Leggiamo soli ma le stelle brillano su tutti noi
Viviamo in tempi frenetici, per questo ho deciso di aggiungere alla fine di ogni paragrafo un riassunto minimale, per chi non avesse tempo o voglia di leggere tutte queste parole ma volesse comunque farsi un’idea sull’argomento. Forse vi perderete qualcosa ma vi capisco benissimo. Firmato un compagno corridore.
Lettera d’amore di un pazzo al proprio manicomio
Come molti, la prima cosa che abbia mai letto è stata un fumetto. Ma, a differenza di altri, non ho più smesso di leggerli. Ho però attraversato varie fasi da lettore di fumetto, come un adolescente che cerca il suo posto nel mondo attraverso un periodo punk o emo. In origine fu il tempo dei manga e derivati (pre adolescenza), poi il testimone passò ai comics americani, soprattutto di stampo supereroistico. Al termine delle scuole dell’obbligo approdai, invece, a un tipo di fumetto più “ricercato”, indicato generalmente come graphic novel. E per quanto io stesso abbia dei dubbi sulla vacuità di tale definizione, sono sicuro che leggendolo abbiate capito a che tipologia di fumetto mi riferisco. Ho divorato pile di fumetti underground e autoriali (e con questo altro termine intendo quelli in cui i nomi degli autori hanno spesso più peso dei titoli delle opere stesse). Non abbandonai mai del tutto le letture specifiche di una determinata fase, ma alla soglia dei vent’anni ebbi, finalmente, l’illuminazione: ero un coglione.
Tutte quelle esperienze dovevano fondersi assieme, consentendomi di poter apprezzare fumetti di ogni tipo, a patto, ovviamente, che rispettassero i miei gusti estetici e contenutistici. E lo fecero in molti. Ma di tutto quello che offre questo enorme banchetto di carta e inchiostro, continuano a colpirmi, in maniera del tutto particolare e quasi morbosa, i prodotti del Sol Levante. Forse perché propongono una selezione incredibilmente ampia di prodotti, spaziando dall’ermetismo (linguistico e concettuale) al commerciale (divertito ma ragionato) e in cui le eccellenze raggiungono livelli qualitativi incredibili (i giapponesi sono macchine, sono pazzi e tutti gli altri discorsi da bar). O ancora perché queste due categorie appena elencate vanno mischiandosi frequentemente tra loro, cosa che non accade così spesso in altri panorami fumettistici.
Basta prendere in considerazione il successo popolare delle saghe di Go Nagai, riconosciuto a oggi come un maestro (nel segno e nella narrazione) che nulla ha da invidiare alle punte di diamante delle graphic novel più studiate americane ed europee, ma che anzi molte volte è stato un’influenza considerevole per questi autori occidentali, anche grazie alla diffusione estrema degli adattamenti animati delle sue storie. Può anche darsi, invece, che il vero motivo della mia particolare attrazione nei confronti dei manga sia dovuto a questioni sentimentali e nostalgiche: il primo amore non si scorda mai.
Too Long Didn’t Read: I fumetti sono la scuola. I manga la ricreazione.
Ma, dopo il papà di Mazinga, parliamo di un altro mangaka, considerato anch’egli un maestro: Leiji Matsumoto.
E chi è Leiji Matsumoto?
Barbie passione biografa: AKIRA “LEIJI” MATSUMOTO
Akira Matsumoto, questo il vero nome dell’autore, nasce nel 1938 a Kurume, una città situata sull’isola più a sud (tra quelle principali) dell’arcipelago giapponese e deve probabilmente il suo interesse per i veicoli militari e per la volta celeste al padre, che fu un ufficiale delle Forze Aeree Imperiali e che prese parte alla Seconda Guerra Mondiale. Alla fine degli anni cinquanta, provenendo da una famiglia caduta in povertà, si vede costretto a vendere la sua collezione di dischi per pagarsi un viaggio a Tokyo, dove si propone come disegnatore presso gli editori della capitale. L’investimento musicale pare fruttare, visto che a soli quindici anni la sua striscia Hachimitsu no Boken gli procura il premio come migliore autore esordiente per un contest organizzato da Manga Shônen. Per tutti è chiaro di avere davanti un enfant prodige.
La passione per il fumetto è infatti ben radicata in lui fin dall’infanzia: a cinque anni realizza il suo primo, rudimentale, manga (beccati questo Bastien Vivès). Solo dal 1965 in poi inizia ad usare il nom de plume Reiji (che traduce come Leiji per il pubblico occidentale), che significa “guerriero zero“. Un altro collegamento con il lascito militare paterno e con l’aviazione, visto che gli Zero erano i celebri aeroplani utilizzati dai piloti kamikaze giapponesi (per approfondimento in materia leggete pure Il Destino di Kakugo aka Kakugo no Susume, non c’entra quasi nulla ma è uno dei fumetti più belli mai realizzati dall’uomo). Inoltre nelle sue opere è diffusa anche una certa fascinazione per la Germania militarizzata della Seconda Guerra Mondiale (Harlock è un discendente di una nobile famiglia tedesca, e molti altri suoi personaggi ed elementi presentano nomi e termini vicini a tale nazione, oltre a diversi armamenti che richiamano nel design quelli del Terzo Reich). Si potrebbe quindi pensare che Matsumoto sia un nazionalista convinto e nostalgico, ma più probabilmente il suo immaginario ha attinto ed è stato plasmato dalle storie del padre e dal contesto in cui è cresciuto: il Giappone del dopoguerra, sconfitto e sottomesso dalle forze americane.
