Una rilettura sociopolitica di “Transmetropolitan”

Una rilettura sociopolitica di “Transmetropolitan”

“Transmetropolitan” tra il suo futuro e il nostro presente: a distanza di 23 anni, come appare agli occhi di oggi la serie di Warren Ellis e Darick Robertson?

Transmetropolitan_1Nel 1997 usciva negli Stati Uniti, sotto l’etichetta Vertigo della DC Comics, una serie anticonvenzionale, politicamente scorretta e carica di cinismo.
Non un approccio completamente inedito in quella sottosezione editoriale, creata proprio per ospitare titoli meno mainstream (almeno inizialmente e/o sulla carta) o comunque distanti dalle atmosfere supereroistiche tipiche nella produzione della casa editrice di Superman e Batman.
Ma Transmetropolitan aveva un che di militante e sovversivo che la distingueva, la faceva spiccare e le dava un’identità molto forte.

Warren Ellis, spalleggiato dal disegnatore Darick Robertson, aveva avuto questa idea di un cronista d’assalto – dal roboante nome di Spider Jerusalem – alla perenne ricerca della verità in un’America del futuro, marcia fino al midollo e anestetizzata (quando non pervertita) dai continui stimoli dell’avanzamento tecnologico. Due concept quasi indipendenti che, uniti, hanno portato a un prodotto iconoclasta, irriverente e, in alcuni passaggi, perfino in grado di turbare il lettore.

È sempre interessante, nelle opere di anticipazione, confrontare quanto in esse ipotizzato con la realtà dei fatti, e anche se Transmetropolitan non ha un’esatta collocazione temporale – potrebbe anche essere ambientata fra 100 anni da oggi – i tempi potrebbero essere maturi per fare delle riflessioni a posteriori sugli argomenti posti in essere dal fumetto, sul modo in cui sono stati visualizzati e sui paralleli tra quel futuro e il nostro presente.
Un’analisi che ci permette, tra l’altro, di notare come il titolo abbia superato la prova del tempo e non risulti invecchiato: nonostante non tutto quello immaginato dai due autori sia altrettanto plausibile oggi come poteva esserlo venticinque anni fa, alla luce delle strade effettivamente prese dal progresso, il cuore pulsante dei temi trattati rimane vivo, vitale e quantomai attuale.

Televisione, intrattenimento e flussi di notizie

I mezzi di comunicazione sono un elemento importante in una serie basata sul giornalismo. Nel futuro immaginato da Ellis la televisione esiste ancora, pur con alcune migliorie nella scelta dei canali e nella loro modalità di fruizione, così come i quotidiani cartacei.
Le strade sono tappezzate di monitor, sia come maxi-schermi sulle facciate degli edifici sia incastonati nelle mattonelle dei marciapiedi.

La vera novità è rappresentata dall’AM Flusso, una sorta di pseudo-internet a cui si appoggiano testate ed emittenti televisive ma utilizzabile autonomamente da chiunque abbia i mezzi per trasmetterci sopra.
Su di esso transita la maggior parte delle notizie, quindi, che possono arrivare al destinatario tramite computer più o meno simili ai nostri, appositi device e speciali sostanze in grado di sparare le informazioni direttamente al cervello.

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Lo sceneggiatore presenta un insieme di media condiscendenti e anestetizzanti, che nella vastissima pluralità di scelta si concentrano più che altro su intrattenimento di basso livello, contenuti volgari e notizie di trascurabile importanza, evitando da una parte di trattare elementi più seri e dall’altra addormentando le coscienze e il cervello delle persone.
Sotto a questo disegno si celano direttive dall’alto, ingerenze politiche di chi ha tutto l’interesse a far sì che gli elettori non si interessino a determinati argomenti.
Un modo di agire tutt’altro che fantascientifico, considerando che la Storia – anche recente e anche di “casa nostra” – ci ha mostrato che rappresenta una mossa vincente distogliere l’attenzione della massa, abbagliandola con paillettes e lustrini. Attraverso un forte controllo sulla televisione (e quindi su quali contenuti veicolare e su quali giornalisti vi possono apparire) o un uso sapiente e spietato dei social network, terra della frivolezza per eccellenza, non dobbiamo andare troppo indietro con i ricordi per verificare quanto questa strategia politica sia perpetuata ed efficace.
Governanti di questo tipo sarebbero i nemici naturali del protagonista di Transmetropolitan, per lo spregio con cui trattano la verità e l’uso capzioso che ne fanno, strettamente a loro uso e consumo, fregandosene delle drammatiche conseguenze culturali a medio e lungo termine.

