Jeff Hautat e David Prudhomme, compagni di banco alla Scuola del fumetto ad Angouleme, tornano a fare squadra, otto anni dopo Port Nawak. Questa volta non raccontano l’umanità di fronte alla fine del mondo, ma il singolo individuo di fronte alla fine di una storia d’amore: tuttavia per Flip, il protagonista, non c’è alcuna differenza.
Il lungo viaggio che ne consegue, alla ricerca di un’identità, da metafora si fa reale dando vita a un road novel esistenziale, a tratti lisergico, la cui inerzia muove da premesse di disperata indolenza.
Flip ha infatti perso l’amore con cui dava il senso a una vita altrimenti priva di prospettive, scandita dalla routine della fabbrica di chiavette apriscatole presso cui lavora. Lasciato da Patricia, finge il suicidio e inizia a vagabondare per le strade dell’Ardèche in compagnia di uno stralunato suonatore di djambé.
Il giovane operaio si trascina triste, sottile comeun’ombra, e come tale viene disegnato: una figura nera senza altro dettaglio somatico oltre agli occhi, i quali, come i profili, si deformano a seconda delle emozioni e delle contingenze: “broie de noir” si dice in Francia di chi è triste e malinconico.
Vivo e morto è dunque tanto una condizione dello spirito, quanto uno status sociale generato da una menzogna, eppure il protagonista arriva a convincersene al tal punto da confondere la realtà con una versione distorta del Aldilà.
Alla vicenda personale si intreccia la lotta di classe dei colleghi di lavoro, furibondi contro la decisione della dirigenza di chiudere una fabbrica da ormai troppo tempo in perdita.
Surreale e reale si uniscono in un intreccio semplice che fonde il proletariato raccontato da Etienne Davodeau con un certo sadismo kafkiano riconoscibile nel Martin Scorsese di Afterhours, o, se si preferisce, nel Tiziano Sclavi di Dopo Mezzanotte.
Interessante è la parte più introspettiva del racconto, quella che esplora i delirio paranoico-depressivi di Flip, dove ogni situazione, incontro e paesaggio sembra amplificare il suo stato d’animo, marcatamente in contrasto con l’irritante esuberanza del suo compagno di viaggio.
Sono meno riuscite, più stereotipate, le pagine che raccontano la protesta armata degli operai, la quale rapidamente si evolve in un emblematico e sfrenato edonismo: momenti funzionali per la risoluzione della vicenda, per amplificare il senso di esclusione e inadeguatezza del protagonista, ma eccessivamente caricati, al limite di un grottesco che penalizza l’empatia.
L’aspetto più stimolante, ma anche più complesso, è quello visivo.
Lo stile è indubbiamente ostico, per nulla rassicurante, difficile da assimilare.
Ma superate le epidermiche perplessità, ogni tavola diventa un puzzle di espedienti grafici che coraggiosamente insiste divertita sull’alternanza di significati tra le sue unità interne: l’impaginazione è densa, talvolta persino su ventiquattro vignette per sei righe e quattro colonne, tutte separate da millimetrici spazi neri a comporre, nella somma, porzioni di tavola o intere splash-page.
Il tratteggio è fitto, la caratterizzazione dei personaggi volutamente scomposta e caricaturale, le linee di tangenza sono sfruttate con un preciso obiettivo straniante. I baloon si sovrappongono intenzionalmente ai volti, talvolta le didascalie spiazzano con improbabili cesure nelle naturali unità sintattiche.
Oblomov Edizioni confeziona con cura un prodotto editoriale che strizza l’occhio ai contenuti: un foglio in acetato davanti al frontespizio e la quarta di copertina che con una semplice ma divertente trovata tipografica valorizza il momento topico nel percorso di Flip verso la ritrovata serenità. Azzeccata e coerente con l’estetica di Prudhomme è stata la scelta del brossurato ruvido di copertina.
Non è un’opera facile Vivo e morto, più per il ”come” che per il ”cosa”. Il protagonista è irrimediabilmente disperato, ma il suo dolore viene maneggiato da Jeff Hautat con cinismo, sadicamente esposto al sarcasmo dei fatti, sospeso fra il tragico e il patetico, smorzato da un’ironia spietata e sottile.
La messa in scena di Prudhomme è ardita, non concede quasi nulla al realismo, riuscendo comunque a rendere palpabile la vertigine delle strade del Massif Central, l’angoscia delle sue notti senza luci, la variegata follia di servi e padroni.
E non basta, alla fine, quell’unico sorriso di Flip a rassicurarci.
Abbiamo parlato di:
Vivo e morto
di Jeff Hautat e David Prudhomme
Traduzione di Ornella Tajani
Oblomov Edizioni, ottobre 2017
80 pagine, brossurato, colori – 19,00 €
ISBN: 9788885621008