L’autore ha raccontato in un’intervista che era solito comprare, per pochi yen, fumetti americani supereroistici o disneyani che i soldati statunitensi gettavano via prima di tornare in patria e che un’anziana signora del posto raccoglieva, con l’intento di ricavarci qualche soldo. Inoltre, allo scoppiare della Guerra di Corea, giunsero le Nazioni Unite portando con sé eserciti provenienti da ogni parte del mondo, così che il giovane Matsumoto, trasferitosi in solitaria a Tokyo poco dopo aver compiuto diciotto anni, poté leggere fumetti di ogni tipo e, soprattutto, di ogni dove. Questo indica che sebbene il periodo in cui crebbe fu sicuramente molto duro, in realtà gli concesse anche un’occasione davvero rara nel mondo pre-internet, ovvero quella di poter avere riscontri e attingere al panorama mondiale del suo campo d’interesse più facilmente, donandogli quindi un’apertura mentale e, soprattutto, artistica, maggiore di molti suoi coetanei. Probabilmente si deve anche a queste letture straniere, magari non unicamente fumettistiche, la sua poetica più intimista, malinconica e filosofeggiante.
Abbandonando il contesto culturale e politico e tornando alla sua vita e carriera, prima di diventare il celebre autore di fantascienza “per ragazzi” che il mondo conosce, troviamo un Matsumoto che, dal 1957 al 1962, si fa le ossa lavorando a ben quaranta diversi manga sentimentali per giovani ragazze, ovvero gli shojo, in cui la caratterizzazione dei personaggi e la resa emotiva è tutto. È proprio in questo periodo che concepisce e sviluppa una rappresentazione visiva delle figure femminili così elegante, le sue iconiche eroine, rendendole uno dei suoi maggiori marchi di fabbrica. Questa esperienza si rivela incredibilmente utile quando finalmente approda al fumetto per ragazzi, visto che nell’industria degli shonen molti suoi colleghi non riescono a rappresentare le donne al meglio, caratterizzandole piattamente sia dal punto di vista grafico che emotivo, mentre Matsumoto era ormai riuscito a catturare l’essenza del fascino femminile, o comunque a meglio comprenderla, e dimostrava ancora una volta di aver sviluppato una sensibilità maggiore rispetto a molti suoi colleghi. Non era però cosa così rara a quei tempi e molti altri autori, proprio grazie alla palestra degli shojo, riescono a realizzare storie incisive con caratterizzazioni dei personaggi più vibranti trovando spesso il favore del pubblico (Tetsuya Chiba con Ashita no Joe o Shôtarô Ishinomori con Cyborg 009).
Nel 1968 Matsumoto inizia la sua prima opera sci-fi, Sexaroid, in cui il suo tratto ancora ricorda quello di Osamu Tezuka, ma con il quale già sfoggia le sue iconiche figure femminili, sbocciate in tutta la loro riconoscibilità. Da qui l’autore pubblica molte storie d’azione e d’avventura per ragazzi, spaziando nel genere solo fra quello western, di guerra e soprattutto di fantascienza e tutte si affermano come dei successi editoriali. Continuerà sempre a realizzare manga di questo tipo fino ad arrivare ai giorni nostri.
Molto attiva è anche la sua partecipazione nel campo dell’animazione, che cominciò proprio dalle trasposizioni in anime delle sue serie più celebri per via della difficile riproducibilità del suo tratto e soprattutto delle sue donne. Ed ecco negli anni ottanta Matsumoto riesce a influenzare l’immaginario mondiale, supervisionando in prima persona tali produzioni, donando al grande pubblico un universo popolato da donne angelo, misteriose e bellissime, da anti-eroi bassi e goffi o da intrepidi e anarchici avventurieri, perfetti e malinconici.
Perché è infatti la malinconia a essere il tema costante e la firma più evidente dell’autore. Sentimento evocato dalle struggenti riflessioni sulla condizione umana che i suoi personaggi presentano al lettore, in un cosmo con un ritmo e dalle atmosfere vicine all’opera lirica, le cui note sono i dubbi e le profonde indagini morali e filosofiche dei suoi attori di carta. Siano essi insetti antropomorfi, pirati spaziali, avventurieri improvvisati o androidi imperscrutabili, i personaggi di Matsumoto sono sempre inquieti e alla ricerca di qualcosa, e spesso rivolgono il proprio sguardo alle stelle, come se custodissero tutte le risposte dell’universo.
TLDR: Una vita con così tanti stimoli costringe a farsi molte domande e una sensibilità del genere ti porta a capire che non esistono delle risposte. Almeno non in questo mondo, ma tra le stelle chissà. Peccato solo che siano così lontane.
LEIJIVERSO – O di quando l’universo narrativo era una visione personale e non una necessità commerciale
La bandiera pirata che sventola orgogliosamente nello spazio profondo. Una nave da guerra della Seconda Guerra Mondiale riadattata a incrociatore spaziale. E la locomotiva del XIX secolo che viaggia tra le stelle. Queste le iconiche visioni di Leiji Matsumoto, creatore di eroi quali Capitan Harlock e Queen Emeraldas. Il suo stile è facilmente riconoscibile, essendo costellato da donne che sembrano silfidi, da volti ricorrenti e da anacronismi tecnologici. Celebri pure i suoi temi di onore e idealismo contrapposti a una realtà cinica che ci vorrebbe bruti e vili.
Il suo è un universo (letteralmente) narrativo contenente anche una sorta di continuity alla maniera di quelle supereroistiche americane, in cui i personaggi di diverse storie fanno tutti parte di una stessa narrazione essendo collegati in qualche modo, anche solo per l’abitare gli stessi panorami. Questo è indicato dai numerosi cameo che i personaggi delle varie testate si sono scambiati a vicenda sulle rispettive pagine, ma anche da alcuni oggetti o luoghi esplicitamente condivisi tra le varie saghe.
