Silvia Ziche è una delle più eclettiche e apprezzate autrici di fumetti italiane, capace di passare dal fumetto disneyano – con cui si è fatta conoscere e si è affermata presso il grande pubblico – a opere come Noi due (SBE Audace) e i vari libri dedicati a Lucrezia, suo alter ego su carta. Tutto questo restando sempre nel solco dell’ironia – agrodolce, a tratti amara – e della comicità, stemperando i toni ma mai i contenuti di varie sue opere.
Con La gabbia, uscito per Feltrinelli Comics a ottobre 2022, Ziche ha compiuto un ulteriore step nella sua carriera professionale, dando vita a un fumetto che tratta un tema drammatico come la depressione e uno universale e atavico come il rapporto tra madri e figli. Lo fa partendo da un nucleo autobiografico per arrivare a imbastire un racconto più universale, con la capacità propria dell’autrice di riempire le pagine di sorrisi e ironia che veicolino un messaggio positivo, senza lasciare mai solo il lettore all’interno di una esperienza in alcuni momenti drammatica.
Con l’opera candidata nella categoria “Miglior fumetto italiano” e l’autrice in quella “Miglior sceneggiatura” ai Premi Micheluzzi che saranno assegnati al Napoli Comicon 2023, abbiamo parlato con Silvia Ziche di che cosa abbia significato per lei lavorare a un fumetto come La gabbia e di come, talvolta, questo linguaggio possa essere salvezza e balsamo nei momenti più complicati della nostra esistenza.
Bentornata su Lo Spazio Bianco, Silvia.
Hai raccontato in più di una occasione che quello su La Gabbia è stato un lavoro lungo, sintesi di appunti, riflessioni e materiale raccolti per vari anni. Però ti chiedo: ricordi qual è stata, se c’è stata, la prima tua immagine mentale legata all’aspetto di un personaggio, di una scena, di una delle ambientazioni del libro?
Sinceramente non ricordo. Quello che invece ho ben chiaro è che ho cercato in tutti i modi di evitare di fare questo libro. Gli appunti erano per me, avrebbero dovuto servire a me per cercare di dare un senso a un periodo complicato che aveva riesumato il dolore di tanti altri periodi complicati della mia vita. Quando da Feltrinelli è arrivata la richiesta di un altro progetto, ho cercato di trovare un’altra storia per poter chiudere questa in un armadio. Ma non è stato possibile. I miei pensieri finivano sempre lì. A un certo punto ho riletto tutti quegli appunti e ho visto che formavano un racconto sensato. In qualche modo ho subìto una decisione che ho preso a livello subliminale. A quel punto le prime immagini che sono apparse, anche se non ancora con i personaggi ben definiti, sono stati la scena iniziale e l’ambientazione in una testa confusa e disordinata.
Le protagoniste de La Gabbia sono Letizia, la madre, e Serena, la figlia. Due nomi ossimorici, senza dubbio, che però nascondono un’ironia, un sorriso di fondo che svelano la tua volontà di raccontare una storia certo non leggera e divertente dandole però una forma coinvolgente e non negativa. Quando sono nati quei nomi e sono sempre stati gli stessi fin dall’inizio?
I nomi sono frutto di una ricerca, quello che ho saputo fin dall’inizio è che sarebbero stati dei nomi in contrasto con il carattere delle protagoniste. Avevo un elenco di nomi che esprimevano gioia e da lì ho scelto. Sapevo che avrei raccontato questa storia cercando di non darle un tono solamente negativo. Non sopporto il vittimismo. E una storia così, presa troppo sul tragico, rischiava di dare ai personaggi delle definizioni nette, che nella vita invece sono sempre molto sfumate.
Ritornando alle poche ma efficaci ambientazioni del libro, quella della mente di Serena come una soffitta è sicuramente azzeccata perché le soffitte sono ambienti sì incasinati, ma anche luoghi della memoria nella cui confusione di ciarpame e ricordi è bello rifugiarsi ogni tanto. Come è nata quella metafora?
Si è affacciata da sola, non l’ho cercata. Diciamo spesso che siamo confusi, incasinati. Era il modo più diretto e chiaro di visualizzare questa confusione. Ci rifugiamo in noi stessi molto spesso. A volte anche per soffrire, per creare la nostra sofferenza o per rispolverare delle sofferenze passate da rivivere con calma. È una delle tante gabbie che ci costruiamo da soli. In quella soffitta quindi ci sono i ricordi belli e quelli brutti. Ma essendoci una grande confusione, cercando gli uni è molto facile che ci caschino addosso gli altri. E viceversa.
