Ogni mercoledì in USA esce quasi un centinaio di albi a fumetti, molti dei quali sono numeri di esordio di serie e miniserie, i first issue.
First Issue è la rubrica de Lo Spazio Bianco dedicata ai nuovi numeri uno in uscita negli States! In questo episodio #44 ci occupiamo delle novità uscite tra il 17 marzo e il 10 aprile 2019.
Marvel Comics
Dopo il debutto di War of the Realms, al quale abbiamo dedicato una puntata di First Issue Presenta, è arrivata in Marvel Comics l’ora del ritorno “mutante” di Rob Liefeld con la serie Major X: ce ne parla David Padovani.
Gran brutta bestia la nostalgia, qualcuno nella musica italiana l’ha definita anche “canaglia”. Chissà se ne era preda Rob Liefeld quando a proposto alla Marvel Comics il suo nuovo progetto mutante Major X e chissà se la Casa delle Idee ha ripensato nostalgicamente ai fasti di vendite dell’inizio anni ’90 del secolo scorso. Sicuramente la casa editrice ricordava il buon successo ottenuto nel 2017 da Deadpool: Bad Blood, l’ultima incursione in ordine di tempo di Liefeld nel mondo mutante e una miniserie che rinverdiva e ricatturava efficacemente alcuni elementi tipici dei supereroi dei ninietes.
Purtroppo tutta la cura profusa e mostrata da Liefeld in quel progetto risulta del tutto assente nel primo numero di Major X, un esordio imbarazzante a tal punto da diventare quasi un fumetto parodico di ciò che l’autore mette sulle pagine in maniera seria.
Riprendendo le fila di un discorso interrotto oltre venticinque anni fa e ambientando questa nuova storia tra New Mutants #98 e X-Force #1, il bad boy californiano voleva riproporre quel mood supereroistico fatto di corpi ipertrofici rivestiti da esagerate placche metalliche e con in mano armi improbabili che tanto aveva contribuito a diffondere.
Purtroppo quell’estetica anni ’90, criticata negli anni a venire ma che per certi versi sta tornando in auge grazie ad alcuni autori che proprio in quegli anni sono cresciuti come appassionati di fumetti (Scott Snyder e Rick Remender, giusto per fare due nomi), su Major X è uccisa da un manierismo sterile e per giunta tirato via.
Steso su un canovaccio narrativo ormai liso – l’ennesima linea temporale alternativa mutante, l’ennesimo viaggio nel tempo, l’ennesimo discendente della famiglia Summers – il racconto messo in campo da Liefeld si sviluppa in trenta pagine di vuoto pneumatico, una serie di scontri intercalati da scambi di battute insulsi fatte da personaggi che hanno tutti la medesima voce, privi di una qualsiasi caratterizzazione.
A questo si accompagnano una serie di tavole altrettanto vuote, senza neanche un minimo tentativo di ambientazione, con personaggi appena abbozzati. Se l’accuratezza anatomica non è certo mai stata una delle caratteristiche portanti dello stile di Liefeld, i suoi improbabili corpi ipertrofici venivano almeno definiti con cura e attenzione: erano irrealistici, ma coerenti e ben realizzati. In Major X, il protagonista vede allungarsi e accorciarsi le proprie braccia tra vignetta e vignetta – rasentando a tratti il nanismo -, Cable ha in più di una pagina una spalla dislocata che sembra stia per staccarsi dal corpo e Cannonball e Warpath sono appena schizzati, perdendo tutta la definizione dei costumi che li contraddistinguevano.
Major X è dunque, da un lato, l’ennesima freccia all’arco dei critici e detrattori di Rob Liefeld – e come poter dar loro torto visto il risultato – e, dall’altro, la dimostrazione che un rilancio serio e drastico dell’universo mutante non è davvero più procrastinabile. In questo senso, le speranze sono tutte nelle mani di Jonathan Hickman: che da luglio 2019 l’epica degli X-Men smetta i panni della farsa e torni al ruolo che gli compete nell’universo Marvel.
