All’interno del festival internazionale del fumetto BilBOlbul, Percy Bertolini ha parlato del suo ultimo lavoro, Da sola, pubblicato da Diabolo Edizioni, durante una presentazione insieme a Émilie Gleason, autrice di Ted, un tipo strano. Per la durata del festival era anche presente una mostra che ne esponeva le tavole originali. Ne abbiamo approfittato per intervistarlə e saperne di più della genesi, della poetica e dei contenuti del suo fumetto.
Buongiorno Percy. Siamo qui al BilBOlbul 2021, il festival internazionale del fumetto di Bologna, dove hai presentato il tuo ultimo lavoro, Da sola. Negli spazi del Festival c’è anche una mostra dedicata al fumetto, dove sono esposte le tavole originali. Partiamo con una domanda difficile: che cosa racconta Da sola?
Questo fumetto racconta di un personaggio indefinibile, non si capisce se è umano o se è un altro tipo di animale (perché non dimentichiamo che anche l’umano è un animale). Per metà è ricoperto di peluria rosa, non ha nome, non ha un genere definito. All’inizio della storia viene accalappiato dalle autorità della città proprio in quanto diverso, strano, quindi potenzialmente pericoloso. Lo portano in una struttura dove viene misurato, pesato, analizzato, col tentativo di definirlo e in qualche maniera annientarlo. Il personaggio però si ribella e scappa. Si nasconde. Poi comincia un viaggio in cui viene raccontato il modo in cui vive, com’è il suo stare nel mondo. Non c’è bisogno che inneschi una rivolta, una lotta: semplicemente il fatto che esista e il suo essere così difforme è una minaccia per la normalità. Dentro questo libro ci sono tante cose che però non sono dei temi. La narrazione è nata in maniera libera e sciolta, senza uno storyboard prestabilito, senza né un’idea né un’ideologia. Se volessimo raccontare i temi che possiamo trovare dopo, troveremmo quello del corpo, della danza, del come sta il corpo nello spazio, la morte, le persone che vengono trasformate da soggetti a oggetti e che negli oggetti vengono imprigionate. Perché anche un animale quando viene catturato, ingabbiato, smette di essere un animale e diventa una cosa. In questi oggetti si muore, però da questi oggetti ci si libera anche. C’è tanto lavoro sulla bellezza, sulla ricerca del sublime e sulla danza. È un lavoro che parla anche dello stare e del vivere nel margine, che non è solo dolore, ma è anche danza liberatoria, gioia e piacere. Un piacere che ho cercato di trasmettere con l’uso di colori luminosi.
A posteriori mi sembra quindi che ci sia molto materiale nel tuo fumetto. Questo ha anche fare con l’invisibile: Da sola ha un rapporto particolare con la parola, con il silenzio, con la musica, la danza. Che invisibilità ci sono nella tua opera?
La grande domanda che percorre tutto il festival BilBOlbul di quest’anno è “come possiamo disegnare l’invisibile?”. In realtà, secondo me, in questa domanda c’è già un errore, perché significa pensare che l’invisibile sia qualcosa di altro rispetto a noi. Io non mi sono mai chiesto come disegnare l’invisibile, mi sono chiesto come potevo disegnare me e smettere di essere invisibile, ho fatto il percorso inverso. Questo personaggio è invisibile agli altri, se non nel momento in cui diventa visibile perché è scomodo. Ci sono tante tavole in cui si percepisce che è invisibile, è rappresentato come un’ombra rosa, trasparente, che quasi non tocca terra. È come se vivesse tra gli altri, ma in un’altra dimensione, come in un piano rovesciato. C’è un passaggio del fumetto in cui finisce in un sottosopra: ma anche se può sembrare un’eccezionalità, in realtà sta sempre in quest’altra dimensione. Qui è solo anche se è in mezzo agli altri, che infatti non lo vedono. È come se la camera che riprende queste scene fosse esterna al personaggio, ma allo stesso tempo noi vediamo con gli occhi di lui, che non incontra mai nessuno.
Riguardo ai testi, hai scelto di inserire degli estratti dai Diari di Nijinsky, un ballerino russo di inizio Novecento. Dall’altra parte il tuo fumetto è carico di silenzi. Che rapporto c’è tra le parole che hai scelto, il silenzio e i suoni? Perché comunque Da sola ha un suo ritmo, una sua musica.