La conferma definitiva ci arriva dallo stesso Matsumoto, che nel 1998 realizza L’anello del Nibelungo. Un’opera in cui appaiono tutti i principali personaggi delle sue storie fantascientifiche e che è liberamente basata sull’omonima opera lirica di Richard Wagner tratta a sua volta dalla mitologia norrena; ecco ritornare l’affezione per la Germania e la conferma di un’intenzione poetica nelle sue produzioni. Veniamo anche a sapere di diretti collegamenti tra alcuni dei suoi personaggi principali. Ad esempio Emeraldas, una piratessa dello spazio, versione femminile di Harlock, è la sorella maggiore di Maetel di Galaxy Express 999 e l’amante della corsara, Tochiro Oyama, è anche colui che ha costruito Arcadia, l’astronave di Harlock, nonché migliore amico di quest’ultimo.
Tuttavia la continuity del Leijiverso (il suo universo narrativo) non è cosi ferrea, ha anzi degli incastri molto friabili. Esiste ma l’autore non si rende schiavo di essa. Gli eventi, i background e le leggende cambiano di storia in storia. Poiché le storie che circondano i personaggi vengono spesso reinventate nelle varie saghe, il tono già sognante e malinconico della sua produzione alle volte diventa fortemente onirico. Ma di questo Matsumoto ne è perfettamente cosciente, lui vuole che sia così. Forma una sorta di continuità multipla, degli universi paralleli che permettono ai vari personaggi di incontrasi al di fuori delle loro storie native senza forzare o disturbare la storia in cui compaiono. L’equilibrio e le esigenze narrative sono imperanti.
Nella saga di Star Wars si parla spesso di contenuti canonici, ovvero che rispettino la continuity principale e che spesso vengono corretti dagli autori per motivi di coerenza, rendendone quindi altri non più canonici, ovvero meno legittimati rispetto agli altri, delineando una narrazione principale e altre minori. In Matsumoto il canone è assente, non se ne cura, o meglio, gli interessa più che non ci sia. Lui vuole che le origini e le storie dei suoi personaggi siano nebulose, mutevoli e che vengano raccontate differentemente a seconda del contenuto scelto (anime, film, manga o altro) proprio perché queste erano le modalità e le caratteristiche degli antichi miti tramandati. Ed è proprio così che l’autore trasmette una sensazione di epico, antico, arcaico e indefinito, il tutto anche per accentuare ancora una volta quella sua caratteristica malinconia di una cosa passata, di un sogno che si sta iniziando a dimenticare con la mente ma non con il cuore.
Nonostante le molte storie che lo circondano, nessuno sa le vere origini di Capitan Harlock, proprio come fosse l’eroe di mitologie quasi dimenticate. L’unica cosa certa è che seguirà sempre il suo cavalleresco codice morale, facendo di lui un’icona imperitura, senza tempo perché aggiornabile a seconda della narrazione.
TLDR: Solo le cose fiche di avere un universo narrativo, senza alcun compresso narrativo. Un teatro cosmico con attori/maschera tutti uguali (vedi Tezuka) calati in un universo (ahah) narrativo unico (non vedere Tezuka).
GALAXY EXPRESS 999 (Ginga Tetsudō Surī Nain)
In Galaxy Express 999 tutti gli aspetti discussi finora sono presenti nell’accezione più pura, marcata, riuscita e divertita. È anche la prima opera di Matsumoto che lessi, un polveroso numero due a caso della collana Planet Manga della Panini estratto da uno scatolone di manga sfusi, venduti a un solo misero euro a una fiera. Questo polveroso tomo mi trovò indifeso, non sapevo cosa aspettarmi. Fui colpito da un fulmine e ancora oggi sono sotto shock.
Questa serie è Leiji Matsumoto. E questo è il motivo per cui la mia analisi si concentrerà su questa opera in particolare. Attuerò, insomma, la tattiche dell’analizzare il particolare per parlare del tutto.
PRODOTTO
Pubblicato per la prima volta dal 1977 al 1981, a un anno dal suo debutto ottiene già un adattamento animato e può vantare di essere una delle prime serie di lungo corso a vincere lo Shogakukan Manga Award, tra i premi più importanti del Giappone per quanto riguarda i manga, nella categoria shonen. I vari capitoli escono con cadenza settimanale sulle riviste di genere, secondo la tradizione editoriale nipponica, per poi essere raccolti in volumetti (l’edizione originale contava diciotto albi in totale), chiamati tankōbon.
Nonostante la storia originale possa dirsi conclusa, mantenendo comunque un finale aperto (elemento tanto caro all’autore), dal 1996 al 2004 Matsumoto realizza un omonimo seguito, ambientato un anno dopo la conclusione delle vicende dell’opera originale, con la quale condivide i protagonisti, molti luoghi, ritmi e riflessioni. Tuttavia il primo viaggio a bordo del leggendario treno a vapore spaziale rimane un cardine vitale e più che sufficiente per la comprensione della poetica dell’autore e del suo universo narrativo, ed è quindi l’unico che prenderemo in considerazione per questa riflessione.
