A quindici anni tutto è un salto nel vuoto: mandare un messaggio alla propria cotta, affrontare il professore un po’ despota o confidare ai propri amici le nostre più profonde insicurezze. Martino, però, i salti nel vuoto li compie per davvero, lanciandosi da un’altezza a un’altra come un giovane Peter Parker del parkour. Ed in effetti, come l’Uomo Ragno anche Martino vive una sorta di doppia vita: sicuro e coraggioso nel parkour, insicuro e vulnerabile nella vita reale, che trova spazio soprattutto tra i corridoi angusti ma anche ricchissimi di un liceo classico. Agile e magro, il suo corpo è il suo più grande alleato e allo stesso tempo il più grande nemico, fonte di insicurezze e confronti continui.
Corpo a corpo, il fumetto d’esordio di Giovanni “Gioz” Scarduelli pubblicato da Terre di mezzo editore, ripercorre così quel periodo pieno di contraddizioni ma anche di sfide quotidiane, che scorre così veloce da non lasciarci spesso il tempo di elaborarlo davvero. In questa intervista l’autore ci ha raccontato cosa succede quando, dopo anni, ti spingi a ripercorrerlo quel periodo e a restituirgli nuova vita, un salto (e una tavola) alla volta.

Ciao Giovanni, grazie del tuo tempo e benvenuto su Lo Spazio Bianco. Corpo a corpo è il tuo fumetto d’esordio: come e quando è nata la tua passione per il disegno e cosa ti ha portato poi verso la forma fumetto?
La mia passione ha radici antiche, è quello che ho sempre voluto fare nella mia vita. Ovviamente durante la scuola non sapevo esistesse il lavoro dell’illustratore e del fumettista, però consumavo fumetti Marvel, come l’Uomo Ragno e I Fantastici 4. Non ero un gran lettore di libri, ho iniziato un po’ tardi, però il disegno me lo sono sempre portato dietro. Ci sono stati periodi un po’ più bui, in cui volevo fare altro, come andare in skateboard e suonare e il disegno era l’ultima cosa che facevo quando ero annoiato. Quando poi da adolescente ho capito che poteva essere un lavoro a tutti gli effetti e che tutti gli altri lavori non mi piacevano e non volevo fare niente al di fuori di esso, allora è diventata una cosa più seria. All’inizio è stato un percorso fatto di alti e bassi come le montagne russe, ma alla fine siamo arrivati a questo punto.
Corpo a corpo è una storia in cui è centrale il tema dell’adolescenza: da un punto di vista narrativo, quale credi sia l’elemento più stimolante di tale tematica?
Per rispondere riavvolgo un attimo il nastro: io ho iniziato a scrivere questa storia non pensando che sarebbe diventato un libro, ma come una specie di autoterapia. Volevo fermare alcuni pensieri, alcune relazioni che ho avuto durante l’adolescenza: poi da cosa nasce cosa ed è diventata una storia completa. Quindi nasce dal bisogno di fare questo tipo di esercizio. E anche perché durante l’adolescenza si vivono avventure e pensieri che, vissuti quindici anni non capisci oppure capisci solo a metà e li prendi “di petto”, perché non hai ancora esperienza della vita. Quando però li rielabori anni dopo capisci che c’era qualcos’altro, che in quel momento vedevi solo te stesso e gli altri ti sembravano più “in basso”, mentre invece c’erano anche loro. Questa è stata prima di tutto la scoperta fatta durante questo libro. Infine, secondo me la cosa più interessante dell’adolescenza è anche semplicemente la possibilità di parlare a ragazzi e ragazze che in quel momento si stanno formando, fargli conoscere storie e fargli scoprire che si può parlare di quella cosa lì anche tramite il fumetto, cosa che lettori più adulti già sanno.
Immagino sia stato importante anche attingere alla tua personale esperienza adolescenziale: c’è qualcosa del tuo vissuto autobiografico che ha trovato maggiore spazio nella storia? E cosa credi penserebbe il te adolescente se avesse occasione di leggerla?
C’è tantissimo di me stesso, anche se non parlerei di autofiction. Però ci sono un sacco di elementi che poi sono esplosi nella narrazione, mentre io nella mia adolescenza li ho soli attraversati. Banalmente anche le magliette dei gruppi: mi sono accorto che durante la scuola indossavo solo magliette di band e ho passato le mie superiori così, ogni giorno ne avevo una diversa. Poi la potenza della musica, il potersi caricare tramite di essa. E anche le cotte adolescenziali, tutte le domande che mi facevo sulle ragazze che mi piacevano durante gli anni e come ne parlavamo tra noi. Mi sono chiesto cos’erano tutte queste cose: mi sono servite a crescere? Oggi è ancora così? Di mio ci sono tutte queste domande, c’è la musica, le relazioni e anche tutte quelle frecciatine che si mandano tra amici. Sembrava infatti di essere tutti dalla stessa parte, però allo stesso tempo c’era sempre qualcuno a cui scappava un’affermazione che andava a segno e finiva per ferirti. Quindi c’è tanto vissuto ma anche molta rielaborazione di questo vissuto. Molti personaggi sono ispirati a amici reali, altri invece sono un insieme di più personalità, ad esempio. Un misto quindi tra fiction, realtà e invenzione totale.