Ma è soprattutto il comportamento della gente che scatena le invettive più dure.
La popolazione della Città – metropoli senza nome, ma centrale nella società degli interi States – è rappresentata come una massa informe di individui privi di discernimento e incapace di gestire il flusso di informazioni che arriva loro.
La gente, che rappresenta il pubblico a cui Spider vuole rivolgersi, è in realtà raffigurata come il peggior nemico di sé stessa e l’artefice della propria rovina. In una sorta di rapporto di amore/odio, il giornalista vuole donare loro quello che ritiene più prezioso al mondo – la verità – e nel contempo è frustrato dall’uso che ne fanno i cittadini e dall’indifferenza dentro cui si crogiolano, preferendo annullarsi nel flusso di vacuità proposto a getto continuo o abboccando alle falsità propagandate.

Non è uno scenario molto dissimile dalla realtà, negli anni Novanta come oggi, con l’aggravante che la maggior diffusione e varietà dei mezzi di informazione rende ancora più difficile farne buon uso.
Se Spider Jerusalem fosse qui sputerebbe sopra i social network e il web 2.0, bestemmierebbe per ogni fake news e maledirebbe la lobotomia generale a cui chiunque sembra essersi volontariamente sottoposto, consegnando le proprie vite a politici vili e incapaci e a multinazionali che spiano i nostri gusti 24 ore su 24.

La nuova feccia

Con questo termine nel fumetto si allude alla parte più vasta della popolazione, quella che si incontra quotidianamente per le strade (e che in alcuni casi ci vive), che appartiene alla fascia media o a quella sotto la soglia di povertà. Un insieme di individui decisamente vario e poliedrico, che il protagonista cerca di aiutare con il proprio lavoro ma che fondamentalmente appare anestetizzato dalla tecnologia o dai propri vizi.

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L’umanità del futuro secondo Warren Ellis ha ereditato in toto i difetti e la grettezza che le sono propri da sempre e addirittura si è impegnata e trovarne anche forme inedite adattandole alla nuova società immaginata.
Gli sviluppi tecnologici non sono serviti principalmente per usi positivi, quanto piuttosto per abbruttirsi ulteriormente: miriadi di nuovi tipi di droghe sintetiche per stordirsi e rovinarsi, intrattenimento becero e grossolano che azzera il cervello, porno e sessualità sbattuti in faccia con facilità, razzismo e intolleranza verso chi è diverso.

Ci sono alcuni momenti, ben dosati, in cui Spider prova pietà per gli esponenti più deboli della nuova feccia, vittime di un sistema malato e individualista, che vengono relegati ai margini della società e di cui nessuno si cura. Il reporter racconta le storie dei singoli individui e della loro caduta e lo fa con un trasporto pari alla sua furia quando si rivolge invece a politici, faccendieri, stupratori, assassini o semplici indifferenti che vedono tutto questo ma passano oltre, fregandosene.
Le sue invettive non risparmiano nessuno di costoro: la sua visione del giornalismo è quella di fondamentale pilastro della società, indispensabile dito puntato contro i colpevoli del degrado che, al riparo dalla giustizia o impermeabili alla morale, possono avere solo editoriali infuocati come nemico.

Nel mondo attuale e reale, cosa direbbe il prode reporter dai mille tatuaggi? Non ci sono le stesse problematiche ideate da Ellis, ma ne esistono altre e portano in ogni caso alle stesse, drammatiche conclusioni: una piccola fetta di popolazione molto ricca e una vasta fascia di poveri e poverissimi. In mezzo, quella che un tempo si sarebbe chiamata “media borghesia” ma che ora sono semplicemente “quelli che stanno in mezzo”. Non indigenti ma nemmeno lontanamente benestanti, non vedono mai chi sta peggio di loro perché loro si sentono già vittime del sistema.
Sono spaventati, diffidenti, incazzati: verso chi governa, verso chi sta meglio ma anche verso chi sta molto peggio, reo di ricordar loro cosa potrebbe riservargli il futuro. La nuova feccia, appunto, che combatte una guerra tra poveri costante e cinica, ingaggiata sui social a colpi di tastiera, indifferente alle macro e sovrastrutture, senza ideologia alcuna se non di facciata e impegnata semplicemente a sopravvivere un giorno di più senza avere qualcosa di meno rispetto al giorno precedente.
A questi individui non interessa la verità: non è un caso che le fake news siano proliferate con tanta e tale diffusione. A questi individui non interessano gli altri e nemmeno sapere quello che accade troppo lontano da loro.

