Ormai lo sanno tutti: Dylan Dog è un personaggio “nuovo” (?). L’inizio del 2020 ha portato ai lettori dell’indagatore dell’incubo la conclusione del Ciclo della meteora con il corpo celeste che si è infine abbattuto sulla Terra spazzando via l’universo del personaggio creato da Tiziano Sclavi così come lo abbiamo conosciuto per oltre trent’anni.
Dal #401 il curatore del personaggio Roberto Recchioni ha preso nelle proprie mani la testata mensile dando via al ciclo 666 – tuttora in corso di pubblicazione – in cui ci troviamo di fronte a un Dylan Dog “rinnovato”.
Che sia un reboot, che siano storie da un universo parallelo, che sia tutto un sogno o un incubo ancora non c’è dato saperlo: dovremo aspettare l’estate e la fine di questo filotto di sei storie per capire dove l’autore romano sta andando a parare. Quel che invece sappiamo è di trovarci di fronte a un mondo in cui Dylan è un personaggio diverso – barba e pastrano inclusi – eppure ben riconoscibile e il cast di comprimari che gli ruota attorno è composto dagli stessi nomi ben noti agli appassionati, ma tutti al contempo stravolti e inseriti in ruoli diversi. A cominciare da Bloch, che adesso è il soprintendente di Scotland Yard nonché patrigno di Dylan.
Una delle prime regole insegnate da corsi e manuali di scrittura creativa o di sceneggiatura è che quando si crea un personaggio non ci si deve limitare a scriverlo nelle sole sequenze e nei comportamenti che poi finiscono sulle pagine di un libro o un fumetto o sugli schermi di cinema e tv. Si deve scrivere e conoscere a menadito il passato del personaggio, il vissuto che lo ha portato a essere chi è oggi, i legami e i rapporti affettivi che lo hanno plasmato e fatto diventare chi è.
Per dare consistenza al nuovo Dylan Dog, per farlo diventare qualcosa di più di un semplice gioco narrativo a effetto – a termine? – che alcuni ritengono si rivelerà essere alla fine del ciclo di storie recchioniane, per dare spessore a un personaggio nuovo sotto più aspetti di quelli che si potrebbero immaginare, arrivano le due storie ospitate nel Magazine 2020, ambientate in due momenti topici del passato del rinnovato Dylan.
Il cadetto, firmato da Paola Barbato nel soggetto e nella sceneggiatura e da Giulio Camagni nei disegni, è la storia più lunga dell’albo, stesa su un numero di tavole pari a quelle del mensile regolare, ed anche la più significativa tra le due. Non è un caso che porti la firma di Barbato, oggi forse l’autrice che meglio conosce l’indagatore dell’incubo e il suo mondo e il cui nome è diventato sempre più presente e importante, con il passare del tempo, in questi anni di gestione Recchioni. La sceneggiatrice milanese ha firmato alcune delle avventure più riuscite di Dylan degli ultimi anni e il suo apporto si è rivelato importante anche nel Ciclo della meteora.
Ne Il cadetto Barbato ci racconta della prima indagine in polizia del cadetto Dylan Dog, promosso sul campo prima della fine del corso in accademia insieme a tre compagni dal suo stesso padre, l’allora ispettore Bloch, per fermare un serial killer dall’incomprensibile modus operandi.
La storia è un crime procedural a tutti gli effetti in cui seguiamo un’indagine poliziesca da cima a fondo in ogni suo snodo, dalla raccolta delle testimonianze e delle prove, alle supposizioni fatte dagli investigatori, fino alla risoluzione conclusiva del caso, anticipata dal classico falso finale e falso colpevole. Gli incastri della trama poliziesca pensata dall’autrice funzionano molto bene, avanzamenti nell’indagine, rivelazioni e colpi di scena sono efficacemente modulati e il ritmo sostenuto accompagna l’intera vicenda.
La vicenda pensata da Barbato è complessa e, in alcuni frangenti, bisogna dire che il filo si perde a causa di passaggi più farraginosi e verbosi del dovuto, ma nel complesso questa avventura, lontana dalle atmosfere maggiormente horror della serie e radicata profondamente nella realtà concreta sconvolta dall’operato di un killer misogino, non scontenta gli amanti dell’indagatore dell’incubo.
