Nei giorni scorsi una stima iniziale del debutto al box office del prossimo Spider-Man: Homecoming indicava che il nuovo film sull’arrampicamuri esordirà con un incasso nel primo weekend tra i 90 e i 100 milioni di dollari. Una cifra ottima, ma lontana dai fasti del primo Spider-Man diretto da Sam Raimi. A 17 anni dal suo esordio cinematografico, l’arrampicamuri detiene certamente ancora un forte appeal tra il pubblico di appassionati e non, ma è lecito domandarsi se i vari reboot del personaggio sul grande schermo (a così poca distanza l’uno dall’altro) non ne abbiano in qualche modo intaccato il fascino, anche per via di alcune decisioni narrative prese recentemente da Sony e Marvel nel caratterizzarlo.
Nel 2002, l’uscita nelle sale del primo film di Spider-Man per il grande schermo fu un vero e proprio evento. La Sony alcuni anni prima era uscita vittoriosa da una battaglia legale che si era trascinata per lungo tempo, posticipando sempre più una incarnazione cinematografica dell’alter ego di Peter Parker. Ma quando la pellicola diretta da Sam Raimi uscì nelle sale, era chiaro che la major aveva imboccato una giusta direzione non solo grazie a un cast perfetto, ma anche alla gestione del regista, la cui cultura fumettistica in materia era decisamente insindacabile.
La particolarità della trilogia di Raimi – ancora oggi riconosciuta nel complesso come una tra le migliori su un personaggio tratto dai fumetti (nonostante alcune debolezze del terzo capitolo) – era il riuscire a sfruttare appieno la forza che l’arrampicamuri aveva nella cultura popolare, riuscendo a renderlo un personaggio fortemente riconoscibile e allo stesso tempo dotandolo di una potente visione cinematografica capace di colpire il pubblico grazie a sequenze indimenticabili.
Non è un caso se, ad esempio, Spider-Man 2 sia ancora oggi un fulgido esempio di sequenze da antologia: la nascita in stile horror del Dottor Octopus, la mirabolante sequenza del treno, la scena omaggio di Raimi a una storica tavola di John Romita Sr. sono la dimostrazione di come quell’arrampicamuri sapesse sfruttare la forza delle pagine a fumetti riportandone la stessa iconicità sul grande schermo. Un qualcosa che, a distanza di anni, non è più stato ripetuto.
Dopo la fine della trilogia che vide protagonista Tobey Maguire, la scelta di un nuovo reboot fu immediata e soprattutto spiazzante. Mandato in soffitta il progetto di uno Spider-Man 4 con lo stesso cast e lo stesso regista, la Sony decise di puntare a rilanciare il personaggio, scegliendo un nuovo interprete e un nuovo regista, e realizzando un buon film che però mancava di quel fascino e quella visione che avevano caratterizzato la trilogia storica. Al di là della ovvia alchimia tra Andrew Garfield ed Emma Stone, la debolezza del nuovo Uomo Ragno stava nell’essere un film senza una identità e uno stile registico preciso o inconfondibile, e senza la presenza di sequenze capaci di rimanere impresse nella mente del pubblico a distanza di anni.
La scelta di Marc Webb, che aveva appena raggiunto il successo grazie alla commedia romantica 500 giorni insieme, a dispetto di un regista con più personalità come David Fincher è stata sempre motivata fin dall’inizio sul fatto che il primo avesse dimostrato di riuscire a catturare i rapporti umani, cosa che poteva assumere una connotazione più forte se trasferita in un film con un personaggio adolescente. Da questo punto di vista è innegabile che Webb fosse certamente capace di questo, ma era altresì evidente che il regista non aveva un quadro generale su cui appoggiarsi.
Un esempio in tal senso è stata la decisione di includere all’interno della “mancata” nuova trilogia una sottotrama inerente il padre di Peter Parker; un segreto inconfessabile e da alimentare nelle pellicole successive che però sembrava sottolineare la sensazione che i produttori fossero consci di avere già detto tutto in passato e quindi di dovere in qualche modo tenere desta l’attenzione del pubblico.
La gestione della suddetta sottotrama, in seguito, con la realizzazione di una scena tagliata per Amazing Spider-Man 2 che contraddiceva quanto narrato fino a quel momento, era forse la prova che nemmeno Webb sapeva come districarsi, evidenziando una costruzione della trilogia di capitolo in capitolo, senza un background narrativo che riuscisse a tenere salde le fondamenta.
Il colossale flop di The Amazing Spider-Man 2, su cui abbiamo già ampiamente discusso in passato, è stata una doccia gelata non solo per la major americana, ma anche per gli appassionati e il pubblico. È stato questo forse il primo segnale che un personaggio che fino ad allora aveva richiamato orde di spettatori nelle sale, non era più capace di catalizzare l’attenzione, di generare quell’entusiasmo che aveva avuto nei suoi primi anni. Rientrando (in parte) tra le braccia della Marvel, è lecito aspettarsi qualcosa di più. Ma sarà così, vista l’impronta narrativa che si vuole dare all’arrampicamuri?
Sia l’Uomo Ragno interpretato da Garfield; sia quello di Holland che vedremo a breve al cinema puntano su una versione prettamente adolescenziale di Peter Parker, avendo nel loro obiettivo un certo tipo di pubblico. Come ripetuto dai Marvel Studios, un Peter Parker adolescente non è stato mai esplorato con continuità al cinema prima d’ora, ma si può considerare questo uno sviluppo positivo, o ci troviamo solamente di fronte al non volere osare di più, presentando quella che si può definire come una “non evoluzione” dell’eroe della Casa delle Idee?
Guardando al passato, alle storie a fumetti, è vero che Peter Parker ha avuto una sua adolescenza, ma è anche vero che il personaggio stesso negli anni è cresciuto, laureandosi, trovando un lavoro, sposandosi. Una evoluzione fumettistica che al cinema è stata esplorata solo da Raimi, il quale presentò un Peter adolescente ma alla fine dei suoi giorni liceali, optando in seguito per un personaggio più completo, anche per fare fronte al motto del “supereroe con superproblemi”. Il Peter di Raimi era un personaggio che doveva affrontare gli studi all’università, il lavoro al Bugle, l’affitto sempre in ritardo da pagare, i rapporti con gli amici e quelli sentimentali, senza dimenticare quelli dell’anziana zia May. Era un Peter più completo, capace di guardare a varie fasce di pubblico e di evolversi, senza rimanere intrappolato in uno schema narrativo solo per esigenze di marketing.
Quante di queste possibilità, quanti di questi problemi potrebbe esplorare un Peter Parker definitivamente adolescente per una intera trilogia? Già lo Spider-Man di Garfield esprimeva di per sé un concetto del “supereroe con superproblemi” molto limitato, che sembrava fare fronte a una sola problematica, soprattutto nel secondo film: quella sentimentale. È forse anche questo modo di porsi nei confronti del personaggio ad averne in parte affossato il fascino, qualcosa che già sta accadendo da alcuni anni anche nelle pagine dei fumetti, dove l’arrampicamuri è stato trasformato in una “versione Marvel” di Batman, o peggio, in un Tony Stark di quartiere che non possiede più quelle caratteristiche che possano creare una empatia con il lettore, o nel caso cinematografico, con il pubblico.
Ovviamente ci auguriamo tutti che Spider-Man: Homecoming sia un successo. Ma ci auguriamo e speriamo che l’Uomo Ragno riesca ad uscire da quell’angolo, a ricreare la spinta propulsiva che, per tanti anni, ne ha fatto il personaggio di punta di questo genere di pellicole.