Le vicende della saga, ambientate in un futuro distopico e ipertecnologico, ruotano intorno a un ragazzino, Tetsuro Hoshino, reso orfano da dei cacciatori cyborg che, alla ricerca di qualche trofeo organico da appendere alle pareti del proprio covo, trucidano la madre, suo unico parente. La vendetta sarà resa possibile da una donna di nome Maetel, incredibilmente simile alla defunta genitrice, che già da questo momento metterà il protagonista davanti a delle riflessioni etiche sulla vita e sulle proprie scelte, uno dei principali leitmotiv del leijiverso. Ottenuta la sua vendetta grazie all’arma consegnatagli dalla misteriosa e aggraziata donna, il giovane la seguirà fino alla celebre locomotiva che dà il nome alla serie, dove Maetel gli donerà il costoso biglietto per salire a bordo del mezzo di trasporto, con la promessa che, una volta arrivati alla destinazione finale del treno, la sua mente verrà trasferita in un corpo completamente meccanico donandogli quindi la vita eterna. Durante il lungo viaggio per arrivare a Prometheum (o Andromeda), il pianeta dei miracoli in cui ottenere l’immortalità, Tetsuro sarà sempre dubbioso sui veri intenti della sua misteriosa accompagnatrice e sulla sua reale identità. Questo però non gli impedirà, in virtù del suo buon cuore, di affezionarsi a essa, nonostante le verità taciute dalla sua affascinante guida.
Ogni capitolo, fatta eccezione per alcuni casi particolari, è incentrato sulle avventure vissute dai personaggi sui vari pianeti che costituiscono le stazioni di fermata del treno.
La grandezza dell’idea di Matsumoto sta ancora una volta nel coniugare una formula semplice e giocosa con contenuti profondi. Con questo escamotage ogni pianeta gli offre infinite possibilità di costruzione grafica e narrativa. Può farci quello che vuole, senza doversi preoccupare delle conseguenze, e infatti alcuni pianeti verrano addirittura distrutti nel corso della storia. Lo stesso vale anche per i personaggi che li abitano: androidi, alieni, mostri, entità misteriose e qualunque altra cosa lui decida di voler mettere in scena.
Ogni mondo creato dall’autore in questa saga è un puro e tagliente spaccato della condizione umana. Sono metafore sferiche delle caratteristiche di ognuno di noi. Possono essere pianeti di vizi, desideri o paure. Quindi quella di cui Matsumoto ci narra non è una semplice avventura spaziale, ma piuttosto un excursus quasi dantesco all’interno dello struggersi dell’uomo a causa del suo rapporto con la vita e con i propri simili. E la lente con cui analizza tutto ciò è precisa e feroce. Ma anche molto comprensiva e infine pietosa. Anche se i mondi sono tanti e diversi, condividono tutti lo stesso universo. Proprio come gli uomini con l’umanità di cui fanno parte.
Per quasi la totalità del viaggio, l’unico altro personaggio ricorrente è il capotreno, un piccolo essere, alle volte autoritario e altre comico, che sembra spesso in balia del treno che dovrebbe guidare (come anche con i propri passeggeri). Ed è proprio la locomotiva a vapore spaziale ad avere spesso un ruolo da assoluto protagonista, dall’aspetto esteriore nostalgico ma dai meccanismi interni così avanzati tecnologicamente da essere quasi senziente e impossibile da riparare per via della complessità delle tecniche con cui è stata realizzata in tempi antichi. Conoscenze adesso perdute e mai recuperate. Anche lo spazio è spesso molto più che un semplice sfondo.
Ōshiro Noboru, pioniere della fantascienza nipponica a fumetti, pubblicò nel 1940 Spedizione su Marte (Kasei Tanken) e nel 1941 Il viaggio in treno (Kisha Ryokō). Le due tematiche portanti di questi titoli (avventura fantascientifica nello spazio e viaggio di formazione in treno) si trovano riunite a più di trent’anni di distanza proprio in GE999, sicuramente Matsumoto ha preso spunto da questo autore. Ma ancora prima possiamo trovare un altro antenato del particolare genere dei viaggi spaziali in treno, ovvero Kenji Miyazawa con il suo Una notte sul treno della Via Lattea (1934). Il romanzo si presenta al tempo stesso come un racconto edificante e suggestivo per bambini e una meditazione profonda sul tema del viaggio e della morte. Ma Il viaggio nella galassia di Miyazawa, nonostante le premesse, è più incantato e intriso di una pacifica aura spirituale.
Invece nell’opera di Leiji Matsumoto si alternano ambienti claustrofobici (come metropoli sovraffollate) e panorami sterminati (pianeti deserti e vedute spaziali), ma a spiccare è sempre un’atmosfera cupa, desolata e fredda. Spesso gli uomini sono raffigurati come bestie senza anima né scrupoli morali, disposti a tutto pur di conseguire un vantaggio materiale. Nell’universo distopico di Galaxy Express 999 l’onnipresente tecnologia è rappresentata nei suoi aspetti deteriori, parossistici e disumanizzanti: lontana anni luce sembra essere l’idea che un tempo legava il treno alle speranze di progresso e di migliori condizioni sociali, ma anzi proprio quest’ultimo porterà i due avventurieri nella capitale delle ingiustizie cosmiche. D’altra parte, quando Tetsuro Hoshino e Maetel si imbattono in alcuni privilegiati che hanno barattato il proprio corpo organico con l’illusione dell’immortalità, apprendono il loro rimpianto per aver accettato un simile patto col diavolo. Proprio perché la vita ha delle sfumature così ciniche e spietate che bisogna capire ed empatizzare col prossimo, è l’unica forma di salvezza che possiamo trovare lì fuori.
TLDR: Spoiler vari, spiegone e metafore. Perché è la sua opera che preferisco. Insomma, leggi il fumetto direttamente.
ANALISI
Nell’introduzione al capitolo ho asserito che la prima volta che lessi Galaxy Express 999 non sapevo che aspettarmi. A essere sinceri delle aspettative, seppur latenti, ce le avevo. Forse mi aspettavo un manga shonen vecchia scuola, ovvero una storia d’avventura per ragazzi, diverso dai moderni shonen, votati soprattutto ai combattimenti. Avevo appena terminato una lettura estesa di quasi l’intera produzione di Go Nagai e prima ancora avevo fagocitato diverse opere di Tezuka. Ero propenso ad aspettarmi quindi una storia splendidamente orchestrata (magari quasi ai livelli delle favolose storie brevi di Jack Black), anche ricca di livelli di lettura o con toni un pò più spinti (come alcune storie di Nagai quasi splatter), ma che fosse comunque principalmente un’avventura per ragazzi.