Anche perché non è questo il fulcro principale del racconto. L’indagine poliziesca è il mezzo attraverso cui la sceneggiatrice mette al centro dell’attenzione Sherlock Bloch e, di riflesso – ma con pari importanza – Dylan.
L’ispettore che vediamo qui all’opera è un uomo nel pieno dei suoi cinquant’anni, un poliziotto completamente dedito al suo lavoro e dotato di un acume intellettivo sopra la media. A lui guarda come a un modello il giovane Dylan che Barbato dipinge con le caratteristiche del personaggio classico, da cui la versione adulta posta in essere da Recchioni pare essersi allontanata per migrare verso un uomo scanzonato e sbruffone, almeno all’apparenze. Il Dylan cadetto di polizia è dotato di straordinaria empatia, è profondo e capace di pensare in modi trasversali, out of the box. Vede il mondo con occhi carichi di pessimismo ma al contempo è pieno dell’ottimismo della gioventù: è, a tutti gli effetti, un “vecchio ragazzo”.
Ancora più interessante è il ritratto del Bloch padre che ci regala Barbato: un uomo che si è immerso completamente nella sua professione per non pensare alla scomparsa della moglie, che non si rende conto della pericolosa distanza che sta scavando con il figlio più piccolo, Virgil che soffre lo scarso valore che ha agli occhi del padre e, ancora di più, il confronto con il fratellastro Dylan, assente e lontano tanto quanto Bloch. Ci sarebbero decine di potenziali storie all’interno di questo quadro familiare suggerito da Barbato, e non è detto che in futuro qualche altra non venga raccontata.
Giulio Camagni ai disegni offre un lavoro essenziale ma comunque efficace. Il suo è uno stile che gioca sulla sottrazione, con vignette spesso dallo sfondo completamente neutro, dove si muovono personaggi inquadrati frequentemente in un piano americano. Particolare è la scelta di raccontare buona parte della vicenda in tavole dalla struttura identica, composte da due vignette quadrate in ognuna delle tre strisce: un richiamo, voluto o meno, al modo in cui vengono raccontate le storie di Julia, che ben potrebbe essere stata protagonista della vicenda poliziesca del cadetto.
Da notare come Camagni tratteggi Dylan sulle fattezze tipiche del personaggio degli esordi, estremamente vicino al dichiarato modello di Rupert Everett e come renda il “giovane” Bloch un uomo intenso, duro e provato, senza stravolgerne la riconoscibilità.
La seconda storia del Magazine vede all’opera il duo Alberto Ostini-Paolo Bacilieri in un racconto breve, intitolato I due padri, che si ricollega a uno scambio di battute avvenuto su Dylan Dog #402 – a dimostrazione della volontà di portare nelle storie del personaggio una continuity più coesa – e ci mostra il primo incontro tra l’orfano adolescente Dylan e l’agente Sherlock Bloch.
Nelle sue storie di appendice Ostini riesce sempre a essere poetico ed esistenzialista ma in questa occasione sembra frenare questa sua vena per regalarci una trama onirica e lisergica in cui i disegni di Bac in bicromia sui toni rosso-rosa la fanno da padrone.
Nelle tavole prendono letteralmente vita le canzoni dei Pink Floyd tratte da The Dark Side of the Moon e il fumettista veronese ci regala una splendida interpretazione di Alan Moore, qui ribattezzato Alistaire Roome che in una spaventosa trasformazione finale si lega a uno dei personaggi fondamentali della saga dylandoghiana.
A completare il Magazine le consuete riviste dedicate all’horror nelle sue varie incarnazioni mediatiche – firmate da Gianmaria Contro e Luca Barbieri -, tra cui spicca e merita la lettura un approfondito reportage di Maurizio Colombo sulle case cinematografiche degli horror b-movie americani.
Abbiamo parlato di:
Dylan Dog Magazine 2020
Paola Barbato, Alberto Ostini, Giulio Camagni, Paolo Bacilieri
Sergio Bonelli Editore, marzo 2020
176 pagine, brossurato, bianco e nero/colore – 7,50 €
ISSN: 977112262604100162