Centrali nel fumetto sono anche il corpo e le nostre insicurezze, soprattutto in un periodo di cambiamento come quello adolescenziale. Un punto di vista maschile su tali tematiche è però più raro o comunque più difficile da trovare rispetto allo “standard”. Mi chiedevo come è stato riflettere su come cambia l’esperienza maschile rispetto a questi temi e anche sul concetto di “mascolinità tossica” e sull’importanza, per un ragazzo, di potersi mostrare anche insicuro e vulnerabile.
Per me è stato normalissimo mettere su carte queste sensazioni, perché per me era la normalità. Io ho avuto uno sviluppo un po’ tardo: fino alle terza superiore ero alto un metro e cinquanta e pesavo trenta chili vestito. Adesso sono un metro e ottanta, quindi alla fine sono cresciuto, però inevitabilmente ho vissuto molto la questione dell’altezza e della magrezza. Tutte le varie battutine, del tipo “Se tira vento voli via”: al tempo queste cose in parte andavano a segno, in parte cercavo di farmele scivolare addosso. Durante l’adolescenza infatti ho adottato molto l’ideologia punk, quindi “Io vivo la mia vita, non mi interessa di quello che dici”. E pensavo, forse sbagliando, che queste cose davvero scivolassero via. In realtà facevano parte di me e me le sono portate dentro, e anche grazie ad esse oggi ho scritto questo libro. Ai tempi (nel 2011 quando mi sono diplomato) era molto più difficile parlarne, anche e soprattutto tra intimi. Oggi è molto più semplice, anche grazie alla risonanza che c’è sui social su questi temi, e anche su quello delle minoranze, o delle persone che fanno coming out e che parlano dei propri sentimenti. Anche tra perfetti sconosciuti si condivide la propria condizione, si raccontano le proprie sensazioni o se si è stati oggetto di critiche o abusi e violenza, non per forza fisica. Anche se mi sembra che trovare un ragazzo che parla di queste tematiche e del proprio corpo sia più facile tra persone che non abbracciano l’idea di essere “uomo” nel senso stereotipato, che al contrario possono mostrarsi fragili, vestirsi come vogliono, anche indossare una gonna. Tra tanti altri mi sembra ci sia ancora la volontà di mantenere una comunicazione, anche social, sempre diretta all’idea di non avere bisogno di nessuno, di potercela fare sempre da soli e senza aiuti.
Fondamentale è anche la percezione che abbiamo dei nostri corpi e il modo in cui può essere distorta e contraddittoria, anche a causa dei social. Nel caso di Martino tale stortura è ancora più lampante: il corpo è infatti lo strumento con cui riesce a raggiungere grandi risultati nel parkour ma è allo stesso tempo l’origine delle sue insicurezze. Da dove credi abbia origine tale distorsione?
Non è facile rispondere a questa domanda, ma la “distorsione” secondo me inizia prima di tutto perché ci sono gli altri. Dev’esserci per forza l’altro che ti riconosce, anche in senso positivo però: è l’altro infatti che riconosce che sei bravo a fare qualcosa, con un commento o un complimento. Se non ci fosse nessuno, ad esempio, che mi guarda fare parkour, potrei avere soltanto il mio modo di valutarmi e rimanere fermo allo stesso punto. Posso trovarmi bravo o scadente, posso paragonarmi ai video che vedo, ma resterò sempre “nel mio”. Quando invece ci sono gli altri, che ti vedono fare qualcosa, allora le cose cambiano, così come quando li guardi a tua volta: si fa una valutazione degli altri e in base anche a quella si fa la propria. A volte però gli altri iniziano a dire qualcosa, anche banalità del tipo “Ma quanto sei magro!” o “Ma quanto pesi”: sono commenti fatti a cuor leggero che tante volte però vanno a segno. Quindi diciamo che l’altro ci serve per autovalutarci ma è anche l’altro che a volte ci affossa.
Restando sempre sul parkour, che è un elemento fondamentale nella narrazione ed ha anche un certo peso metaforico, visto che spinge il protagonista letteralmente a un “salto nel vuoto”, quello che in un certo senso deve affrontare anche in alcune sfide della vita privata, come mandare un messaggio alla ragazza che gli piace. Come mai hai pensato proprio a questo sport e quanto ha influito nella costruzione della storia?
