Antonio Solinas : dall’altra parte della barricata – 2a parte

Antonio Solinas : dall’altra parte della barricata – 2a parte

Continuiamo la nostra chiacchierata con Antonio Solinas, editor Panini Comics che ha mosso i suoi primi passi nel mondo delle fanzine e della critica web.

Laureato e PhD in Chimica Organica, ha lavorato nel campo bio-organico prima nel Regno Unito e poi in Italia. Dopo essere stato impiegato, fra il 2009 e il 2012, presso un’azienda privata, dal 2013 ha cambiato completamente settore, diventando editor e traduttore per . Fanzinaro e fondatore del primo circolo dedicato ai fumetti in Sardegna a metà anni ’90, il circolo Metropolis, ha pubblicato come sceneggiatore per la casa editrice Liberty di Ade Capone ed è stato tra i fondatori di alcune storiche webzines dedicate al fumetto, Rorschach, Comics Code e De:Code. Leggi qui la prima parte dell’intervista.

ConcreteQuali sono i volumi da te curati che ti hanno dato le maggiori soddisfazioni?
Una cosa di cui vado molto fiero è l’edizione completa in sette volumi fatta da Panini dell’omnibus di Concrete di Paul Chadwick, una saga che in precedenza era stata presentata in Italia in maniera caotica sempre incompleta e spezzettata da mille editori diversi.
Ogni volume dell’edizione Panini sia avvale di una copertina inedita fatta dall’autore (tutte splendide) e inoltre ho avuto la possibilità di fare una lunga intervista a Chadwick – che poi ho proposto in più parti in appendice ai sette tomi – in cui lui spiega cosa si prefiggeva di raccontare con Concrete e qual è stato il suo percorso, visto che ci ha impiegato quasi trent’anni a completare l’opera.
Tra l’altro, proprio supervisionando l’edizione di Concrete, dovendo leggere attentamente ogni pagina e ogni balloon, mi sono reso conto io per primo di quanto sia sottovalutato Chadwick, autore dotato di una prosa dalla qualità a tratti paragonabile a quella di un Alan Moore, a mio avviso.
Altro progetto di cui vado molto fiero sono i quattro volumi di Zenith di Grant Morrison, il primo supereroe apparso sulle pagine di 2000AD, storica rivista di fumetto britannica. Per me è stato un onore curare l’edizione italiana di queste storie che si possono tranquillamente definire seminali per la rinascita del genere supereroistico negli anni ’80.
Tra le soddisfazioni non posso non menzionare il volume Il quinto Beatle. L’edizione italiana è stata un’anteprima mondiale uscita con una settimana di anticipo rispetto agli USA e lì c’è stata la sfida di lavorare in contemporanea al lavoro fatto sull’edizione originale – tra l’altro traducendolo nei caldi giorni di agosto – e quando poi ho conosciuto Vivek J. Tiwary, l’autore, ho ricevuto i complimenti per il lavoro svolto.

Hai avuto la possibilità e il merito di lavorare all’edizione italiana integrale di tre personaggi fondamentali per il fumetto statunitense oltre al sopracitato Concrete, Grendel di Matt Wagner e Madman di Michael Allred. Quali sono stati i riscontri da parte dei lettori – se ci sono stati – su queste tre operazioni?
A onor del vero devo dire che i diritti di tutti e tre i personaggi erano già stati acquisiti da Panini prima del mio arrivo e devo dare il merito della loro pianificazione al già citato Nicola Peruzzi, persona preparatissima e umana.
È altresì vero che, con un po’ di vanità, posso ascrivermi un po’ del merito di avere fatto appassionare io Nicola a un personaggio come Grendel: la prima volta che ci siamo incontrati di persona, dopo le collaborazioni online, io indossavo proprio una t-shirt con il personaggio di Wagner!
Scherzi a parte, talvolta ho la sensazione che il mercato italiano sia fin troppo inflazionato di uscite e nel mare magnum delle pubblicazioni purtroppo si perdono magari volumi che presentano opere d’importanza fondamentale per il fumetto.
Sono contento che Panini abbia alla fine consegnato ai lettori un’edizione degna del valore di ciascuno di questi tre personaggi. Se pensiamo che oggi autori come Allred e Wagner sono ancora colonne portanti del fumetto mainstream statunitense, si percepisce l’enorme importanza che le loro opere “indie” hanno avuto per il genere.
Non mi occupo dei dati di vendita, ma posso dirti che tramite la mail che abbiamo messo a disposizione dei lettori per ricevere feedback, sono arrivati vari commenti e ciò che mi ha colpito di più e che sono stati tutti interventi molto analitici di lettori che avevano letto con molta attenzione i volumi e che avevano apprezzato lo sforzo lavorativo messo in ognuno dei progetti.