Di seguito, le copertine delle altre novità Marvel.
DC Comics
La casa editrice di Burbank fa esordire anche l’ultima serie dell’etichetta Wonder Comics gestita da Brian Michael Bendis e dedicata a un pubblico di lettori adolescenti . Ha letto per noi Dial H for Hero #1 Simone Rastelli.
Strano oggetto questo Dial H for Hero, realizzato da Sam Humphries (testi) e Joe Quinones (disegno e colori): gli autori riprendono lo spunto della serie Dial H, creata dallo scrittore di fantascienza China Miéville e uscita nel 2012 nell’ambito dell’iniziativa New 52, adattandola a un pubblico più giovane.
Espunti i tratti più orrorifici dell’originale, ci troviamo di fronte a uno strano oggetto, improbabile e bizzarro, che ha tutta l’aria di un divertissement senza secondi fini, in particolare: comico senza essere parodico.
Lo spunto è semplice: un ragazzo, Miguel, riesce a trasformarsi in supereroe premendo il tasto “H” sul quadrante di un vecchio telefono analogico a cornetta (nell’originale, il protagonista aveva un lavoro più complicato, poiché doveva comporre il numero 4376, che sta per “HERO”). Intorno a questo meccanismo d’antan, ruotano tuttavia elementi di tono più cupo: il protagonista ha sviluppato un rapporto morboso con il pericolo, perché da bambino fu salvato da Superman e a lungo ha cercato di ricreare quell’esperienza; la magia operata dal telefono sembra parte di una qualche trama nella quale Miguel appare, se non vittima, una pedina.
Già denso di elementi, l’intreccio è sviluppato senza sbavature, con ritmo veloce e illustrato con una vasta gamma di strutture di tavola, che concedono momenti di spettacolarità pur rimanendo sempre leggibili. La caratterizzazione del protagonista è molto netta e basata sul suo desiderio di fuga dal piccolo mondo in cui vive, desiderio amplificato dal suo incontro con Superman tanti anni prima e solleticato da quello, nel presente narrativo, con una ragazza, pecora nera della comunità.
L’impressione lasciata da questo primo numero è quella di un piccolo racconto di formazione con toni scanzonati, qualche ombra con la quale confrontarsi e un grande sogno a cui fare riferimento e che porta con sé tentazioni e lati oscuri: essere supereroe.
Di seguito, le copertine delle altre novità DC Comics.
Image Comics
Tra le novità di Image Comics, Federico Beghin ha puntato la sua attenzione su Fairlady #1.
Dopo la fine della guerra alla quale ha partecipato fingendosi un uomo, Jenner Faulds cerca di risolvere i casi trascurati dai fairmen, gli investigatori dotati di licenza.
Della tremenda battaglia che ha avuto ripercussioni evidenti sul paesaggio il lettore scopre alcuni elementi circa a metà del primo capitolo di Fairlady, nuova serie sceneggiata da Brian Schirmer per le matite di Claudia Balboni, e i pochi indizi costituiscono uno dei due punti di forza di questo fantasy dal taglio poliziesco. Il secondo tassello positivo è legato al primo, dato che risultato degli scontri armati è l’affascinante ambientazione post-apocalittica che si fonde con i più classici scenari fantasy: all’interno della carcassa di un enorme robot sorge una cittadina che nelle architetture rievoca secoli lontani; i viaggiatori attraversano grotte e lande desolate, percorrono ponti sospesi e si imbattono nelle reliquie della vita precedente al conflitto.