Questi individui hanno preoccupazioni sacrosante, ma esperite in maniera fortemente soggettivistica e non vogliono ascoltare nessuna campana opposta: Spider Jerusalem li odierebbe e infamerebbe con le parole più insultanti di sua conoscenza… ne inventerebbe persino di nuove, per l’occasione. Ma proverebbe comunque a salvarli, prima da sé stessi e poi da chi ha contribuito ad abbruttirli in questo modo, incoraggiando la parte più selvaggia dell’essere umano.

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Evoluzione tecnologica e autodeterminazione della propria identità

Un aspetto interessante mostrato in Transmetropolitan è l’uso della tecnologia in relazione alle problematiche dell’identità di genere. Per quanto il tema fosse già presente negli anni Novanta, non aveva ancora la caratura, la risonanza e le tante sfaccettature che avrebbe assunto nei decenni successivi, ma lo sceneggiatore è stato lungimirante e ha correttamente ipotizzato che la società del futuro avrebbe visto come centrale l’autodeterminazione di sé.
Ma mentre nella nostra realtà questo riguarda sostanzialmente l’identità sessuale, la fantasia dello sceneggiatore ha ampliato il concetto.

In un contesto in cui si possono immaginare tecnologie di qualunque tipo, non c’è freno a quello che si può fare al proprio corpo e ottenere da esso, seguendo quello che uno sente dentro.

È il caso dei transitori, che conosciamo fin dai primissimi episodi della serie, che fondono il proprio DNA con quello di una razza aliena con cui si sentono particolarmente affini e in comunione. Un’operazione non proprio facile e che trasforma il corpo in una via di mezzo tra l’umano e l’alieno, e che assume anche i contorni di una specie di religione.
Un’altra corrente interessante è quella dei buddhisti progaiani, persone che si fanno innestare diverse parti tecnologiche su di sé, come nel caso del fidanzato della prima assistente di Spider. È sempre lui peraltro a fare un passo ulteriore, decidendo di diventare un foglet sottoponendosi al download, pratica assolutamente peculiare che prevede la polverizzazione del proprio corpo portandolo a una dimensione impalpabile e simile a quella delle nuvole, pur mantenendo una sorta di coscienza di sé anche senza un involucro unitario e solido che possa ospitarla.

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Oltre a questi esempi specifici ci sono altre pratiche del genere che vengono mostrate nel corso del fumetto, magari solo accennate. Sull’argomento il protagonista è inaspettatamente tollerante e aperto: non manca di approfondire in prima persona per scoprire se sotto le belle parole di libertà e autoaffermazione non ci sia per caso qualcuno con doppi fini, pronto ad approfittarsi di qualche poveraccio suggestionabile, ma al di là di questo trova abbastanza onesto che chiunque possa scegliere cosa e come essere, avendone le possibilità tecnologiche.

In ogni caso, sottilmente, la serie pone comunque qualche interrogativo al lettore, in particolare su fino a quando un essere umano può definirsi tale, se si vanno via via a ridurre gli elementi che lo rendono tale. Fino a quando si possono togliere o modificare “pezzi” e continuare a definirsi uomo o donna? Cosa rende umani? Domande affascinanti e vagamente inquietanti, che ovviamente non trovano risposta nel fumetto ma che stimolano riflessioni di stampo filosofico ed etico nel lettore, in un contesto come quello di fine millennio in cui sembrava che la scienza avrebbe presto permesso cose fino ad allora impensabili, con il relativo bisogno di capire se servisse anche un insieme di norme morali per porre dei confini a queste infinite possibilità.

Strettamente connesso a queste considerazioni è infine l’episodio sulla conservazione criogenica: nel mondo di Transmetropolitan ci sono centri in cui vengono conservate le persone che negli anni precedenti avevano scelto di bloccare il proprio ciclo vitale per farsi risvegliare in un determinato momento del futuro.
Se questo concetto non sembra particolarmente originale, lo sono le conseguenze mostrate da Ellis: i “risvegliati” vengono a trovarsi in situazioni disagiate, in un mondo che non li vuole e non li riconosce, che li ha dimenticati. Infatti, vengono stipati in lugubri strutture e di fatto ghettizzati, con scarse possibilità di trovare lavoro o di instaurare relazioni con persone con cui non condividono nulla.
A questo si aggiunge, per costoro, lo spaesamento nel non riconoscere una società diversa da quella ricordata, in cui tutto è cambiato ed è andato avanti senza che loro abbiano potuto seguire passo a passo le varie evoluzioni accadute.