Tantissimo perché in un primo momento, alla nascita di questa storia, Martino non faceva nulla di che. Aveva la passione per la musica però ad un certo punto abbiamo capito che ci voleva qualcos’altro, mancava quell’elemento che potesse davvero dare profondità alla storia. E l’intuizione del parkour è stata perfetta oltre ad essere autobiografica. Da un lato mi permetteva di disegnare tavole piene di salti, capriole, personaggi che si librano in aria (venendo io da letture de L’Uomo ragno, come ti dicevo). E dall’altro, enfatizzava questo dualismo: cosa riesce a fare il tuo corpo quando sei lì con il tuo obiettivo, che sia fare una run o lanciarsi da un muretto, e il confronto invece con il corpo con gli altri compagni di classe. Sorgeva la domanda sul perché nelle altre discipline non fosse lo stesso: ad esempio c’è un capitolo sulla partita di basket. Io ho giocato a basket per un sacco di anni e il fatto di essere il più minuto prima di tutto ti costringe ad avere un ruolo preciso, il playmaker: e poi anche ricoprendo questo ruolo devi avere a che fare con persone molto più grosse di te. È uno sport che ti mette a dura prova se sei più piccolo fisicamente, infatti ho passato tanti anni in panchina. Quindi l’ho valutato ma alla fine ho capito che il parkour era quello più interessante per raccontare questa storia.

Sono tanti anche i riferimenti al mondo epico greco, essendo la storia ambientata in un liceo classico, rielaborati spesso per dare forma ai conflitti interiori del protagonista. Quanto è stato d’ispirazione tale immaginario durante la stesura?
Tantissimo e ti dirò di più: anni fa sono andato in Grecia in vacanza e girando la sera per Skiathos ho trovato un negozio artigianale dove c’era questo piccolo elmo che mi ha talmente affascinato da essere esattamente quello del guerriero greco disegnato nel fumetto. Io non ho fatto il liceo classico, ma quello artistico, però ho notato che nel mondo dell’illustrazione e della grafica un sacco di colleghi venivano dal classico ed erano in realtà i più brillanti nel lavorare al fumetto e all’illustrazione. Ho sempre quindi visto questa marcia in più nelle persone che avevano studiato le materie umanistiche, al classico in particolare. Quindi in parte mi affascinava, in parte volevo omaggiare queste persone che sono state presenti nel corso della mia formazione. Poi negli ultimi anni ho fatto anche un po’ di teatro classico e mi sono innamorato di quelle storie: l’Iliade e l’Odissea ovviamente, ma in generale tutti questi personaggi e queste storie ancora molto attuali, le puoi sempre rielaborare: nel cinema, nell’illustrazione, nel teatro, in modo sempre nuovo ma mantenendone i significati. È questa potenza che mi ha colpito dall’inizio e mi ha fatto pensare che bisognava ambientare la storia in questo cosmo così ricco. Poi nella storia non si va troppo a fondo nella questione del greco e del latino, anche per poca preparazione mia, però voleva essere un modo per tributare il mio amore per questa materia.
In passato hai realizzato illustrazioni per altre opere e sceneggiature. Com’è stato lavorare per la prima volta anche nelle vesti di sceneggiatore? Quali sono stati i vantaggi e quali invece i momenti del processo creativo che ti hanno messo maggiormente in difficoltà?
Il vantaggio più grande è che puoi fare quello che ti pare. Io ho lavorato a tre fumetti prima di questo, tutti sceneggiati da altri: ho lavorato con Sergio Rossi alla biografia di Nicola Tesla (Beccogiallo, 2018) e Edward Hopper (Centauria, 2019) e a quella di Mark Rothko con Francesco Matteuzzi (Centauria, 2020). Il vantaggio quindi è stato non avere a che fare con la sceneggiatura e poter creare da disegnatore le tavole da zero. Io sono partito con un dialogo teatrale per capitoli e poi li visualizzavo a monitor, direttamente sulla tavola. Poi un’altra novità è aver lavorato completamente in digitale, quindi tutto il fumetto è fatto con la tavoletta grafica e un pennello che richiama lontanamente un pennino di china tradizionale. Venivano fuori tante pagine, quindi questo metodo mi permetteva in primo luogo di andare velocissimo e poi di ripensare, cancellare, tornare indietro e rimontare le tavole in un flusso più dinamico. Poi in casa editrice, lavorando con gli editor, c’è sempre ovviamente qualcuno che corregge il tiro e ti aiuta con la storia: però la libertà più totale era quello che volevo raggiungere.
Come credi sia evoluto il tuo stile dalle illustrazioni alla stesura dell’opera? Lo senti come il punto di arrivo o di partenza di una tua ricerca stilistica?