Soffermandoci sul disegno, anche in questo libro non rinunci al tuo tratto distintivo e cartoonesco, a cui però applichi un segno più realistico e meno grottesco come già fatto in Noi due. Grazie a questo scarto tra i temi trattati e la resa dei personaggi che di questi temi dibattono, a mio avviso aiuti i lettori ad avventurarsi con più leggerezza in un racconto emotivamente impegnativo. È stata una scelta voluta?
All’inizio, quando i personaggi non erano ancora definiti, per un po’ ho giocato con l’idea di cercare un segno un pochino più realistico, ma ci ho rinunciato subito. Non volevo che la storia prendesse una deriva troppo seria. Ho visto che il mio solito segno, più leggero, avrebbe contribuito a dare alla storia il tono che stavo cercando.
In pratica hai strutturato le pagine de La Gabbia in modo che il lettore percepisca quello che, per esempio a teatro, viene trasmesso dalla recitazione degli attori: silenzi, sovrapposizione di voci, variazione dei toni. È la struttura della pagina, che predilige il bianco, a dettare i ritmi del racconto e dei dialoghi, le pause e le accelerazioni: quanto hai lavorato sullo storytelling del racconto?
All’inizio ci ho messo parecchio a dare una forma al racconto. Ci sono state un paio di false partenze. Avevo molti appunti, molti frammenti di dialogo, ma non avevo idea di come organizzare il racconto. Sapevo che molto di quanto avevo scritto non sarebbe entrato nella storia, ma non sapevo ancora cosa. Alla fine ho identificato i blocchi, le fasi emotive che volevo raccontare. Ma non sapevo in che ordine le avrei raccontate, non sapevo quale sarebbe stato l’ordine giusto perché la tensione emotiva potesse rimanere alta senza risultare fastidiosa. Ho scritto e riscritto possibili scalette, poi sono passata alla sceneggiatura, e anche lì dopo una ventina di pagine ho mollato tutto, e il giorno dopo ho ricominciato. Una volta trovato il passo, sono arrivata in fondo senza più troppe difficoltà. Il ritmo, le pause, le accelerazioni sono legate all’emozione che cercavo di raccontare. Un po’ come l’accelerazione del ritmo cardiaco quando siamo preda di emozioni forti.
Arrivati in fondo alla lettura del libro, è impossibile non notare come dalla storia manchi qualsiasi figura maschile, anche del tutto periferica, se si esclude un uomo usato quale bersaglio per freccette. C’è una motivazione dietro questa scelta o è stato un qualcosa di involontario di cui magari ti sei resa conto solo a cose fatte?
Tengo a precisare che l’uomo bersagliato dalle freccette è vittima delle nevrosi di Serena, non è colpevole, non è un cattivo. Non sto criticando lui, non è lui il soggetto. Mancano le figure maschili perché è il racconto di un rapporto a due, totalizzante come è il rapporto con la madre nei primi anni di vita, e claustrofobico perché quando si è piccoli non si ha la possibilità di sottrarsi a questo rapporto. Nella vita di Serena c’è un padre, probabilmente dei fratelli. Ma non c’entrano con il rapporto tra Serena e Letizia. Proprio non ci entrano, non c’è spazio per loro nel disagio che le due donne hanno costruito e da cui non riescono a uscire. È una scelta consapevole, ho deciso che era una cosa tra loro due, un passo a due. E ho deciso anche che dovevo raccontare come a volte il disagio che ci portiamo dentro ci impedisca di avere un rapporto affettivo sensato con altre persone, al di fuori della famiglia.
Sempre in tema di uomini: in questo volume le relazioni con gli uomini di Serena falliscono per un motivo. Lucrezia viene da lì?
Questa è una cosa che ho scoperto lavorando a questo libro. Ho capito che ho sempre raccontato di rapporti interpersonali difficili, di cortocircuiti tra le persone, proprio perché la prima storia d’amore che ricordo, quella con la madre, non è andata benissimo. Lucrezia mi è servita a esorcizzare questo disagio da molto prima che io riuscissi a identificarlo chiaramente.
