Dopo aver lasciato lo studio di Omar Tuis, con cui abbiamo approfondito il lavoro di letterista nella prima parte dell’intervista, ci siamo recati a casa di Renata Tuis: un piccolo appartamento pieno di libri, fumetti e dei dipinti del marito Sergio. Abbiamo ripreso il discorso sul lettering con Renata, cercando di capire come vede l’evoluzione della sua professione. Il suo racconto dall’alto di una esperienza ormai più che trentennale, è ricco di piccoli aneddoti. L’abbiamo anche osservata eseguire il lettering a mano. Come ci ha detto Omar, sono ancora una buona parte i letteristi che non usano il computer in Bonelli. All’intervista ha partecipato anche Sergio, visto la sua esperienza nel mondo del fumetto e il suo decennale rapporto con la casa editrice.
Benvenuta su Lo Spazio Bianco, Renata. Ci racconta come ha iniziato la sua carriera di letterista?
Renata Tuis (RT): Sono 53 anni che faccio lettering, 35 dei quali in Bonelli. Mi piaceva disegnare, poi quando mi sono fidanzata con mio marito, lui mi ha introdotto al mondo del fumetto. Avevo iniziato a disegnare, mio marito mi propose di fare il lettering: ho provato e mi divertivo molto. Avevo 18 anni: in un mese di agosto mi sono esercitata e il settembre successivo già lavoravo. Mio marito mi ha mostrato esempi americani e altro. L’unica mia sofferenza era dover star ferma: avevo 16 anni quando ci siamo fidanzati e mi piaceva tanto giocare.
Facevo il lettering di tutti i fumetti a mano libera. Per ogni disegnatore usavo uno stile diverso. Mi divertivo. Per esempio per La Pimpa ho fatto un lettering particolare: io la amo questa cagnolina. Altai e Johnson li letteravo io. Invece in Bonelli bisognava avere uno stile preciso perché poi chi correggeva, non poteva impazzire. Così ho perso tanta creatività.
Com’è cambiato il lavoro in Bonelli?
RT: Sta cambiando adesso, prima l’avevo cambiato io. Un tempo il disegnatore faceva il disegno e lasciava un piccolo spazio sopra, dove il letterista doveva scrivere 4 o 5 parole. Io ho fatto i baloon più vicini a chi parla e ho introdotto le etichette che poi venivano incollate alla tavola in modo da non doverla “sbiancare” e non sporcarla. In Francia facevano già ottimi lavori, in Italia sono stata la prima.
Sergio Tuis (ST): Fin dagli anni ’50 leggevo spesso il fumetto francese, Tin Tin, Black e Mortimer (che è un caso a parte perché è molto scritto). Sono di scuola francese e americana (Alex Toth per esempio si faceva il lettering da solo). Renata è diventata brava subito anche perché ha avuto le giuste dritte.
Lei non fa più fumetti?
ST.: Ora no, mi sono stufato. Anni fa avrei preferito fare il pittore ma c’era bisogno di guadagnare: ho lavorato tanto, ma si veniva pagati male. Ho lavorato con Alfredo Castelli per un fumetto, per Martin Mystere con varie sceneggiature. Venivano poi fatte continue modifiche e questo rallentava il lavoro: nella tavola si deve notare prima il disegno e poi il lettering. In confronto Ai cartonati franchi belgi, gli italiani non tengono il confronto.
Renata, ci racconti le fasi della sua crescita.
RT: Parlai con Tiziano Sclavi e gli ho chiesto: “vorrei fare qualcosa di più. Se vengo alla Bonelli, mi dai del lavoro?”. Lui mi rispose: “Se vieni qua, non rifacciamo più il lavoro.” Mi richiamò e mi disse: “Vai in Piazza Napoli da Gianni Bono che inizia a darti del lavoro.”Mi recai lì e mi consegnarono il lavoro in portineria. Poi, le volte successive, Gianni mi mostrava i tanti lavori fatti da me: lui conservava tutti i miei lavori e li riconosceva a vista.
Così sono passata dal Corriere dei Piccoli alla Bonelli, dove Sclavi si lamentava perché i suoi letteristi lavoravano male. Al primo lavoro che ho fatto per lui mi sgridò: “Hai fatto il lavoro male come lo fanno quì” e io ribattei: ” Mi sono documentata”. (ridiamo) Ho rifatto il lavoro alla mia maniera e ho rinnovato il metodo di lavoro: ho avvicinato il balloon al personaggio che parla, nelle contornature completavo il cerchio di quella in primo piano, e attaccando poi attacco subito dietro l’altro cerchio in modo che si capisse che parlava dopo. Questa tecnica è diventata uno standard per gli altri colleghi.
Con Sclavi lavoravo così: lui mi leggeva i testi ed io scrivevo. Mi disse: “Da quando ci sei tu non lavora più nessuno”. Per me era un divertimento.
