Nell’immensa varietà delle infelicità familiari, la famiglia Pike – protagonista di Royal City di Jeff Lemire – sembra posizionarsi dalle parti del fallimento totale. Una coppia anziana di genitori che avvelena i giorni e i figli, Pat, Tara e Richard, che stanno vivendo la dissoluzione delle proprie vite.
In questo scenario, il padre è colto da un grave malore ed entra in coma; Pat torna a Royal City per assisterlo e, proprio all’entrata della città, si imbatte in quello che scopriremo essere Thomas, il quarto fratello Pike, la cui presenza attraversa da questo momento tutto il racconto.
Delineandone la figura attraverso l’atteggiamento che ogni parente (Next of Kin – Persone di famiglia è infatti il titolo originale del volume) ha nei suoi confronti, il racconto affida a Thomas il ruolo di raccordo delle solitudini della famiglia. Il confronto con lui sembra l’unico punto in comune fra i Pike, che solo attraverso di lui sembrano riuscire a comunicare e a essersi vicini, perfino comprendersi, al di sopra degli asti e delle incomprensioni sedimentate.
Avviene nell’ultimo capitolo di questo volume, allorché il racconto finalmente propone uno spiraglio di speranza: Thomas guida il padre attraverso la città e questi sembra scoprire con lui una nuova serenità. Accetta infine i sentimenti della moglie e, proprio tramite il figlio più piccolo, aiuta Richard, e forse gli salva addirittura la vita.
Tutti i possibili Thomas
Thomas è una figura enigmatica, ma il racconto non indugia tanto sul mistero della sua natura, quanto spinge a chiedersi quale sia stato il suo ruolo nelle vicende della famiglia; se la sua sorte sia stata causa, conseguenza o semplice tappa dell’infelicità che la segna.
La sua natura è d’altra parte strillata in quarta di copertina: il lettore l’avrebbe altrimenti scoperta al termine del primo capitolo, allorché Pat segue Tommy dentro il cimitero di Royal City. Questa scelta editoriale depotenzia non poco il senso di disagio che percorre l’inizio del racconto, ma d’altra parte l’ultima immagine del primo capitolo più che un colpo di scena è la conferma di un sospetto alimentato dalle apparizioni del ragazzo, di volta in volta bambino (per Tara), adolescente (per Pat e il padre), giovane uomo (per Richard) e adulto (per la madre).
Dal punto di vista narrativo, questa scena chiude la fase di definizione dello scenario e semmai la vera informazione importante è contenuta nella pagina successiva, che riproduce l’inizio del diario manoscritto di Thomas, in data 2 marzo 1993, che ci fa riconsiderare molto di quello che abbiamo letto nelle pagine precedenti e il cui ruolo emerge nei capitoli successivi.
Cambiare per sopravvivere
In Royal City Lemire affronta i temi ricorrenti della sua poetica fin dai tempi di Essex County: in particolare, nella nuova opera la ricostruzione del sé individuale è proposta in parallelo alla crisi d’identità di un’intera comunità. Royal City, infatti, racconta la solitudine della famiglia Pike in uno scenario di declino industriale: famiglia e società stanno vivendo ciascuno una decadenza che sembra irreversibile. Forse un cambiamento profondo potrebbe invertire questo declino. E forse è comunque troppo tardi.
Tara Pike ha un progetto ben definito per la riconversione dell’industria siderurgica, che è tuttora il cuore economico della città, ma che non sembra avere futuro. Il problema è che quel cambiamento comporta un enorme rischio, non assicura la salvezza e perciò suscita innanzitutto resistenza e paura. E fra i più accaniti avversari del progetto, milita proprio il compagno di Tara. Attraverso questa sottotrama, il racconto mette in risonanza crisi familiare, economica e sociale: è come se famiglia e comunità si trovassero incastrati in un conto alla rovescia, al termine del quale c’è la dissoluzione di qualsiasi legame.
Elementi di un unico grande affresco
Lemire stesso richiama Essex County nella sua postfazione al primo episodio di Royal City. Le risonanze tematiche con quell’epopea familiare malinconica acquistano una sfumatura particolare in forza del ritorno di alcuni pensieri e immagini.