In una intervista che hai rilasciato a Luca Raffaelli a ottobre 2022, a ridosso dell’esordio in libreria de La Gabbia, ti sei definita “spaventatissima” perché, per la prima volta, in un fumetto parlavi di te stessa o forse perché, per la prima volta, presentavi in un tuo fumetto un tema complesso e non certo allegro, seppur in modo positivo. A circa sei mesi dall’uscita del libro, come ti senti?
Sono ancora spaventata. Mi sembra di poter archiviare il problema dell’aver fatto una storia diversa dal solito, in fin dei conti mi piace raccontare storie, farlo pigiando sul pedale della comicità o su quello dell’emotività è soltanto una scelta, un dettaglio. E ho visto che molte lettrici e lettori mi hanno seguita senza problemi, anche se alle fiere, quando li incontro, continuo a specificare che è un libro diverso dagli altri, quasi cercando di giustificarmi. Speravo, molto ingenuamente, che raccontare questa storia mi aiutasse a superarla invece non è successo. Non ancora, almeno. Però sto pensando al prossimo libro con Lucrezia, e questo è un buon segno. Ora ho bisogno di mandare avanti lei, di tornare a nascondermi.
Che riscontro hai avuto dai tuoi lettori e dai lettori in generale riguardo La gabbia? Ci sono stati incontri, mail o frasi che ti hanno colpito?
Tante persone mi hanno scritto riconoscendosi in tutto o in parte nel mio racconto. Questo mi ha colpito davvero tanto. Mi hanno scritto anche molti ragazzi e uomini, dicendo che ci avevano riconosciuto le loro difficoltà nel rapporto con la madre o con il padre. Probabilmente sono riuscita in qualche modo a isolare e a distillare il mio disagio, lasciando lo spazio perché altri ci potessero riconoscere il loro personale disagio.
È stata una terapia per te il lavoro su questo libro? Quando hai scritto la parola “FINE” a farlo era una Silvia diversa da quella che ha iniziato a scriverlo e disegnarlo (a parte la “convivenza a tre in soffitta” che, a proposito, come sta procedendo…)?
È stato terapeutico perché mi ha obbligato a un lavoro introspettivo molto impegnativo. Un conto è prendere degli appunti slegati, secondo il sentimento del momento. Un conto è organizzare un blob emotivo in un racconto sensato, che deve essere letto e deve avere delle gambe solide per camminare da solo. Questo mi ha obbligato a scrutare con attenzione abissi che magari avrei voluto dimenticare. Ma alla fine tutto il lavoro ha dato un ordine ai pensieri e anche al disagio. Grazie a ciò la convivenza a tre in soffitta procede, ma in forma meno litigiosa e traumatica.
La fotografia con cui chiudi il libro mi ha colpito fin dalla prima volta che l’ho vista e, leggendo poi alcune tue interviste, la interpreto come un tuo gesto di commiato verso tua mamma: è così?
Quella foto è rimasta nel mio telefono per anni. Non sapevo che l’avrei usata. L’ho scattata nello studio di mia madre quando, per fare posto ai parenti arrivati per il funerale, io sono finita a dormire lì. E c’erano queste due immagini che mi mettevano a disagio, erano così tristi, così negative… Le ho fotografate. Nessuno le ha mai più spostate, sono ancora lì. Scrivendo il libro mi sono accorta di come rappresentavano bene l’infelicità di mia madre e quindi ho cercato le foto per poterle disegnare. Solo molto più tardi, a libro praticamente finito, ho capito che quella foto doveva esserci, doveva chiudere il libro, chiudere una parantesi. Un po’ come una particolare spezia senza la quale una ricetta risulta insipida.
Esistono tanti noi diversi, a seconda di chi ci guarda e con cui ci relazioniamo: siamo figli, genitori, professionisti, amici, mogli o mariti. La consapevolezza che non esiste per nessuno un solo sé stesso può essere la chiave per relazionarsi positivamente nella nostra vita: può essere questo uno dei messaggi positivi de La Gabbia?
Abbiamo tante sfaccettature, siamo contraddittori, non siamo mai completamente buoni o completamente cattivi, spesso feriamo un’altra persona senza renderci conto (però poi pensiamo che gli altri ci feriscano sempre consapevolmente), spesso ci crogioliamo nel vittimismo e scansiamo qualsiasi responsabilità. Quindi sì, uno dei messaggi è che dobbiamo prenderci la responsabilità della nostra vita e delle nostre scelte, dobbiamo fare di tutto per essere consapevoli di noi stessi e delle nostre capacità e difetti, e dobbiamo costringerci a trovare quello che c’è di buono nelle altre persone, anche quando pare che non ci sia niente di buono. Si impara anche dai cattivi maestri, per contrapposizione. Tutto aiuta a crescere, ammesso che si voglia fare la fatica di crescere davvero.