I colori di Marissa Louise valorizzano tutti i luoghi, perché si dimostrano dinamici, assecondando di volta in volta il ritmo circadiano. L’impegno della disegnatrice, che varia la composizione della tavola dilatando e assottigliando lo spazio bianco tra le vignette disposte anche in asimmetria, non è pero sufficiente per rendere interessante l’indagine di Jenner e del suo aiutante, perché il ritmo è compassato e lo sviluppo eccessivamente lineare. Tale linearità poteva essere sfruttata per mettere in risalto la personalità della protagonista, ben raffigurata nei primi piani ma non nei campi larghi, ma a prevalere è una caratterizzazione superficiale che consegna alle pagine niente più di una donna atletica e sicura di sé.
Emilio Cirri ci parla invece di Lazarus Risen #1.
Non fatevi ingannare dal nome e dalla numerazione: Lazarus Risen non è un vero e proprio debutto, bensì è la continuazione della (travagliata) serie creata da Greg Rucka e Michael Lark, ferma per buona parte del 2017 (sostituita da Lazarus + 66, scritta da Rucka in coppia con diversi sceneggiatori/artisti e dedicata a vari personaggi della storia) e per tutto il 2018.
Dove eravamo rimasti, quindi? Siamo in un futuro distopico, nell’anno X+65, il mondo è dominato da poche potenti famiglie tenute in equilibrio da fragili alleanze. In seguito al Conclave (#10-15), riunione convocata dalle famiglie per dirimere alcune controversie, il mondo si ritrova sconvolto dalla guerra, voluta da Hock contro la famiglia Carlyle. Forever Carlyle è un “Lazzaro”, un essere umano potenziato, punta di diamante dell’esercito della propria famiglia.
Alla fine dei capitoli precedenti, la ragazza scopre di non essere altro che una donna cresciuta in provetta (addirittura, la settima generazione) e in seguito a uno scontro con il Lazzaro della famiglia russa Vassalovka, il dragone, si ritrova sconfitta e demotivata.
In questo nuovo episodio, la troviamo a guidare un gruppo di assalto per permettere alla sorella Johanna, nuovo capo della famiglia, di confrontarsi con i capi della famiglia russa per riuscire a trovare un accordo e vincere la guerra.
In questo numero ritroviamo intatti tutti gli elementi che hanno reso Lazarus una delle migliori serie fantascientifiche degli scorsi anni: un mondo affascinante e brutalmente credibile, una dinamica degli eventi avvincente e coinvolgente, l’attenzione ai personaggi e alle loro interazioni. Lazarus non è solamente un ottimo fumetto d’azione e di guerra, ma è anche una meticolosa partita a scacchi, in cui gli intrighi, le bugie e i sotterfugi sono tanti importanti quanto le battaglie. Insieme a questo, Rucka porta avanti varie riflessioni sulla società odierna, sulle differenze tra ricchi potenti e poveri ridotti a strumenti, quando non a “rifiuti”, sulla violenza e la guerra, sulla tecnologia e i suoi risvolti preoccupanti. E soprattutto si parla di famiglia, di come questo concetto possa essere traviato e usato in maniera cinica nelle trame di potere, su come non sia legato solamente al sangue, ma a un affetto, a un senso di appartenenza comune, come nel caso dei Lazzari, diversi da tutti e profondamente legati tra loro, nonostante i conflitti e l’odio tra le casate principali.
Michael Lark, co-creatore della serie, da il meglio di sè nella rappresentazione di battaglie frenetiche, di tecnologie high tech e futuristiche, di paesaggi trasformati e distrutti dall’uomo. I colori di Santi Arcas, freddi e metallizzati, si integrano al meglio con il tratto del disegnatore e contribuiscono a creare il fascino di questa distopia bellica. Purtroppo, le rese dei volti non sempre riescono a comunicare le emozioni che trapelano dai dialoghi tesi e intensi di Rucka: spesso i tratti somatici dei vari personaggi sono indistinguibili e le espressioni facciali troppo rigide e bloccate, rendendo la fruizione della storia confusa in alcuni frangenti.