Se andiamo al secondo volume di Essex County, proprio all’inizio del primo capitolo troviamo passaggi che leggeremo quasi identici in Royal City. Questi richiami sono di per sé interessanti in quanto mostrano elementi, se non di un linguaggio espressivo proprio di Lemire, almeno di metafore ricorrenti; ma non è questo l’aspetto di maggior interesse.
Nel primo di questi momenti, Lou Lebeuf anziano, ancora nella sua fattoria, riflette: “La mia mente scatta sull’attenti e io so chi sono e dove sono con la chiarezza di sempre“. In parallelo ci sono le parole di Thomas: “Ci sono giorni nei quali penso che sono esattamente dove ho bisogno di essere“. Nel secondo, vediamo Lou entrare nelle acque del fiume, esattamente come vediamo fare a Thomas; nel terzo, immediato seguito del precedente, Lou si immerge ed entra in una sorta di dimensione fantastica, esattamente come accade a Richard nella sua entrata in scena.
Non ci si deve tuttavia fermare alla soddisfazione di aver colto ricorrenze: il cuore della suggestione che questi momenti inducono è il senso di trovarsi di fronte a un’unica grande narrazione, che è forse il sintomo più efficace della tenacia con la quale certi temi sono radicati e urgenti nella poetica di Lemire.
Ed è forse questa urgenza che spinge l’autore canadese a cercare di fermare con precisione certe sensazioni sulla pagina, aggiungendo a volte un di più ridondante alla narrazione. È quello che avviene ad esempio nelle tavole a pagina intera e doppia pagina con le quali inizia il quarto capitolo, accompagnate da riflessioni che, a quel punto del racconto, risultano superflue e semmai smorzano la suggestione delle immagini.
È sicuramente eccessivo affermare che Lemire si fidi meno delle immagini, rispetto ai tempi di Essex County: come ampiamente illustrato nella presentazione del primo capitolo, emozioni e sensazioni fluiscono efficacemente attraverso il montaggio, la composizione delle tavole, le espressioni dei volti e i silenzi.
La difficile gestione della complessità
Più produttivo è invece interpretare questo maggior peso della parola come sintomo di una difficoltà – o perlomeno grande prudenza – di gestione della materia narrativa, che deriva dalla complessità e dal realismo dello scenario.
Il punto è che Lemire sviluppa ben sei vicende individuali, intrecciate fra loro e all’evoluzione del contesto sociale, senza sfruttare un personaggio principale che faccia da centro di gravità, per temi ed elementi, e da guida attraverso il racconto. Questo comporta un grande numero di scene con cambio di protagonista e la parola finisce per essere non solo un canale di informazione ma anche un modo per evitare che i frequenti cambi di scena risultino in un costante disorientamento. Aggiungere parole serve quindi (anche) a fermare l’attenzione ed evitare una lettura troppo veloce.
Come già scritto, poi, a questa molteplicità di vicende umane si aggiunge il tema del declino della comunità: inglobandolo nella vicenda di Tara, Lemire ne mostra gli effetti dilanianti sul tessuto profondo dei legami personali e della percezione consolidata di sé da parte degli individui e della comunità stessa.
La proposta di Tara che per lei è un’occasione per realizzare sé stessa (sua l’idea, sua la visione del futuro) e, sospettiamo, di rivalsa verso il compagno di vita, comporta una mutazione radicale dell’essenza di Royal City. E sarebbe ingenuo credere che un simile cambiamento dell’anima della città possa avvenire in maniera indolore e che tutti siano in grado di migrare dal vecchio al nuovo mondo senza smarrirsi.
Il lavoro sulla luce e gli spazi
Un altro elemento di continuità (evolutiva) fra Royal City e Essex County è sicuramente il trattamento di Lemire della luce. L’opera del 2013 in bianco e nero sfruttava, soprattutto nelle sequenze ambientate nel presente narrativo, la luce pura per avvolgere il racconto in un’atmosfera sospesa, che staccava la storia dal piano del verosimile.