Matsumoto invece, soprattutto con GE999, quasi non ci prova neanche. C’è l’avventura, i duelli coi blaster spaziali e le difficoltà da superare, anche inseriti in un contesto comunque topico del genere (astronavi, mondi alieni o panorami futuristici), ma non è mai veramente quello il fine narrativo da raggiungere. C’è la possibilità narrativa infinita di un espediente alla Jack Black di Tezuka (i vari casi medici per il dottore e i mondi infiniti e tutti diversi per GE999) e tutta la giocosità del caso, ma è forse il proverbiale zucchero per far meglio scendere una pillola più ostica del solito. Uno zucchero (meraviglioso) che aiuta sia il lettore, che riconoscendo gli archetipi del genere e dell’ambientazione si sente più a suo agio, meno spaesato e più disponibile ad assumere il farmaco, sia l’autore in persona che per evitare di esasperare anche se stesso, oltre che il proprio pubblico, decide di veicolare discorsi solitamente esclusi da letture d’intrattenimento, perché considerati troppo morbosi, tramite l’apoteosi di quest’ultime, le avventure per ragazzi.
Anche il confronto con gli antagonisti è raramente fisico o comunque risolutore. Molto più spesso non ci sono vincitori e vinti. Magari i protagonisti scampano ai pericoli, ma si allontanano da essi incupiti, e pieni di rimorsi. Il vero climax emotivo e narrativo è spesso riconducibile alle riflessioni etiche o filosofiche dell’eroe alla fine del capitolo, e non al confronto con un nemico o un ostacolo. Ma queste riflessioni non sono le classiche morali da fiaba, come, per fare un esempio d’eccellenza, il sogno di coesistenza pacifica tra tutti gli esseri viventi in Kimba di Tezuka. Non lo sono perché sono spesso incompiute, senza voler piantare un paletto morale o trasmettere un ben definito messaggio diretto. È più probabile che vogliano far riflettere il lettore. Forse sui dilemmi etici o filosofici dell’uomo, forse sulle condizioni generali di quest’ultimo. Magari quello che davvero interessa all’autore è indagare non le conseguenze delle riflessioni, ma le cause. Il perché alle volte, anche senza motivo, ci sentiamo persi, soli o comunque tristi. Perché siamo una specie così spesso contraddittoria, secondo poi criteri inventati e applicati unicamente da noi.
Quello di Matsumoto è infatti un universo fatto di grigi, in cui gli estremismi, sia positivi che negativi, sono appannaggio solo di personaggi e situazioni che bruciano rapidamente scottati dalla loro stessa fiamma e che nel consumarsi rivelano spesso sfumature che rendono anche questi casi, contraddittori e quindi più umani. Vivendo in una condizione tale è ovvio che ci si ritrovi a filosofeggiare e guardare le stelle in cerca di risposte. Ed è logico che quindi la scelta di dove ambientare queste indagini sia ricaduta sulle profondità dello spazio. Sia per la precisa iconografia e semplificazione descritta prima, sia perché tali recessi oscuri del cosmo sono la perfetta metafora della sensazione costante di isolamento e solitudine dell’uomo, circondato da corpi freddi e alieni che sembrano così distanti e che lui interroga in cerca di contatti, risposte e conforto ma che tacciono imperturbabili.
Tutto questo si trasforma in un’ossessione di Matsumoto nei confronti dell’incompiutezza.
Come dicevamo anche prima, ma questa volta usando le parole di altri:
“Le grandi saghe spaziali che gli hanno dato notorietà internazionale sono caratterizzate da una continuity friabile: si vogliono ambientate nel medesimo universo, eppure si sovrappongono in modo imperfetto, si contraddicono, e ancora più spesso rimangono in sospeso, lasciando aperte porte che potrebbero portare verso nuovi racconti.” – Michele R. Serra
Infatti qualche anno fa lo stesso Matsumoto, ospite al Festival di Angoulême ha dichiarato che terminare una storia sarebbe come sancirne la morte. Questo aspetto, questo aleggiare di fantasmi dalle questioni irrisolte, è un altro importante tassello che va a formare il monumentale mosaico d’angoscia che pervade tutta la sua produzione. Unica vera consolazione, seppur paradossale, è che il velo pietoso della mortalità è presente in ogni racconto e che si aggira palpabilmente intorno ai personaggi, comunque abitanti di narrazioni avventurose, seppur poetiche. In molte sue storie brevi, nonostante la malinconia, i rimorsi, il disagio e la prigionia di quel circolo vizioso morale di cui sopra, difronte alla morte mettono in evidenza che tutto, comprese queste angosce, è estremamente effimero.
Ma eccoci caduti nuovamente nella deprimente gabbia filosofeggiante di Matsumoto, perché anche quella che dovrebbe essere la nostra unica ed estrema consolazione non è che un altro affluente della grande malinconia universale. Ed è proprio la consapevolezza di questi paradossi etici e del provare comunque a ribellarsi a una realtà cinica che fa degli eroi del leijiverso personaggi poetici e senza età, grazie a una convinzione nei valori più luminosi, all’aspirare alla più totale libertà e alla voglia di riscattarsi, continuando indefessi a prendere parte al teatro cosmico messo in scena da Matsumoto rappresentando le maschere della sua iconografia e seguendo la bandiera dei loro ideali. Non a caso il simbolo della poetica di Leiji Matsmuto è proprio Capitan Harlock un pirata e anarchico, malinconico e misterioso, ma comunque forte e risoluto, nonostante l’effimera esistenza a cui tutto è condannato, o forse proprio in contrapposizione a quello.