Oggi che hai messo un po’ di distanza da quell’opera, ne cambieresti qualcosa?
No, al momento no. Lo capirò tra un po’. Riesco a guardare con un pochino di distacco un mio lavoro solo dopo un anno o più che non lo vedo. Non è ancora il caso de La gabbia.
Per la struttura che le hai dato, La Gabbia potrebbe diventare facilmente una pièce teatrale: se arrivasse un regista e ti chiedesse la possibilità di adattarla, come ti sentiresti?
Sarebbe bellissimo. In realtà ci sono delle difficoltà enormi. C’è un’unità di luogo che agevolerebbe la trasposizione teatrale ma non c’è unità di tempo: i personaggi vengono rappresentati in età diverse, penso che sarebbe un po’ difficile riuscire a portare in scena questi continui avanti e indietro nel tempo.
Il disegno aiuta a uscire dalla ‘gabbia’? Quando hai iniziato?
Come cerco di raccontare nel libro, disegnare e raccontare storie è stata la mia isola felice, la mia ancora di salvezza. Riuscire a creare un mondo su cui si ha il controllo aiuta a sopportare un mondo e una vita in cui pare che tutto ci sfugga. Ho cominciato da piccolissima. Sicuramente non sapevo ancora scrivere. Il disegno è stata la costante della mia vita, l’unica cosa che non ho mai rischiato di abbandonare. Non posso dire che mi abbia tenuta legata alla realtà, ma l’esatto opposto. Mi offriva una realtà alternativa quando quella esistente non mi piaceva. Detto così, sembra quasi una cosa pericolosa, una psicosi. Ma appena smettevo di disegnare (o di immaginare storie disegnate: non ho mai separato le due cose, neanche da bambina) ritornavo nel mondo reale e lo affrontavo con un po’ di energia in più.
E l’umorismo? Viene prima o dopo la sofferenza di un rapporto complicato? “Serena” si nasce o si diventa, insomma?
L’umorismo arriva dopo, sempre dopo. Quando si vive una situazione stressante, si è immersi in quel disagio, in quel presente. Solo quando si riesce a prendere un po’ di distanza si può trovare il lato divertente. A volte serve un alter ego, per trovarlo. Lucrezia mi è sempre servita a questo: immaginare come avrebbe reagito lei, in una situazione del genere, mi ha sempre portato a vedere la parte buffa, o surreale, delle cose.
In un’intervista hai detto che i tuoi genitori non hanno mai capito cosa facessi di lavoro. Se ti avessero letto, ti avrebbero conosciuta di più? Un lettore che cosa può conoscere delle storie che l’autore porta in scena?
Credo che un rapporto stretto come quello con i genitori o con i figli, a volte sia viziato da una sorta di pregiudizio: l’ho visto nascere, l’ho visto crescere, lo conosco perfettamente. Oppure, nel caso di un genitore, l’ho sempre visto, è sempre stato lì, una specie di mobilia nella mia vita, lo conosco benissimo, tanto da non farci più caso. Entrambe le cose non aiutano a conoscersi davvero. E se, inconsciamente, si è vittima di questi pregiudizi si tenderà a non decodificare l’altra persona neanche se questa si racconta per filo e per segno. I miei genitori hanno sempre avuto difficoltà a leggere fumetti. Mia madre leggeva Topolino, ma questo non l’aiutava certo a conoscermi meglio. Comunque le storie, qualsiasi storia, quando arriva in mano a un lettore deve essere autonoma, staccarsi dall’autore, di cui solo pochi possono riconoscere le tracce. Ma queste tracce non sono assolutamente indispensabili per leggere la storia, lei è un corpo a sé. È necessario che abbia degli spazi in cui il lettore possa metterci sé stesso e la sua esperienza, in cui si possa immedesimare. Un minimo comun denominatore con l’esperienza di altri esseri umani.
Le vignette di apertura del Topo, tutte le settimane, così come Lucrezia su Donna Moderna sono un lavoro “standard”, quasi ripetitivo verrebbe da dire: è difficile? Hai un qualche sistema per trovare ogni settimana la battuta giusta? Ti prepari qualcosa prima?