Il nero, più presente nei ricordi, ancorava le memorie alla realtà e questo contrasto amplificava anche la natura fuggevole del presente rispetto al passato, quasi una messa in scena della debolezza della memoria a breve termine rispetto alla forza e intensità del passato.
In Royal City Lemire sfrutta invece la luce in senso pienamente pittorico – non espressionistico – e per la definizione delle superfici e la scansione del tempo. Rispetto al primo, il risultato è un’illusione di spazio, che a volte, però, rivela la propria natura. Si vedano le tavole a pagina 30-31, organizzate su tre righe: in ciascuna, la centrale è occupata da una vignetta che offre la stessa immagine – il letto di ospedale del padre con Thomas a sinistra e la madre a destra – presa dallo stesso punto di vista.
Eppure, a pagina 31 vediamo un angolo della parete assente nell’altra, proprio come se in realtà fosse un fondale. Il colore è anche l’elemento determinante nella definizione spaziale delle figure umane: con la notevole eccezione della scena del confronto fra Tara e il marito nel terzo capitolo, è proprio il contrasto cromatico che le stacca rispetto allo sfondo.
Il colore è infine anche elemento ritmico: l’ampia gamma cromatica è infatti modulata lungo tutto il racconto e finisce per costituire un ritmo proprio. A porsi come elemento di continuità è invece la luce lattiginosa del cielo, che possiamo immediatamente ricondurre a un senso, se non di oppressione, di limite alle aspirazioni. Se guardare in alto è un gesto associabile alla speranza o alla sfida, il messaggio continuo è che Royal City non offre opportunità né all’una né all’altra.
E se Royal City finisse qui?
Il primo volume di Royal City termina con un colpo di scena, l’annuncio di un ampliamento di scenario che, data la sua grossolana preparazione, non solo coglie di sorpresa ma lascia perplessi. Lemire lo cala all’ultima pagina e la goffaggine della sua messa in scena ci consente però di cogliere uno spunto fondamentale, che altrimenti avremmo trascurato: Royal City potrebbe terminare qui e quel finale serve allora a dichiarare che invece la serie continuerà e che l’appuntamento mensile con la testata è rinnovato.
Anche in questo caso il parallelismo con la struttura di Essex County è inevitabile e, restando al livello di architettura narrativa, vale la pena sottolineare che anche in Black Hammer Lemire costruisce una linea narrativa e un climax che poi non vengono risolti, bensì sostituiti con un’altra linea narrativa. È d’altra parte una costruzione tipica di molte narrazioni che raccontano famiglie e comunità attraverso il tempo, qualcosa di simile alla tattica militare del Salto della Rana, secondo la quale si avanza verso l’obiettivo strategico lasciandosi sacche nemiche alle spalle, delle quali occuparsi in seguito.
Il primo volume di Royal City ha un senso di compiutezza drammatica che ci lascia pienezza di emozioni e ampia materia di riflessione, poiché Lemire sospende il racconto in pieno climax: tutti i fili sono ancora pendenti, ma Lemire ce ne ha mostrato pienamente la vitalità. Siamo partiti da un senso di declino ineluttabile che, dopo un momento estremamente cupo, ha iniziato a sgretolarsi. Nessuna vicenda è risolta, né le si può dare un destino univoco, ma il racconto ci ha mostrato che ognuna di esse ha una speranza.
Ed è questo un messaggio potente di Royal City: viaggiamo sempre e comunque in bilico su un filo sospeso e tuttavia, se ci limitiamo a fissare quel filo, tutto quello che ci rimane è seguire un cammino già segnato. Forse sotto di noi non c’è un abisso e quasi sicuramente non siamo soli. Per scoprirlo, racconta Royal City, si deve avere la forza di alzare lo sguardo, alla ricerca di sé, degli altri e del proprio posto nel mondo.
Abbiamo parlato di:
Royal City vol. 1 – Fantasmi di famiglia
Jeff Lemire
Traduzione di: Leonardo Favia
Bao Publishing – ottobre 2017
160 pagine, cartonato, colori – 18,00€
ISBN: 9788865439715