Ci tengo però a precisare che, come analizzato nella parte biografica, l’ambientazione fantascientifica non è solo un vuoto escamotage o un camuffamento per trattare più facilmente intenti “alti” ma è sicuramente anche frutto di un sincero amore e interesse per questo genere e i suoi elementi da parte dell’autore. Come sempre, la nascita di un qualcosa è una concomitanza di più fattori, spesso ragionati e non, indistinguibilmente.
Oltre alla diffusione del suo immaginario e all’aver influenzato, con le sue forme, tratti e concept, interi plotoni di quelli che sarebbero poi diventati artisti e non, Matsumoto è forte, come ogni gigante del fumetto, di una sua particolare visione del mondo e quindi della condizione umana. Crea una riflessione concreta grazie a un maggiore approfondimento di storie, situazioni e personaggi, per merito di una sensibilità superiore e in generale per dei contenuti validi, veicolati impeccabilmente e con eleganza. Ma il vero merito di questo autore è, appunto, quello di riuscire a trasmettere un sentimento e un discorso poetico sofisticatissimo seppur servendosi di strutture e regole del più classico fumetto popolare, così da rendere una grande opera (d’arte) facilmente accessibile al vasto pubblico e la cui grandezza e profondità non è detto che si riveli a tutti, ma potrebbe farlo. Ciò che accomuna Matsumoto alle altre massime divinità del mio personale pantheon fumettistico è proprio questa sua generosità nel donare gli strumenti a chiunque (quasi un piccolo Prometeo delle arti) per poter comprendere la poetica e il messaggio della sua produzione, senza arroccarsi inutilmente in nessun ermetismo autoreferenziale o iper codificato. Ovviamente a patto che anche il lettore sia pronto a fare la sua parte. Vuole poter guardare tutti insieme le stelle, indicandocene anche alcune particolarmente belle, ma per riuscirci bisogna che l’osservatore ne abbia voglia e che riesca a sostenere lo sguardo di quei corpi celesti.
TLDR: Perché è un gigante del fumetto e perché è un’artista incredibile. Ovvero Matsumoto confermato campione intergalattico di cinismo ed empatia. Se ti interessa una lettura critica e non hai molto tempo buttati a pesce su questa.
SPACE OPERA e MASCHERE
È ironico che Matsumoto abbia utilizzato un palcoscenico così fisicamente distante dall’uomo, le profondità dello spazio, per invece indagarlo da così vicino, tanto da addirittura riuscire a guardargli dentro. Un ossimoro adoperato come habitat laboratoriale sterile e neutrale che mette in risalto, permettendo così di analizzarla meglio, la condizione nostalgica, addolorata e solitaria del genere umano. O forse è solo un altro specchio delle contraddizioni e sfumature puramente umane.
Atro motivo potrebbe essere perché l’uomo fin da tempi antichi è stato attratto a rimirare il cielo e le stelle quando si interroga sui propri più gravosi crucci sia personali che evolutivi. A loro confida ogni suo più intimo, nascosto e personale pensiero. La volta celeste è depositaria di sogni, speranze e paure dell’intera razza umana. Dalla più quotidiana tribolazione al più inconfessabile dilemma etico. Coi suoi infiniti occhi veglia su di noi, osservando tutto eppure rimanendo in silenzio, senza giudicarci mai ma senza neanche risponderci, quasi a comprendere e compatirci.
Non a caso Andrea Pazienza si rivolge alle stelle in apertura a una sua celebre strip in quattro vignette sulla maestosa grandezza che circonda il piccolo e indifeso, quindi sensibile, uomo. Né Stanley Kubrick, in 2001 – Odissea nello spazio, fa cercare ai nostri antenati scimmieschi le proprie risposte evolutive ed esistenziali altrove (le riprese dal basso del monolite e il lancio dell’osso rivolto al cielo, per dirne due più o meno ovvie). Ma perché dunque ci rivolgiamo sempre alle stelle per essere compresi appieno, per condividere quella nostalgia di un qualcosa, che alle volte neanche sappiamo bene cos’è, e la tristezza che deriva da questa nostra condizione?
Forse perché le luci che provengono da distanze incalcolabili e proiettate da spettri del passato ci sembrano più vicine a noi dei nostri simili, più empatiche di questi perché nella nostra stessa condizione di isolamento. Sono accerchiate come noi dal vuoto assoluto, dello spazio siderale in un caso e da quello asfissiante che avvertiamo dentro di noi, fallendo spesso di comunicare emotivamente con il prossimo, in un altro. Perché alle ore più tarde della notte, quando anche le luci nelle stanze dei nostri cari e nelle altre case sono spente, fuori ci saranno sempre le stelle ad ascoltarci ed essere lì per noi.
È infatti per queste tematiche, più filosofeggianti e umanistiche che scientifiche, che il Leijiverso viene considerato uno dei capisaldi del genere della Space Opera, come Flash Gordon, Star Wars, L’Incal e molti racconti o romanzi di Isaac Asimov. In una lista davvero lunga e ricca di nomi importanti, la produzione di Matsumoto è comunque riuscita a ritagliarsi una posizione di rilievo. Questo sottogenere della fantascienza deve il suo nome a parallelismi tematici con le soap opera. Toni melodrammatici, romanticismo spesso barocco e una maggiore attenzione ai sentimenti e caratteri dei personaggi rispetto all’ambientazione sono infatti i marchi di fabbrica di questo filone. Rendendo quindi, tramite una ripetizione ed esasperazione di questi elementi, i propri personaggi in alcuni casi quasi delle maschere, che devono ben rappresentare i loro ruoli di cavalieri senza macchia, donzelle in difficoltà e antagonisti terribili.