La sommatoria di queste situazioni porta quindi la maggior parte dei “risvegliati” a condurre una seconda vita triste, fredda e senza speranza, ignorati da tutti se non addirittura odiati, e la promessa insita in quel programma si rivela essere una dannazione senza scampo.
Spider racconta la storia di una di loro e lo fa con un trasporto e una compassione tali da costituire alcune tra le pagine migliori di tutta la serie. Non dimenticando ovviamente di dispensare colpe e invettive non solo a chi ha permesso questo progetto, ma anche ai suoi contemporanei che onorano i contratti stipulati con queste persone, ridestandole come da programma, ma di fatto disinteressandosene immediatamente, non considerandoli neanche alla stregua di persone.

Noi oggi non abbiamo nulla di simile a questo, ma si può fare un parallelo a livello generale con tutti gli emarginati, masticati e risputati dalla società che è subito pronta a rinnegarli, a dimenticarli e a riconoscere solo le loro colpe per essere finiti in quella situazione, lavandosene le mani e tutelando così solo la parte di popolazione che ce l’ha fatta.

 

La Bestia e il Sorridente

L’aspetto strettamente politico è quello centrale in Transmetropolitan, almeno dal quarto volume in poi, quando si avvicinano le elezioni presidenziali americane e Spider Jerusalem viene obbligato dal suo redattore capo a seguirle.

L’attuale presidente, soprannominato la Bestia, è il simbolo di tutto quello che il giornalista odia: laido, duro, indifferente, il rappresentante distorto dei valori americani del successo. Il protagonista gli aveva mosso contro una spietata campagna stampa, quattro anni prima, senza ottenere i risultati sperati, e ora vuole provare a evitare che la storia si ripeta.

Transmetropolitan_17Ma prima deve conoscere chi è l’avversario politico di questa nuova tornata, il cosiddetto Sorridente.

È con quest’ultimo che Warren Ellis crea la maschera perfetta: inizialmente presentato come l’uomo nuovo, rassicurante ed equilibrato, si rivela molto presto come una persona insidiosa e ben poco degna di fiducia. Addirittura peggiore della Bestia, perché come sentenzia lo stesso Spider, lui era il nemico che si conosceva, che usava le vecchie armi e che quindi era più facile almeno arginare, se non fermare. Il male minore.

Ma nonostante la marcia indietro di Jerusalem e un suo editoriale di fuoco in cui rivela che c’è del marcio nel nuovo candidato, la maggioranza si fa irretire da quanto vede e sente nella campagna politica imbastita dall’ufficio stampa del Sorridente, e soprattutto si commuove quando una donna membro del suo staff viene uccisa da un anonimo cecchino.

Sarebbe riduttivo inquadrare il Sorridente come un pazzo, nonostante un memorabile confronto tra lui e Spider ce lo mostri con evidenti segni di squilibrio mentale e di violenza repressa.
Sempre in quel passaggio, quando afferma che vuole essere presidente solo per il gusto di esserlo e per poter disporre a proprio piacimento degli americani, non si deve vedere semplicemente il contorto pensiero di uno svitato (o di un “cattivo da fumetto”, per citare l’Ozymandias di Watchmen), bensì i prodromi di una classe politica poco interessata ad essere in sintonia con gli elettori, se non come facciata. Una realtà assolutamente attuale e concreta, come vediamo in varie parti del mondo: in Francia, in Inghilterra, negli stessi USA e in Italia, ovviamente.

Il Sorridente è il politico di cui non abbiamo bisogno ma che ci meritiamo, parafrasando una frase fatta. Perché votiamo di pancia, pensando a noi stessi e a null’altro, perché non guardiamo al di là del nostro orticello, perché ci piace immedesimarci negli altri e preferiamo eleggere chi sembra “uno di noi” invece di chi mostra di voler essere migliore, non per arroganza ma per assolvere meglio a un compito complesso come quello di governare una comunità.
Tant’è vero che condurre una campagna elettorale su questo aspetto rappresenta ormai una mossa perdente, rischiando di allontanare le simpatie della gente. E quando invece qualcuno cerca di premere quel tasto, parlando alla testa dell’elettorato, lo fa nel modo più sbagliato, ostentando invece che proponendo, apparendo supponente invece che vicino ai problemi delle persone e, di fatto, non affrontando più i fattori terra-terra che rimangono però quelli concreti e importanti.
Con il risultato che chi invece ci punta forte sono coloro che offrono soluzioni semplici e immediate, quelle che a una breve analisi risulterebbero subito inefficaci almeno sul lungo termine ma che sono talmente “popolari” da affascinare e soprattutto da essere comprensibili da chiunque.