Secondo me il punto di arrivo non ci sarà mai un po’ perché il lavoro lo richiede, un po’ perché io sono il peggior critico di me stesso e ho la sindrome dell’impostore: quindi andrò senza dubbio avanti e questo sarà un punto di partenza. Le differenze con quello che ho fatto prima sono, come ti dicevo, il fatto che lavoravo in tecnica tradizionale e coloravo anche. Il nero e le chine le ho sempre fatte in maniera tradizionale e poi coloravo al computer. In questo caso non c’è il colore però tutto il resto è fatto direttamente al computer. È un’evoluzione del mio tratto e in questo periodo mi piace molto. Avrai notato che alcuni sfondi sono completamente bianchi e molto abbozzati: a volte poi ad alcuni personaggi, se sono a tre quarti o non stanno parlando, manca qualcosa. Se siamo in un’aula o in un ambiente affollato, lo sfondo diviene più astratto. Il motivo di queste scelte è da un lato il volere andare veloce, dall’altro è una questione stilistica, perché secondo me non disturba il lettore il fatto che quello che è in primo piano sia più definito rispetto allo sfondo. Anzi, se poi i lettori sono giovani è ancora meglio. Anche il modo in cui è stato stampato (la carta ad esempio è molto sottile) strizza un po’ l’occhio al manga: è un volume che, pur essendo un graphic novel, non ha niente di pregiato. Lo possono prendere e leggere dove vogliono. Tutto andava nella direzione di qualcosa che si può divorare velocemente in autobus o nella propria camera, quindi anche i disegni vanno in quella direzione. Alcuni capitoli, ad esempio, sono molto brevi, anche solo di quattro pagine.
Mi ha colpito appunto anche la scelta del bianco e nero: cosa ti ha spinto verso questa scelta grafica?
Semplicemente una cifra stilistica. Ho disegnato questo libro due volte: prima tutte le bozze e poi le tavole definitive; però già nell’iniziare ad abbozzare questi capitoli, penso sia stata la scelta migliore a livello grafico e stilistico, perché poteva rendere meglio la potenza della narrazione e di queste vite, che sono veloci. Allora ho pensato: “Non stiamo qui a fare campiture di colore e sfumature”; abbiamo deciso giusto di dare quel tono di grigio nelle ombre, nel capitolo del guerriero, per staccarlo un po’, perché a livello grafico si fa quando si passa ad un altro piano della narrazione, come quando ci sono dei flashback ad esempio. Il leggero cambio di trattamento indica che sta succedendo qualcosa di diverso nella storia. In sintesi, era la cosa più efficace: less is more, come si dice anche nel design.
L’ultima domanda è una cosa che chiedo spesso, soprattutto se nel fumetto, come hai accennato prima, c’è molta musica. Se potessi scegliere una canzone che rappresenti al meglio Corpo a corpo, quale sarebbe?
Ci ho pensato per tutti i mesi che ho lavorato a questo fumetto. Premettendo che ci sono nella storia un sacco di magliette di gruppi rock e punk rock, credo che alla fine di tutto secondo me la canzone di questo fumetto è Tunnel of love dei Dire Straits. È la canzone che avevo immaginato ascoltassero in pullman Martino e Camilla quando si passano le cuffiette. Ovviamente non potevamo inserire il sonoro né il testo della canzone, però per me è quella la canzone.
Dopo questa intervista però magari i tuoi futuri lettori potranno effettivamente ascoltarla durante la lettura del fumetto.
Volentieri! Poi ci sarebbe anche tanto altro: i Blue Hearts, i Rolling Stones, i Bad Religion. Tutta roba che sposa bene col parkour, tra l’altro. Però quella ballad da otto minuti secondo è proprio quella più giusta.
Grazie a Giovanni per il suo tempo e per questa bella intervista, e a Terre di mezzo editore per averla resa possibile.
Intervista svolta via Zoom l’11 settembre 2025.
Giovanni “Gioz” Scarduelli

Classe ’92, Giovanni “Gioz” Scarduelli è illustratore, fumettista e visual designer. Lavora con alcuni quotidiani e con le principali case editrici italiane di fumetti. Tra i libri che ha illustrato: Diario di Anne Frank (Rizzoli), Il mio amico Giovanni (Feltrinelli) e Antologia di Spoon River (Mondadori). È anche disegnatore di fumetti sulle vite di Nikola Tesla (Beccogiallo) e Edward Hopper (Centauria) con Sergio Rossi; e Mark Rothko con Francesco Matteuzzi (Cenaturia). Per Terre di mezzo Editore è uscito il suo primo graphic novel, Corpo a corpo, nel settembre del 2025.