Ciò è particolarmente vero per le narrazioni di Matsumoto, in cui i personaggi sono delle maschere in tutto e per tutto. Sono sempre gli stessi identici volti e le stesse caratterizzazioni a recitare una manciata di ruoli ben definiti nonostante possano cambiare background, collocazione all’interno dell’universo narrativo o addirittura nome e identità.
Proprio come avviene in una rappresentazione teatrale o di un’opera lirica (dalla quale Matsumoto prende spesso ritmo e ispirazione), i personaggi sono sempre gli stessi, cambiano solo le situazioni. Sono degli arlecchino e pulcinella spaziali e di inchiostro. Ed è questo l’unico accenno alla continuity accennata in precedenza, l’unica constante fissa sono questi volti, ripetuti all’infinito. Caratteristica tipica, giusto per ripeterlo, di Tezuka e di tutta quella scuola che ha appreso e fatto proprio questo insegnamento, ideale per poter produrre storie più velocemente senza dover fare studi di personaggi nuovi ogni volta ma anche perché frutto di una visione personale ben specifica e che trasforma i propri personaggi in icone. Da quest’ultima riflessione sembrerebbe che entrambi i maestri avrebbero ben appreso la lezione dalla produzione Dysneiana di cui sono stati entrambi avidi fruitori.
Ma come Walt Disney ha Topolino, così Leiji Matsumoto ha le sue donne, senza dubbio le sue maschere più iconiche. Disegnate con maestria, eleganza e fascino (femminile), sembrano quasi esseri alieni (e in alcuni casi lo sono, addirittura di una razza ben specifica) con quegli occhi grandi e profondi e, soprattutto, così tristi. Dalla figura agile e snella, quasi affusolata e dai tratti gentili richiamano esteticamente una visione idealizzata delle ragazze del nord Europa (ancora una volta torna la Germania come terra tanto amata da Matsumoto), bionde, altissime e imperscrutabili, algide solo nella presenza. Questa loro similitudine con La Sylphide, ci riporta ancora una volta al mito norreno e all’omonimo capostipite del balletto romantico, rimarcando il legame dell’autore con una poetica quasi cantata (o danzata in questo caso) e teatrale.
Leiji Matsumoto cita i lungometraggi americani Via col vento e Piccole Donne insieme a uno francese, Marianne de ma jeunesse, come influenze e ispirazioni per la creazione delle sue eroine.
Basta guardare i manifesti dell’epoca o dei fermi immagini delle pellicole per accorgersi che la stessa Maetel deve molto alle protagoniste di quei film.
I personaggi maschili più caratteristici e ripetuti sono principalmente due.
Il primo è il modello di Harlock, ovvero un ragazzo con lunghe ciocche di capelli che gli cadono sul viso, nascondendolo parzialmente, e con tristi occhi all’ingiù che gli conferiscono un malinconico ma magnetico sguardo. Sono sempre belli, magri, spesso forti e comunque ben definiti. Harlock è forse un’esagerazione di questi eroici tratti, dovendone diventare l’icona perfetta, un vero e proprio semidio della mitologia del Leijiverso; bello, forte e imbattibile come un Ercole, ma tormentato e romantico come lo vuole la poetica dell’autore. In altri casi questi personaggi sono visivamente meno marmorei, magari meno slanciati e più mingherlini. Meno avventurieri e più sognatori, ma sempre inconfondibilmente eroici.
Il secondo esempio invece è quello di Tetsuro Hoshino, il giovane protagonista di GE999.
Basso, goffo e tarchiato, addirittura grasso. Con dei modi semplici e umili ma quasi sempre allegri e giocosi, presenta sempre una propensione alla compassione e in generale una sensibilità maggiore di tutti gli altri protagonisti. È probabilmente il personaggio più amato dall’autore, sia perché è palese una sua identificazione con esso (da interviste e comparazioni risulta quasi essere il suo alter ego), sia perché è una figura chiave di praticamente tutti i suoi racconti. È anche il personaggio che subisce meno modifiche da una versione all’altra. Tralasciando qualche dettaglio minore come il portare gli occhiali o no, a un certo punto tende a indossare sempre gli stessi abiti: un cappello da cowboy con una visiera ampia e rovinata e una sorta di poncho sporco e malandato. Un look facilmente riconoscibile e presente anche nelle versioni western del personaggio.
Ed è proprio nell’ambito western che abbiamo l’esempio più emblematico di questa caratteristica del segno di Matsumoto. Infatti in Gun Frontier (1972) troviamo le tre maschere principali, sopra descritte, nei panni dei diretti protagonisti della storia, tutti e tre uno di fianco all’altro, nelle loro forme più iconiche: copie identiche di Harlock, di Toshiro e di Emeraldas.
Il corrispettivo del celebre pirata spaziale ha anche la medesima cicatrice sul volto.
Per concludere, Space Opera è inoltre una definizione che alla produzione di Matsumoto, sebbene per puro caso, calza a pennello, considerata la sua propensione per i toni poetici e la vicinanza ai ritmi e regole dell’opera lirica (vedi L’Anello del Nibelungo e la fascinazione subita da Wagner).
TLDR: Qui si fa gli intellettuali e si fanno dei nomoni. Tutti quegli anni di studi sono serviti a qualcosa. Hai visto mamma che non mi serve il posto fisso alle Poste? Ora mi versi la paghetta?
