posso insegnare a qualcuno come essere creativo, ma come gestire la creatività sì. È ovviamente un discorso molto lungo e complesso. Alla Scuola del Fumetto di Milano il mio corso di sceneggiatura completo dura tre anni. Per dire. Insegno da più di dieci anni ormai, e col tempo io per primo ho dovuto imparare a fare questo mestiere, sbagliando, correggendo, tarando il tiro. Sono arrivato alla conclusione che il mio lavoro deve scorrere su due binari paralleli: fornire le regole e seguire il processo creativo del singolo allievo. Lui deve rispettare le regole, io la sua fantasia.

Com’è il tuo rapporto con i tuoi studenti?
Costruttivo. Anche nei casi più disperati. È soprattutto conoscendo le più variegate tipologie di allievi che ho capito meglio come gestire il lavoro di insegnante. C’è l’allievo super nerd che ne sa più di te, quello con grande talento ma la voglia di fare di un bradipo, quello che si presenta malissimo perché ha lo sguardo catatonico e i vestiti stropicciati ma poi rivela una sensibilità fuori dal comune, quello che prende appunti e studia tantissimo ma non sa mettere insieme due inquadrature… Negli anni ho imparato a comprendere ed accettare ogni tipo di classe, questo mostro a più teste dalla personalità multipla che può ucciderti o renderti una persona migliore. È un continuo scambio di nozioni ed emozioni quello che instauro coi miei allievi. È il motivo per cui continua a piacermi insegnare.

Come si articolano le tue spiegazioni e come valuti il livello di apprendimento?
Le mie spiegazioni si compongono di tre fasi: teoria, in cui espongo le regole dell’argomento trattato; esempi, in cui illustro a voce o attraverso immagini le applicazioni di quelle regole; analisi, in cui do da leggere per casa dei fumetti rappresentativi della lezione, che vengono poi discussi in classe. Oltre alle spiegazioni c’è poi tutta la parte pratica, in cui ogni allievo deve applicare ciò che, in teoria, ha imparato. Mi baso proprio sull’applicazione dello studente per valutare il suo livello di apprendimento. Può avere anche capito tutto quello che ho spiegato in tre anni, ma se poi scrive pessime sceneggiature non farà mai questo lavoro.

Sei un insegnante che scoraggia gli allievi buttando loro le difficoltà lavorative dell’ambiente fumettistico o cerchi di essere positivo e di spronarli? Quale tecnica credi renda di più?
A inizio corso incoraggio il più possibile l’estro di ogni singolo allievo, sia per capire quali sono le sue passioni e i suoi gusti, sia per spronarlo a scrivere. Verso fine corso, quando si tirano le somme e arriva il momento di confrontarsi col mondo del lavoro, prendo in disparte l’allievo, lo faccio sedere, metto su una colonna sonora new age e gli dico che il mondo è un posto difficile ma meraviglioso, spietato ma giusto, brutto ma bello, e sta solo a lui decidere se renderlo peggiore o migliore. Di solito funziona!

Sul Dylan Dog Color Fest #20 è stata pubblicata la tua prima storia breve dell’Indagatore dell’incubo. Una storia rimasta nel cassetto per un po’: vuoi raccontarci le sue vicende prima che vedesse la luce?
Quella storia la scrissi nel 2012 quando Giovanni Gualdoni era l’editor della testata. Fu lui ad approvarla e seguire tutta la fase di sceneggiatura e disegno (un applauso a Christopher Possenti). Giovanni mi disse che sarebbe restata nel cassetto almeno per un paio d’anni, un lasso di tempo assolutamente normale per una storia da inserire in una serie che ha come minimo tre anni di uscite già programmate. Va anche considerato che il Color Fest ai tempi usciva solo due volte l’anno. Poi ci fu il cambio di rotta, alla guida di Dylan Dog subentrò Roberto Recchioni, le cui riforme apportate alla testata credo abbiano in qualche modo rallentato la pubblicazione di storie “vecchie”, non pensate cioè per seguire il nuovo corso. Col tempo però aumentò anche il numero di Color Fest annui e fu così che la mia storia è uscita a febbraio 2017.