I libri sono sempre pieni di suoni, persino quelli wordless: anche solo il voltare pagina, il rumore della carta è un suono, un beat. Io ho pensato questo fumetto come una canzone. Mentre disegnavo ho cominciato a suonare uno strumento che era il nero, poi ho inserito un altro strumento che era il rosa, come se entrasse all’improvviso un altro suono sulla traccia. Ho lavorato molto sul ritmo delle immagini, come per la velocità di una canzone. Poi è cambiato molto, perché inizialmente il fumetto era pensato per essere gigantesco e orizzontale, doveva essere sfogliato dall’alto verso il basso. Quindi è cambiato anche a livello concettuale: inizialmente la crescita del personaggio rappresentava una caduta. Poi ho lavorato per farlo stare nella gabbia del fumetto e renderlo verticale. È stato interessante perché le pagine grandi richiedevano al lettore un certo tempo di immersione, davano un certo ritmo. Quando sono state ridotte al formato A4 è stato come prendere una canzone e metterla a velocità x4. Fino all’ultimo ho sperato funzionasse lo stesso. Riguardo al testo, prima ho fatto tutto il lavoro silent, doveva funzionare senza parole, e solo dopo ho letto i Diari di Nijinsky, per non essere influenzatə. Quando li ho letti ho trovato così tanta corrispondenza che mi sono emozionatə: ho fatto un lavoro di estrapolazione e inserimento anche se avevo tanta paura che il testo prendesse il sopravvento sulle immagini. Temevo che si pensasse che i miei disegni nascessero in funzione del testo, ci ho messo tre anni a concludere questa ricerca molto personale. Ma per la dimensione del testo, molto piccola e inserita in una striscia in sovraimpressione, non c’era questo rischio. Quindi ho lasciato che questi due modi di esprimersi danzassero assieme, ma ognuno per conto proprio. È stato un tocco che non doveva essere troppo fitto per lasciare il respiro del silenzio.
Durante la presentazione del tuo fumetto con Émilie Gleason (autrice di Ted, un tipo strano) è emersa una cosa interessante, cioè che i soggetti divergenti fanno fatica a trovare un proprio spazio, un proprio posto, ed è anche di questo che parla Da sola. Pensi che la protagonista abbia trovato un buon posto nel tuo fumetto?
Il mio personaggio ha raccontato la bellezza del suo non-posto e del suo nomadismo, dell’attraversare senza appartenere mai. Perché quando si appartiene, in qualche maniera si muore un po’. Sì, ha trovato un buon posto quando si è espanso nello spazio, è diventato una figura gigantesca sui palazzi, come un dipinto rosa, un murales, una luce e un’ombra. Da microscopico e impotente è diventato potente, anche se non mi piace tanto questa parola. E non so se posso spoilerare, però alla fine ci tenevo che non si capisca se si tratti di una distruzione o un’esplosione di colore che pervade tutto. A quel punto il suo spazio è ovunque. Pensandoci, Da sola ha trovato uno spazio dentro le pagine del libro che adesso è ovunque. È per sempre su carta, nell’etere, nella memoria e nelle camerette di tutti.
A questo proposito è interessante il lavoro che hai fatto sullo spazio e sulla sua rappresentazione. Hai deciso di disegnare edifici brutalisti e la prima impressione può essere il classico contrasto tra personaggio e città cupa, opprimente, invece c’è una forte consonanza tra personaggio e spazio. In che senso?
In realtà anche questo non è stato ragionato, ho sentito un’affinità, ho realizzato che l’architettura brutalista aveva qualcosa a che fare con il mio personaggio. Solo dopo ho studiato il brutalismo e ho scoperto che a livello di poetica è proprio l’incarnazione del mio personaggio, perché si riferisce alla spontaneità e alla rudezza. La cosa buffa è che la parola “brutalismo” fa pensare a qualcosa di brutto, il mio personaggio è un mostro, quindi dovrebbe essere disgustoso; invece secondo me i palazzi brutalisti sono meravigliosi e il mio personaggio è molto bello per essere un mostro, è quasi angelico. I palazzi li ho disegnati sospesi nel vuoto, non toccano mai terra, come anche la protagonista, spesso sospesa. Sembrano delle apparizioni. C’è un contrasto fortissimo tra la pesantezza di questi edifici di cemento e il fatto che galleggiano nell’aria. Però anche l’interpretazione dell’architettura opprimente va bene lo stesso: le cose non sono tutte buone o tutte cattive.
Un altro aspetto che colpisce di Da sola è quello della danza e del corpo. Nel momento in cui il linguaggio viene a mancare (anche dalle parole di Nijinsky emerge una profonda solitudine) sembra che il tuo personaggio riesca a esprimersi attraverso il movimento e la danza. Che cosa comunica?