Nonostante questo, Lazarus resta un racconto ricco di epica ma anche di umanità, ambizioso e coinvolgente. Oltre alla storia, rilevanti sono la pagina della posta e gli editoriali dello sceneggiatore, le cui acute riflessioni che creano una interessante connessione tra il mondo creato su carta e quello reale.
Di seguito, le copertine delle altre novità Image Comics.
Editori indie
Aftershock Comics presenta due interessanti novità di cui ci parlano, rispettivamente, Simone Rastelli e Marco Marotta.
Venti anni fa tutti gli adulti morirono, lasciando il mondo ai bambini e ai ragazzi. Questo il punto di partenza di Orphan Age, serie creata da Ted Anderson (testi) e Nuno Plati (disegni e colori), che, dopo il brevissimo prologo, si sposta nel presente narrativo e ci mostra una piccola comunità rurale con i suoi riti di condivisione, che riguardano tanto i mezzi di sussistenza e il lavoro quanto il disagio psicologico e gli incubi. A distruggere questo equilibrio basato sulla solidarietà, arrivano i seguaci della Nuova Chiesa, che, in nome della purificazione divina, distruggono e uccidono.
Dopo un inizio è impacciato, con due scene – il flashback e la prima del presente narrativo – verbose, questo primo capitolo scorre fluidamente: presenta lo scenario e il terzetto di protagonisti, che ricevono una caratterizzazione magari stereotipata ma comunque solida. L’atmosfera è quella tipica di tante storie del dopo catastrofe: se il senso di perdita è reso in maniera didascalica attraverso il racconto di un incubo senza seguito, con l’annuncio della minaccia che sta per travolgere la comunità la tensione aumenta e il ritmo accelera.
Stessa progressione notiamo nell’espressività dei personaggi, che diventa via via più efficace: maggior contributo all’atmosfera la dà tuttavia il colore, che, con le sue tonalità calde, avvolge tutta la vicenda di un calore soffocante, che trasmette una sensazione di aridità e spossatezza.
Con Dark Red Tim Seeley si cimenta con un tema classico della narrativa horror, quello dei vampiri, ma lo fa adottando un punto di vista inusuale rispetto a quanto il cinema e la letteratura ci hanno abituati. Lungi infatti dall’essere un gentiluomo col mantello o un giovinetto in crisi adolescenziale che sbrilluccica al sole, Chip è un ragazzo assolutamente normale, che per tirare avanti lavora come addetto alle pulizie in una stazione di servizio di una piccola cittadina di campagna.
Quello descritto dall’autore è un contesto socio-culturale estremamente conservatore, riflesso di un’America trumpiana che odia il diverso e nel quale il vampirismo diventa appunto anche una metafora delle minoranze discriminate. Un contesto efficacemente esplorato, nelle sue sfaccettature e contraddizioni, attraverso lo scambio di battute tra il protagonista e Eve, l’unica persona a conoscenza della sua vera natura e con la quale Chip ha instaurato un rapporto simbiotico di mutuo beneficio, reso in maniera piuttosto credibile.
Per il resto, tuttavia, la linea narrativa portante di questo primo albo non si configura come qualcosa di particolarmente innovativo; c’è un gruppo di vampiri cattivi che vuole espandere il proprio territorio di caccia, c’è una donna misteriosa che pare ricoprire una qualche importanza fondamentale per la razza dei succhiasangue, tutti elementi che bene o male sanno di già visto e che non stimolano più di tanto la curiosità per gli sviluppi futuri.
Dal canto suo, la disegnatrice Corin Howell adotta uno stile un po’ anonimo, efficace nel dare volume alle figure umane ma che in generale non si distingue per particolari guizzi personali. Unica cosa degna di menzione è la scelta, all’interno di una colorazione per lo più spenta e desaturata, di dare al sangue una tonalità quasi fluo per farlo risaltare. Una soluzione poco realistica ma visivamente peculiare.
Per BOOM! Studios arriva una nuova serie firmata da Brian Azzarello che ha letto per noi Federico Beghin.