Come ci si approccia a un personaggio con trent’anni di storia editoriale? Quali margini di libertà permette una testata come il Color Fest rispetto, ad esempio, alla serie regolare?
Il Color Fest sta diventando sempre più l’equivalente delle puntate di Halloween dei Simpson: massima libertà espressiva e storie fuori continuity. Spesso le scelte più ardite, soprattutto dal punto di vista grafico, sono molto criticate, ma a me piace pensare che in quel “contenitore” si possa trovare tutto e il contrario di tutto. Lo dico nonostante la mia storia rientri a pieno titolo nella categoria delle “classiche”. Ho preferito quell’approccio proprio perché era la prima volta che mi confrontavo con quel mostro sacro che è Dylan e non me la sentivo di giocare coi suoi cliché. Mi ci sono accostato con rispetto e devozione, non osando troppo ma allo stesso tempo cercando di raccontare qualcosa che non fosse già visto. Spero di esserci riuscito.

Una tavola da 16

16 è un graphic novel decisamente crudo, diretto, ambientato nel lato oscuro della perversione umana, quello degli snuff movie. Come è nata l’idea per il racconto?
Invito sempre i miei allievi a ispirarsi alla realtà. Non per scrivere necessariamente storie realistiche, ma per inseguire la credibilità di un’idea. Gli spunti migliori, anche quelli che hanno generato le storie più fantascientifiche, sono radicati nella realtà che circonda l’autore. Philip Dick coi suoi androidi che sognano pecore elettriche ha raccontato dell’identità dell’individuo: che cosa rende una persona “vera”, il suo aspetto o i suoi ricordi? La realtà a cui io mi sono ispirato è qualcosa di terribile che esiste da sempre (il voyeurismo verso la sofferenza e la morte altrui è stato sdoganato alla massa dai tempi dei gladiatori) ma che ora come ora è talmente alla portata di tutti, grazie a quel monitor da 12 pollici che è diventato il nostro lavoro e la nostra vita, che la domanda che mi sono posto è stata: qual è la differenza tra il mondo on line e il mondo reale? Cosa succede quando si spezza il confine tra questi due mondi paralleli? Più prosaicamente: quanto una persona è disposta ad assistere alla violenza su un’altra persona in un video e quanto lo sopporterebbe dal vero? Siamo talmente abituati non solo a fruire di immagini di ogni tipo ma ad avere una tale facilità di accesso a qualunque immagine stando col culo comodamente piantato su una sedia che mi chiedo cosa succederebbe se dovessimo alzarlo, quel culo, e andare di persona ad assistere a uno stupro o a una decapitazione. Questo è il tema. Per raccontare una storia però dovevo trovare il modo migliore per far alzare il culo del mio protagonista dal pc. L’ispirazione è venuta da un film che pochi conoscono, “Hardcore” di Paul Schrader, una pellicola del ’79 che racconta la discesa negli abissi di un padre bigotto che scopre che sua figlia è finita in un brutto giro di produttori di film a luci rosse e vuole ritrovarla. Anche il mio “eroe” scopre una cosa simile, ma lo fa surfando l’oceano del deep web e, al contrario del padre cristiano di Schrader, è un pornografo incallito e senza speranza. Che effetto fa a uno così vedere sua figlia in un contesto che quotidianamente lo appaga? La mia storia poi prende una deriva totalmente diversa e traghetta il protagonista verso un finale, spero, inaspettato.

Trovi affascinante esplorare gli abissi della mente umana, le distorsioni della morale, il mostro che è sopito in noi? Perché, che funzione ha per te?
Sì, è molto affascinante il nostro lato oscuro. In parte perché tutti ne abbiamo uno, piccolo o grande che sia, in parte perché, banalmente, è più interessante raccontare qualcosa che di solito si tende a nascondere piuttosto che qualcosa che è costantemente alla luce del sole. Vogliamo davvero leggere la storia di un tizio che sorride a tutti e fa bene il suo lavoro oppure vogliamo scoprire cosa nasconde nella cantina sotto casa? Che siano organi perfettamente conservati sotto spirito o la prima annata completa del Corrierino dei Piccoli, ci interessa di più l’intimo della superficie. E, a livello più pratico, una storia non può procedere senza conflitto: il mostro interiore di un personaggio è un ottimo ostacolo alla sua realizzazione come protagonista, che si tratti di liberarsi di un trauma infantile per essere un buon marito o, al contrario, di uno scrupolo per diventare il serial killer che non è mai riuscito ad essere.