MadmanQual è il “lato oscuro” dell’avere trasformato una grandissima passione in un lavoro?
In realtà io non vedo lati oscuri, anche perché avendo la fortuna di lavorare da casa, sono un po’ al riparo da quelle che possono essere le “patologie” da posto di lavoro, come i ritmi stressanti che possono esserci all’interno di una redazione. Ho poi il privilegio di lavorare con persone con cui mi sono sempre trovato molto bene e con cui ho uno splendido rapporto.
È anche vero che stare davanti allo schermo di un computer tutto il giorno, se da una parte mi consente di cazzeggiare quando ne ho voglia (e soprattutto quando posso: il tempo è quel che è!), dall’altra fa si che i miei occhi stiano ormai iniziando a pagare dazio a questa situazione.

Tradurre significa in primis adattare un fumetto pensato per lettori con basi culturali e sociali diversi rispetto ai fruitori dell’opera tradotta, nel nostro caso rispetto ai lettori italiani che per forza di cose hanno una formazione e dei background diversi rispetti al pubblico statunitense. Penso per esempio alle difficoltà che hai dovuto superare nel lavoro su un fumetto “complesso” come Hip Hop Family Tree.
Premetto che, in ogni traduzione, la differenza la fa il materiale di partenza. Hip Hop Family Tree, dove quell’autore folle che passa sotto il nome di Ed Piskor ripercorre la storia della musica hip hop a partire dalla fine degli anni ’70 a oggi, è sicuramente un esempio peculiare.
Al momento sono usciti il primo e il secondo volume, che coprono un lasso di tempo fino al 1983.
Come tutti credo sappiano, il mondo della musica hip hop è un mondo ricco di slang e così mi sono trovato a dovere scegliere tra un linguaggio slang italiano adattato, che avrebbe avuto le sue forzature e sarebbe stato sì più comprensibile da un determinato pubblico ma ne avrebbe al tempo stesso alienato un altro.
Ti faccio un esempio: le persone che normalmente ascoltano e si occupano di musica hip hop in Italia, non chiamano graffiti le scritte sui muri, ma usano il termine “pezzi”. Io ho scelto di chiamarli graffiti, perché non aveva senso dal mio punto di vista usare un termine più specifico e settoriale all’interno di un’opera pubblicata da una casa editrice generalista come Panini. Detto questo, ho comunque cercato di mantenere un registro linguistico vicino allo “street” ma che non suonasse finto: insomma, ho cercato di evitare espressioni tremende come: “Yo, bello!“, che stanno meglio su Il Principe di Bel Air. Ho provato a perseguire una fluidità di linguaggio che devo dire è stata apprezzata da chi ha recensito il volume.