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La cifra che va per la maggiore è quella del politico senza scrupoli.
Il Sorridente ne è un emblema perfetto: non ha remore, non ha rimorsi, non ha freni. Nessuna morale o etica, nemmeno la più elementare, si frappone tra lui e i suoi obiettivi. Il potere per il potere è il suo credo, gli serve per autodefinirsi e per darsi un senso. Non è nemmeno una spirale crescente di odio e cattiveria che aumenta esponenzialmente fino a che ci si è troppo dentro per uscirne: è semplicemente la follia – sempre lucida e determinata – che guida il nuovo presidente fin dal principio.

Una creatura strana, molto più ambigua e pericolosa della Bestia, a cui Spider infligge qualche colpo ogni tanto ma che il più delle volte soccombe sotto alcune bordate che lo colgono alla sprovvista, sottovalutando le bassezze di cui è capace il presidente per contrastare il suo lavoro e per difendere la propria posizione.
In quella che appare, numero dopo numero, come una sorta di distopia per i contorni sempre più oppressivi e da “regime” che assume la sua presidenza, il Sorridente cerca di rimanere in sella restringendo la libertà di stampa, tramutando in criminale Spider e le sue due assistenti e andando a circoscrivere alcuni diritti civili, arrivando a usare anche l’esercito armato di tutto punto per fronteggiare rivolte e disordini nella Città.

Indubbiamente a un certo punto Ellis si è fatto prendere la mano con l’escalation che ha voluto mettere in scena, ma le reazioni della stampa nel complesso e di una risvegliata coscienza da parte di alcune sacche di popolazione vengono descritte in maniera credibile in quel contesto oppressivo.
Alla fine l’unica cosa che riesce a fronteggiare un abuso di potere di questo tipo, per l’autore, è proprio il potere dell’informazione. O, se preferite, la verità, arma tanto letale quanto difficile da maneggiare nella maniera più efficace.

Transmetropolitan_18Tra le lezioni che Transmetropolitan ci lascia c’è quella di non sottovalutare le capacità che il buon giornalismo possiede per fare la sua parte nella società e quelle dei destinatari delle notizie. I lettori o spettatori che siano devono mettere a frutto questo sistema, fruendo delle informazioni devono essere in grado di capirle, decodificarle e contestualizzarle, usandole come primo passo per affinare gli strumenti critici con cui interpretare la realtà che li circonda.
I giornalisti dal loro canto hanno il dovere di comunicare nel modo più sincero e completo i fatti del mondo, informando e allo stesso tempo stimolando riflessioni e considerazioni critiche da parte dell’audience.

La prosa di Spider Jerusalem è, per usare un eufemismo, particolarmente forte: il suo stile è quanto di più diretto possiate immaginare, crudo e spesso volutamente respingente. La scelta di Warren Ellis al riguardo verteva probabilmente a presentare un personaggio urticante nei modi così da poter urlare in faccia la propria verità, provando a svegliare le coscienze obnubilate dei propri compatrioti.
Nel dibattito culturale attuale una voce volgare e rabbiosa non troverebbe il medesimo risalto, perdendosi nei rivoli di un linguaggio dai toni sempre più accesi.
Ma passando al setaccio la figura del reporter resta il giornalismo nel senso più puro, inteso come una missione e come un mezzo per aprire gli occhi alla gente.
Un menestrello incazzato nero che canta della nostra imminente rovina, ci prende a schiaffi e ci chiede cosa intendiamo fare della nostra vita e con quello che ci sta succedendo attorno.

Il giornalismo dovrebbe consegnarci la cassetta degli attrezzi per osservare il mondo in maniera informata e competente, così da non dover subire l’ennesima trappola orchestrata da chi si crede più furbo. Non sempre è così, e non sempre le persone riescono a farne buon uso, ma occorre impegnarsi perché la cultura dell’informazione e della verità potrebbe davvero essere quella in grado di salvarci.

 

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