Come ti sei documentato per 16?
Suonerà strano, ma non sono un gran fruitore di pornografia on line… So tante cose, mettiamola così, e sono arrivato alla conclusione che, ahimè, qualunque perversione tu possa immaginare esiste ed è stata filmata. In questo caso, paradossalmente, non serve documentarsi. Considerando poi che “16” di fatto non è un fumetto pornografico, ma un fumetto che tratta l’argomento, anche i disegnatori non hanno dovuto passare intere giornate su pornhub. Ho sempre cercato di suggerire, mai di mostrare esplicitamente.

A cosa è dovuto il cambio di disegnatore a metà storia?
Proprio al fatto che in una scena ho suggerito troppo! A metà racconto mi serviva qualcosa di veramente shockante e inaccettabile, qualcosa che segnasse una linea di demarcazione nel percorso del protagonista. Oltrepassare quella linea significava arrivare dritti al finale. Così ho scritto quella scena, e io stesso mi sono sentito male mentre lo facevo. La stessa reazione l’ha avuta Marco Patrucco che stava disegnando l’intera storia e mi ha chiesto gentilmente non di toglierla, ma almeno di farla disegnare a qualcun altro. E così abbiamo reclutato Stefania Caretta. Per dare però solidità e senso al cambio di stile, lei ha realizzato l’intero capitolo in cui è inserita la famigerata scena, un capitolo tra l’altro ambientato in un paese diverso rispetto al resto della storia. Siamo tutte e tre molto soddisfatti della scelta.

Una tavola di Dampyr.

16 mi ha ricordato, pur se a servizio di una struttura più avventurosa, un vecchio fumetto di Diego Cajelli e Andrea “Officina Infernale” Mozzato, Video Inferno, e viene facile accostarlo al Psychopathia sexualis di Miguel Angel Martin. Conosci queste due opere?
Eccome se le conosco! Cajelli è stato il mio insegnante di sceneggiatura alla Scuola del Fumetto di Milano proprio quando stava per dare alla luce “Video Inferno”, Andrea Mozzato è uno degli artisti che stimo di più, e il caso “Psychopathia Sexualis” fu fonte di vivacissimo dibattito ai tempi. La polizia che sequestra un fumetto indipendente ritenuto troppo osceno non poteva che appassionare il giovane cuore di un me ventenne che muoveva i primi passi nel mondo degli adulti.

16 stato pubblicato da Edizioni Inkiostro, da te definito come “uno dei pochi editori in Italia ancora capace di osare”. Qual è, secondo te, lo stato attuale dell’editoria fumettistica italiana?
In parte ho già risposto all’inizio. A livello artistico mi piace l’editoria fumettistica italiana ora come ora. C’è spazio per molte realtà diversissime tra loro. È una situazione stimolante, sia come lettore che come autore. Con Edizioni Inkiostro è stato un colpo di fulmine, perché davvero una storia come quella raccontata in “16” non avrei potuto realizzarla con nessun altro. In questo senso Rossano Piccioni e Stefano Fantelli, i due boss di Ed Ink, osano come pochi. Poi, naturalmente, mai andrei a proporre loro un remake di Dumbo.

Quali progetti hai in cantiere? Tornerai a lavorare su nuovi fumetti ideati da te?
Ho vari progetti in cantiere. La mia collaborazione con Edizioni Inkiostro non si fermerà qui, sto ragionando su un nuovo graphic novel e, se tutto va bene, magari ci sarà spazio anche per un sequel di 16. E, ciliegiona sulla torta, in futuro è previsto un Cannibal Family Book con John McCrea (sì, anch’io ho dovuto rileggere un paio di volte il nome…) scritto da me.
Da tempo, poi, sto elaborando dei progetti con degli amici disegnatori che prima o poi vedranno la luce. Si tratta di cose abbastanza sperimentali per le quali, non chiedermi perché, siamo sicuri che troveremo editori interessati! Mi sto anche confrontando per la prima volta, professionalmente parlando, con la prosa. Sto insomma scrivendo un romanzo breve che potrebbe anche vedere la luce. So che sono piuttosto criptico ma conosci bene il valore della scaramanzia e del silenzio stampa in questi casi…
Una cosa però la posso dire: i primi del 2018 uscirà una mia storia per Nathan Never sulla serie regolare, che mi sono divertito un sacco a scrivere. È la sceneggiatura più action che abbia mai realizzato.

Intervista realizzata via mail ad Aprile 2017

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