La ripetitività la trovo solo in alcuni eventi: feste, ricorrenze, stagioni… Ormai ho dei problemi serissimi con Natale e San Valentino. Il resto non è ripetitivo, o al massimo può essere un esercizio di stile, una ripetizione con variazioni. Quello mi piace, è una sfida. Quando riesco a trovare l’ennesima gag sulla pigrizia di Paperino sono molto contenta. Quando ci riesco con Natale e San Valentino, sfioro la felicità (per un microscopico istante, ma è così). Sia Lucrezia che i personaggi disneyani sono calati in una realtà che si evolve, come la nostra. Ci sono sempre nuovi spunti. E anche i personaggi sono come noi, crescono, sono vittime di mutamenti di umore, di sfortune o di momenti positivi. Quindi, proprio come noi, non reagiscono quasi mai allo stesso modo, in una situazione già vista. Per non trovarmi sguarnita prendo spesso appunti, anche quando la scadenza per la consegna non è pressante. Mi aiuta a non cadere nel panico quando la scadenza si avvicina. Ho già delle cose scritte, le rileggo, scrivo degli altri appunti, abbozzo delle mezze idee. Questo per me equivale un po’ a fare la spesa: se quando decidi di cucinare apri la dispensa e trovi gli ingredienti, qualcosa verrà fuori. È così anche per le vignette. Se ci sono un po’ di appunti e suggestioni è molto probabile che qualcosa venga fuori. Non è automatico, certo. Solo altamente probabile. Quello che non so spiegare è come arrivi l’idea di una battuta. Quasi sempre isolo una situazione che mi piace, che penso possa portare a una vignetta. Ma poi l’idea arriva così, in un istante. Dico sempre che è una specie di regalo. Sicuramente è una cosa bellissima. La devo appuntare subito perché le idee, come arrivano, se ne vanno anche in un istante.
La gabbia è in nomination in ben due categorie ai Premi Micheluzzi 2023, “Miglior fumetto italiano” e “Miglior sceneggiatura”. Questo a conferma dell’apprezzamento che questo tuo lavoro sta avendo non solo tra il pubblico ma anche tra gli “addetti ai lavori” del mondo del fumetto. A prescindere da quello che sarà il voto della giuria, che valore hanno per te queste nomination ottenute con un’opera diversa dal tuo solito, ma assolutamente appartenente alla tua cifra autoriale in tutto e per tutto?
Le due nomination per me sono già un premio, una specie di legittimazione a uscire un po’ dai miei soliti schemi. Avevo paura che lettrici e lettori non mi seguissero, rimanessero delusi nel non trovare in questo libro il solito umorismo, il solito sguardo distaccato sul mondo. E quindi questa cosa, oltre a rendermi felicissima, mi tranquillizza. Mi conferma che posso raccontare storie diverse dal solito senza perdere l’affetto dei lettori e senza deludere gli addetti ai lavori. Mi conferma che ogni tanto è bene uscire dai binari che noi stessi ci siamo tracciati.
Grazie per il tuo tempo e la tua disponibilità, Silvia.
Intervista realizzata via mail nel mese di marzo 2023
Silvia Ziche
Firma storica della Disney italiana, Silvia Ziche ha collezionato nel corso della propria carriera un importante numero di collaborazioni: dopo essere approdata alla rivista di fumetti Linus nel 1987, ha disegnato per Cuore, Smemoranda, Comix, Musica di Repubblica. Approda su Topolino nei primi anni Novanta, dove inizia a sviluppare il suo personale stile grafico, inizialmente debitore delle lezioni di Giovan Battista Carpi.
Nel 1996 scrive e disegna la lunga storia Il mistero del papero del mistero, serializzata in brevi puntate per richiamare lo stile delle telenovelas.
Tra le sue numerose pubblicazioni, i due volumi di Olimpo S.p.A. per i testi di Vincenzo Cerami, ¡Infierno! con Tito Faraci, San Francisco e Santa Pazienza, Prove tecniche di megalomania e per Sergio Bonelli Editore, sempre in coppia con Faraci, la miniserie Quei Due. Le storie del suo personaggi più celebre, Lucrezia, simbolo della donna disillusa alla perenne ricerca dell’anima gemella, sono oggi pubblicate da Feltrinelli Comics e sulle pagine di Donna Moderna, oltre che sul sito personale dell’autrice www.silviaziche.com. Il suo ultimo lavoro, per Feltrinelli Comics, è la graphic novel La gabbia, uscito nell’autunno 2022.