Sesso e magia, il sesso è magia? Con un colpo di scena inaspettato e forse provocatorio, Brian Azzarello sembra interrogare il lettore su questa possibilità. Il tratto graffiato e nervoso di Maria Llovet mette in scena la vicenda di Faith, protagonista dell’esplicita nuova serie Faithless.
Dallo sfondo di una città, di un casa e di un bar colti attraverso rapide istantanee, talvolta sostituito da anonimi pannelli dai colori tenui, emergono la protagonista e una ragazza tanto affascinante quanto misteriosa. La prima casualmente fa conoscenza con la seconda e vive una giornata particolare. Che si tratti di una semplice coincidenza? L’autore non dà spiegazioni, ma già il fatto che Faith creda nell’esistenza della magia e nella conseguente facoltà delle persone di influenzare gli eventi, insinua un dubbio alimentato dalla pagina conclusiva.
La trama, che tramite l’allusione genera curiosità, scorre fluida grazie ai dialoghi immediati e brillanti e al ritmo rapido, assecondato dalla scansione prevalentemente orizzontale della gabbia, nella quale i personaggi si muovono con disinvoltura, anche varcando i confini tra una vignetta e l’altra.
In chiusura si segnala la bella ed evocativa copertina realizzata da Paul Pope, artista dalla connotazione sia pop che underground, capace di sintetizzare in un’immagine i toni del fumetto.
L’etichetta Berger Books della Dark Horse Comics presenta una nuova serie fantascientifica scritta da G. Willow Wilson per i disegni di Christian Ward. L’ha letta per noi Simone Rastelli.
Con Invisible Kingdom, firmato da G. Willow Wilson (testi) e Christian Ward (disegni e colori), siamo nella pura fantascienza classica: un sistema solare con quattro mondi abitati da specie intelligenti diverse fra loro, nessun viaggio iperluminale, un’azienda di consegna merci che domina l’economia (Lux, un’Amazon interplanetaria) e una religione (la Riconciliazione) che predica la rinuncia al mondo. A innescare la vicenda, per ora condotta su due linee narrative distinte, un flusso di denaro illegale scoperto casualmente. L’ambientazione è ricca di elementi e la Wilson indulge in alcune spiegazioni sulla varietà delle specie; l’alternanza fra le due trame dà ritmo a un racconto dal passo assai pacato, focalizzato sul presentare lo scenario e le due protagoniste: la Comandante Grix, che guida una nave di trasporto della Lux, e Vess, novella Suora della Riconciliazione.
Ward materializza nelle immagini mondi affollati da costruzioni e forme naturali suggestive, definite attraverso i contorni e pochi dettagli, così che l’alienità è percepita chiaramente senza tuttavia bloccare lo sguardo, libero di seguire flusso del racconto. La costruzione di tavola utilizza griglie continuamente variate ma sempre ben definite; ai colori, il compito di definire la sostanza di corpi e oggetti, attraverso contrasti netti.
Le varie specie che popolano i mondi hanno sembianze umanoidi – scelta che consente ai personaggi di comunicare emozioni tramite l’espressività dei volti – e appaiono organizzati in strutture sociali ed economiche del tutto simili a quelle umane: la loro alterità è al momento affidata alle allusioni alle loro categorie di genere, non basate su due soli sessi.
La sensazione lasciata da questo debutto è quella di un racconto con ambizioni che vanno al di là della spettacolarità e del mistery, innestata su un solido tronco che affonda le sue radici nella fantascienza speculativa degli anni ’70, con riferimento obbligato Ursula K. Le Guin.
Emilio Cirri ci parla di The life and death of Toyo Harada #1, pubblicato da Valiant Comics.
A distanza di due anni dalla serie Imperium, Joshua Dysart torna nell’universo di Harbinger, Unity e Bloodshot per scrivere una nuova storia sul personaggio a cui più è affezionato e su cui ha dato il meglio di sè: Toyo Harada. E, considerato il titolo, la storia potrebbe essere l’atto finale del mefistofelico psiota, trasformatosi nelle mani dello scrittore da “semplice” nemico di Peter Stanchek e dei suoi Renegades a vera e propria minaccia globale.