La protagonista innanzitutto non danza in modo consono: di solito si balla per un motivo, che può essere uno spettacolo, una performance, in luoghi adatti alla danza. È sbagliata nella sua danza perché balla in strada, in posti impensabili. Danza persino in un cimitero, arrampicandosi sopra una lapide, che è un luogo sacro per gli esseri umani. La danza è la sua liberazione, la sua gioia, il suo modo di dire che non è un oggetto, ma una cosa viva, fluida. In più balla da sola, mentre di solito si balla insieme, o in coppia o in gruppo. Ballare da soli è ancora stigmatizzato e quindi in qualche modo rivoluzionario, soprattutto per una persona identificata come femmina. Ci sono tre tipi di danza nel mio fumetto: una inizia quando la musica pervade il personaggio e lo trasforma in delle ombre che prendono vita e ciascuna balla a suo modo. Qui la protagonista diventa trasparente, mentre il colore la riempie e la fa diventare tutta rosa. Un’altra danza è profondamente connessa alla morte: è la danza macabra, che si svolge nel cimitero insieme a degli scheletri. E poi c’è il tuffo, che è una caduta con una coreografia, quindi una forma di danza. Il tuffo rappresenta la morte, infatti noi sappiamo che uno dei primi dipinti di cui ha memoria la storia dell’arte è la tomba del tuffatore, in cui il tuffo rappresentava il passaggio nella dimensione della morte. Secondo me le persone che stanno ai margini, gli anziani, i freaks, i pazzi, gli anormali e anche i bambini, sono molto connessi alla morte, perché sono figure della soglia. Spesso dimentichiamo di essere connessi alla morte, invece il mio personaggio la sente come cosa vera e ci danza, ci gioca, come con un’amica.
Un elemento che colpisce proprio riguardo alla danza macabra è che uno degli scheletri rompe un orologio: è come se spaccasse il tempo. Il tuo personaggio si pone su una soglia anche per l’età, è un adolescente, che nello stereotipo significa essere in una fase di passaggio. Cosa puoi dirci del tempo nel tuo fumetto?
Il personaggio vive in un’altra dimensione, in cui la convenzione del tempo non esiste. Questo mi riporta ad esempio a Peter Pan, che vive in un’isola dove gli orologi sono una minaccia, sono dentro il coccodrillo. D’altra parte, non sappiamo se questi bimbi sperduti sono liberi, se vivono in un aldilà festoso e sono morti. La protagonista sta fuori dalla quarta dimensione del tempo, una dimensione estremamente crudele, e lo spacca, è un’altra gabbia che rompe. La questione del tempo è molto presente anche nel lavoro di Émilie Gleason: Ted dice che non può stare senza orologio, gli succede di tutto perché sbaglia l’orario del treno… io per esempio, anche all’università ho fatto tanta fatica a stare nella dimensione del tempo, perché la creatività porta a distrarmi e a perdermi.
Un’ultima domanda di rito: ti stai godendo il risultato della pubblicazione o stai già lavorando a qualcos’altro? Usi anche un altro stile, molto diverso da quello di Da sola, che è quello di Percy il buio.
Sì, quello è ancora di più lo stile della mia libertà, perché è immediato, velocissimo, ed è una parte molto importante del mio disegnare: io ho iniziato da bambinə a fare fumetti che erano umoristici, poi col tempo l’umorismo si è perso e ora che l’ho ritrovato mi aiuta a sopravvivere. Disegno vignette di Percy il buio quasi tutti i giorni e mai per imposizione, se non viene spontaneo non lo faccio. C’è la mezza idea di pubblicarne una grande raccolta e sarà molto interessante vedere insieme questi due libri cartacei completamente diversi. Per un nuovo oggetto di lungo respiro aspetto un po’, ho bisogno di lasciar sedimentare Da sola, anche se c’è l’intenzione di sviscerare i temi che in questo primo lavoro sono molto concentrati e rarefatti.
Intervista realizzata dal vivo al BilBOlbul 2021
PERCY BERTOLINI
È natə ad Ancona nel 1988. Ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Bologna ed è pittorə, fumettista e street artist. Ha pubblicato con Edizioni Minoritarie Non fissare, un suo fumetto è presente nella raccolta Sporchi e Subito edito da Feltrinelli Comics, ha autoprodotto la serie a fumetti Paolo Fox e, insieme ad Antonia Caruso, La transfobia spiegata ai scemi. Da sola, uscito per Diabolo Edizioni, è il suo primo lavoro di narrativa per immagini di più ampio respiro.