E QUINDI? CONCLUSIONI E SENTIMENTI
Nonostante tutta la documentazione raccolta per realizzare questo articolo, ho trovato sempre un unico parere condiviso dalla critica internazionale nei confronti dell’opera di Matsumoto. Ovvero che la sua è una visione tremendamente cinica del mondo e dell’uomo. Non so come sia possibile. Magari è l’aspetto su cui tutti si sono voluti soffermare maggiormente perché è il livello di lettura più esterno. Ma la mia prima impressione, che dopo numerose letture della sua vasta produzione si è fatta ancora più solida, è che il suo non è un discorso di condanna. La sua è una visione estremamente compassionevole della vita, altro che cinica. D’altronde come può un uomo che davvero vede il mondo per qualcosa di così estremamente negativo tracciarne infiniti altri e, anche se imperfetti, nei quali gli stessi abitanti si perdono a rimirarne spesso le monumentali bellezze, per quanto spesso contrastanti o agrodolci?
I suoi protagonisti, icone di virtù, alla fine vincono sempre, anche se circondati dal male dell’universo. Si tormentano per la sorte degli altri e per l’inclinazione della realtà ad essere brutale, ma non per questo si arrendono a questa negatività. Invece di subirla passivamente reagiscono sfoggiando sentimenti contrastanti ad essa, facendosi ambasciatori di coraggio, compassione e orgoglio laddove le avversità della vita sono vigliacche, feroci e corrotte.
Ed è forse qui che si realizza appieno la poetica di Leiji Matsumoto. Trattare gli orrori peggiori del mondo (o dell’universo) e le miserie umane più terribili come fossero canti lirici o poesie decadenti di civiltà antiche e mitologiche, con una sensibilità e uno sguardo compassionevole ineguagliato. Mettendo in luce una verità apparentemente banale ma spiegata tramite riflessioni etiche e filosofiche di incredibile profondità e intelligenza, che trattano il lettore da pari, con il massimo rispetto possibile.
E tale verità è che spesso i poveri e gli umili sono quelli con una comprensione maggiore del mondo, essendo quelli che più di tutti hanno sofferto e ai quali quindi il vero volto della realtà si è rivelato, in tutta la sua contraddizione. Quindi si, il mondo è un posto spesso terribile, ma sapendo questo utilizziamo la nostra compassione per non renderlo ancora peggiore e sforziamoci, grazie alla nostra volontà, di seguire gli esempi positivi, anche se artificiali perché creati dall’uomo, per un’esistenza migliore, che può essere tale solo grazie a noi stessi e non a macchinari miracolosi o ad accumuli di risorse materiali privi di un reale valore. Credo sia questo il vero messaggio di Leiji Matsumoto, tutt’altro che cinico.
Ma quindi il modello ideale di eroe non è il suo più celebre Capitan Harlock, che nonostante gli insegnamenti e il lascito di Tochiro conserva ancora un pò di ferocia, ma è proprio Tetsuro Hoshino, il bambino di Galaxy Express 999 quasi caricaturale. Che nel corso della sua avventura perde la sua ingenuità tramite le tante miserie e sofferenze patite o alle quali assiste ma che conserverà sempre il suo buon cuore e una capacità di empatia e pietà verso il prossimo che rasentano la santità. Grazie proprio a queste virtù prenderà la decisione giusta arrivato al termine del suo lungo viaggio, donandoci quindi un finale positivo.
Anche perché Matsumoto, autore dallo stile barocco, è un irriducibile romantico, per il quale le donne sono tutte angeli misteriosi, il male circonda il bene e spesso alberga nel cuore stesso degli uomini. Nel suo mondo ci sono oggetti e luoghi leggendari dove gli eroi osannati dalle folle sono belli, intrepidi e valorosi, proprio come in una fiaba, ma quelli di cui abbiamo veramente bisogno, e che rappresentano la vera speranza, possono anche passare inosservate, possono essere bassi, goffi e brutti. L’importante è che sappiano amare e capire il prossimo pienamente.
Guardate quante lacrime versiamo, ma non sono forse le stesse a rigare pelli e volti diversi? Se c’è qualcosa che ci accomuna e ci può salvare sono i nostri sentimenti. Anche rinchiusi in corpi robotici o calati in uno spazio freddo e immobile, se abbiamo quelli non saremo mai soli. Forse la tristezza delle sue opere è nel sapere che non tutti, in ogni dove, lo hanno compreso.
TLDR: Ci si fa beffe della critica e si diventa sentimentali. Cose da ragazzetti.
Credits
Inizialmente questa era una tesina scritta per un corso dell’Accademia di Bologna, dove mi sono diplomato in Linguaggi del Fumetto. Un corso sulla storia del fumetto tenuto da Daniele Barbieri, che ringrazio per le belle lezioni (a cui arrivavo sempre tardi, scusi).
Ringrazio anche te che hai avuto la pazienza di leggerti tutto questo marasma di pensieri e parole. Ora puoi andare su Netlfix, anzi fammi sapere che c’è di bello; io ti consiglio Glow che è proprio fico. E magari fai un salto su Amazon o in fumetteria a ordinare un numero di Galaxy Express 999. Se sei in bolletta e devi sceglierne uno solo, fa che quel volume sia il secondo tankōbon della serie (edizione Planet Manga).
Dedico queste quattro paroline ai due compagni d’arme di Sciame. Se c’è una cosa buona che ho fatto a questo mondo è stato fargli leggere questo autore. A quel pazzo di Simone che è corso a comprarsi l’opera omnia di Matsumoto dopo il primo volume letto e a Maurizio, che ha sempre pianto, ma adesso, ogni tanto, lo fa guardando le stelle.
TLDR: Si ringrazia e ci si saluta. Ciao.