In questa nuova miniserie, l’autore ci presenta il passato e il presente di Harada, spiegandoci come sia diventato quello che è e quali siano i suoi piani: la guerra in Giappone e la tragedia di Hiroshima, la scoperta dei poteri quasi divini, la voglia di cambiare il mondo ricorrendo a qualsiasi mezzo e la sua lenta trasformazione in un dittatore illuminato. In questo modo lo scrittore costruisce una vera e propria epica del personaggio, andando a completare il mosaico costruito nell’arco di sette anni.
Al tempo stesso porta avanti la trama imbastita in Imperium: la nuova Fondazione è messa sotto assedio dal progetto Spirito Nascente, supportato da Cina e di altri paesi alleati contro Harada, e minacciato da tradimenti interni. Come già fatto nella precedente serie, lo scrittore racconta le reazioni credibili dei governi più potenti del mondo nei confronti di una minaccia superumana. Il contrasto tra Harada e le superpotenze mondiali diventa un modo per discutere degli equilibri mondiali, delle strategie espansionistiche dei vari paesi, dell’etica della politica e del mondo industriale, nonché del loro cinismo e relativismo: se Harada è un uomo con una ambizione enorme e un piano nobile, portato avanti con mezzi atroci e terribili, il capo del Progetto Spirito Nascente, Kolkoz, è un uomo avido di potere e guadagni, che non si fa scrupoli a commettere nefandezze simili o superiori al nemico pur di guadagnare di più. Tutte queste riflessioni sono integrate molto bene all’interno di un buon fumetto di azione, che si regge sulle relazioni conflittuali tra i vari personaggi, che espongono in questo modo i loro punti di forza e le loro debolezza, diventando tridimensionali e credibili.
Così come la storia, anche i disegni sono divisi su due piani di racconto, con la narrazione del passato affidata di volta in volta ad un artista diverso. Il primo a confrontarsi con Harada è Mico Suyan: il tratto del disegnatore è fine ed elegante, dettagliatissimo e iperrealistico, eppure sempre pervaso di un senso di sogno terrificante e angoscioso, reso grazie a inquadrature da sotto e da prospettive leggermente deformate. In questo modo, Suyan riesce a rendere perfettamente l’atmosfera inquietante che percorre la vita del giovane Harada, visto come un dio onnipotente e disumano da alleati e nemici.
La storia nel presente è invece interamente disegnata da Cafu, disegnatore più classico e “quadrato”, che con un tratto pulito e dinamico e con abili giochi di inquadrature in disequilibrio riesce a rappresentare al meglio le scene di azione. Il segno sottile e sicuro, esaltato dai colori patinati di Andrew Dalhouse, delinea nel dettaglio i corpi e le ambientazioni, soprattutto quelle che hanno a che fare con tecnologie belliche avanzate. La cura del dettaglio si ritrova anche nei primi piani suoi volti dei personaggi, anche se l’artista non sempre riesce a rendere le piccole sfumature espressive necessarie alle diverse situazioni, diminuendo quindi l’impatto emotivo della vicenda.
Il probabile ultimo atto della storia di Dysart su Toyo Harada inizia rispettando le attese di chi ha seguito la sua parabola fino a qui, e fa ben sperare per un epilogo degno di un personaggio carismatico e profondo, da annoverare tra i migliori villain del fumetto statunitense seriale degli ultimi anni.
Di seguito, le copertine delle altre novità degli editori indipendenti.
Per questa puntata è tutto. First Issue torna il 01 maggio 2019, con la puntata #45.
Stay tuned!
[Un ringraziamento al nostro Paolo Garrone, che cura la gallery delle cover su Facebook per ogni puntata di First Issue.]