Lei aveva un rapporto diretto con Sergio Bonelli o con gli autori?
RT: All’inizio c’era Decio Canzio. La signora che faceva le correzioni si era rotta un piede, quindi io facevo il mio lavoro e poi facevo anche le correzioni. Canzio un giorno si avvicina e mi dice: “Signora Tuis se viene Sergio e le chiede di letterare delle pagine di Mister No, gli dica di no.” Arriva Bonelli e mi chiede le pagine: gli ho detto di appoggiarle sulla mia scrivania che nella pausa pranzo le avrei fatte. Poi Canzio mi ha fatto presente che si era accorto che quelle pagine, a Bonelli, gliele avevo fatte. Sembrava che si facessero i dispetti l’uno con l’altro, facevano ridere.
La redazione ha dunque iniziato a seguire la sua impostazione?
RT: Sì, io dovevo dare le indicazioni ai nuovi affinché imparassero il lavoro. Hanno fatto finta di offrirmi il posto all’interno della redazione per poi lasciarmi lavorare a casa, perché lavoravo di più. (risate) Non hanno mai smesso di darmi lavoro e sono considerata una benemerita. Compravo delle enormi bobine di etichette, scrivevo sull’etichetta e l’attaccavo sul disegno. Gianni Bono mi diede delle strisce di ritagli con cui io facevo i balloon, poi la Bonelli ha iniziato a farli arrivare dall’Olanda. Oggi la carta non è più buona perché fa la macchia, allora stendo un leggero strato di bianchetto così rendo impermeabile la carta. Bonelli è stato un editore generoso, è stato un uomo speciale: ogni anni dava un aumento sostanzioso.
Le racconto un aneddoto. Quando ho fatto un lavoro per la Barilla, ho fatto dei libretti con Falcao. Avevano bisogno urgente, ho preso il lavoro sono tornata a casa, ho fatto tutte le tavole, poi ho pulito casa e, con calma, li ho chiamati per dire che il lavoro era finito. Mi hanno dato 800 mila lire per un pomeriggio di lavoro e il commendator Barilla era molto contento. Dopo un anno non avevano ancora finito il lavoro, mi richiamano e mi propongono di fare la copertina. L’ho fatta al volo e ho guadagnato altri soldi. La pubblicità pagava molto bene. Ero a disagio, allora mi dissero: “Signora, Falcao per girare questa pubblicità ha preso 130 milioni di lire. Lei non deve farsi scrupoli per il suo lavoro”. Ho risposto: “Se l’avessi saputo, avrei chiesto molto di più”. (risate)
Amo tanto il mio lavoro. Soffro se passo un giorno senza. Resto in attesa finché non viene fatta la revisione di ogni lavoro, non amo fare le pulizie di casa. Se la mia scrivania resta vuota, io soffro e aspetto.
Come ha vissuto il passaggio al digitale?
RT: Di computer non so nulla, non mi tocca. Anzi anni fa avevo detto che sarebbe stato il caso di passare al digitale, ma avrei dovuto almeno dovuto imparare prima come si accende un computer. (risate)
Cosa si ricorda degli esordi di Omar?
RT: Io non volevo che lui iniziasse a lavorare in Bonelli, gli dicevo: “Finirai per essere tu e il muro di fronte a te”. Lui ha insistito. Quindi sono andata da Gianni Bono e mi sono fatta dare qualche fotocopia di Topolino. Speravo che fosse solo un gioco, che oggi dura da 22 anni. Sono solo contenta che Omar lo faccia perché gli piace farlo. Lo ha chiesto lui, quindi sono contenta per lui.
ST: Non abbiamo mai spinto perché i nostri figli facessero quello che non volevano.
A lei interessa il fumetto? È una lettrice?
Per me i fumetti sono lavoro, amo il mio lavoro e se non ce l’ho mi manca. Non leggo i fumetti, non ho tempo. Quando ero giovane, leggevo solo quelli che erano scritti come dicevo io, altrimenti non li leggevo. Per esempio, se leggevo qualche letterista che aveva la tendenza a piegare la scrittura verso sinistra, mi sembrava di far più fatica a leggere e mi rifiutavo di leggerli. Però non avrei mai pensato che avrei fatto questo lavoro: quando andavo a scuola non disegnavo come tutti, ma ero molto fantasiosa.
ST: La mia attività è comincia a nove anni, quando ho comprato il giornale Salgari del Molino. Mi è piaciuto talmente tanto che ho pensato: “Nella vita mi piacerebbe fare questo mestiere”. Così ho cominciato a disegnare. Quando vivevo a Parigi, mio papà portò me e mio fratello a vedere il Musée del Louvre per mostrarci quanto sono bravi i pittori italiani. Dal 1946 è diventata una malattia di famiglia.
Intervista realizzata a Meda il 04/04/2016