ZenithTu hai svolto un lavoro di supervisione per l’edizione italiana di alcune opere di due grandi autori britannici come Alan Moore e Grant Morrison: in che modo si lavora sull’adattamento in un’altra lingua dei lavori di due “mostri sacri” del fumetto mondiale?
Il lavoro su Zenith di Grant Morrison l’ho svolto in coppia con Giovanni Agozzino e devo dire che non ci ha dato particolari problemi, anche perché il materiale di partenza era molto “pop”.
Più che sulla traduzione (ottimamente eseguita da Giovanni), l’attenzione maggiore l’ho messa sulla presentazione del personaggio e dell’opera al pubblico italiano. Per tale motivo ho redatto delle schede da pubblicare in coda ai volumi che contestualizzassero un fumetto che era figlio della fine degli anni ’80 inglesi e quindi, solo per fare alcuni esempi, Jonathan Ross in televisione, la BBC, la fine del tatcherismo, etc.
Sulla traduzione non abbiamo avuto difficoltà perché era un linguaggio in fondo semplice. Morrison in quel caso più che un lavoro sul linguaggio usato, si è concentrato sui metasignificati che però estrinsecava a livello di trama.
Lavorare su Alan Moore è tutto un altro discorso. Prima di tutto, da tradurre è un incubo, almeno sulle opere su cui ho lavorato io  – Providence, Neonomicon e I funghi di Yuggoth – perchè, in particolare le prime due, fanno parte di uno stesso mondo fumettistico in cui l’autore mette in atto delle precise e volute operazioni dal punto di vista del linguaggio. Prima di tutto, deve ricontestualizzare l’epopea di Lovecraft e questo viene fatto creando un universo che, in sostanza, è una copia di quello inventato dallo scrittore statunitense ma al contempo include Lovecraft stesso. In questo contesto, Moore gioca con tutta una serie di doppi sensi legati al mondo che sta creando. Per esempio, quando crea un analogo di Pickman (da The Pickman’s model – racconto di H.P. Lovecraft, 1926 – n.d.r.) – che nell’opera originale si chiama per intero Richard Upton Pickman – Moore lo trasforma in Ronald Underwood Pitman, giocando sul significato dei due nomi (Underwood: sotto il legno, Pitman: l’uomo del pozzo) e legandoli all’idea dello scendere in profondità. Questo giusto per dare l’idea del lavoro fatto dal Moore a partire dalla semplice scelta dei nomi dei personaggi e dei luoghi.
Una delle tesi che lo scrittore britannico porta avanti in Providence è che il linguaggio, se manipolato in una determinata maniera, ha una funzione magica e quindi è in grado di cambiare la realtà.
Questo porta alla necessità di avere un controllo molto preciso su tutta la traduzione. Sia in Providence che in Neonomicon ho lavorato insieme a Leonardo Rizzi che è uno dei migliori traduttori italiani e che ha fatto un lavoro eccellente e la collaborazione ha funzionato in modo leggermente diverso da quello che succede di solito.
Normalmente, prima di iniziare il lavoro, il traduttore mi comunica se ha dei dubbi o degli aspetti di cui vuole discutere assieme; fatto ciò, io lascio che lui compia la sua opera e una volta completata, io vado a operare un controllo, riservandomi di agire su alcuni aspetti, come modificare una battuta per accorciarla o perché magari non ha la stessa potenza narrativa di altre.
Quando hai a che fare con Alan Moore, però, devi lavorare un po’ diversamente, nonostante i tempi tecnici siano sempre molto stretti e veloci, e devi avere uno scambio continuo con il traduttore. Questo è avvenuto sia con la brava Elena Cecchini su I funghi di Yuggoth sia con Leonardo Rizzi. In Neonomicon c’è una battuta sulla quale praticamente si regge l’intera storia che non poteva essere resa con lo stesso senso in italiano: questo ha portato a un confronto tra Leonardo, il sottoscritto e anche Nicola Peruzzi. Abbiamo iniziato a rimpallarci le nostre idee e da una prima scelta di traduzione molto grezza che non soddisfaceva nessuno, siamo arrivati a una forma finale nata dall’unione dei contributi di ognuno di noi miscelati insieme.
Quindi, per concludere il discorso, la verità è che Morrison mi ha posto molti meno problemi di Moore!
Zenith, per la verità, mi ha posto una problematica diversa, cioè farmi approvare dalla Titan – casa editrice britannica del personaggio – una scheda di presentazione che avevo scritto per l’edizione Panini, dove riportavo una cronistoria su cui loro non erano pienamente d’accordo. Ho dovuto un po’ difendere la mia scelta (avevo ragione io: avevo già fatto bene i compiti con il mio libro!), ma alla fine tutto si è risolto.

Funghi YuggothCerto che, da quanto hai appena raccontato specialmente sulle opere di Moore sulle quali hai lavorato, penso che da parte tua sia stata necessario prima uno studio dell’opera di Lovecraft per poter svolgere al meglio il tuo ruolo…
Sì, ho dovuto studiare, anche perché non sono un lettore “forte” dell’opera di Lovecraft. Quindi mi sono dovuto documentare in maniera consistente, anche per scrivere le postfazioni dei volumi e dare al lettore una base su cui capire quale sia il contesto nel quale Moore si è mosso per scrivere i fumetti. È vero che la storia è fruibile anche a sé, ma se uno conosce il quadro generale di riferimento, ha un livello di lettura più interessante e approfondito. E in questo sono stati preziosi i già nominati Elena e Leonardo, con i quali è sempre un piacere lavorare.

Mi incuriosisce anche il lavoro che è stato fatto su King City di Brandon Graham. Come avete risolto in quel caso le difficoltà di adattamento, non solo della traduzione, ma anche per esempio del lettering?
Anche su King City ho lavorato insieme a Leonardo Rizzi e anche in quel caso la sua collaborazione è stata determinante perché quella di Graham è un’opera molto problematica dal punto di vista della traduzione, anche se dal punto di vista interpretativo lasciava molto più spazio di manovra rispetto a Moore. In Providence, oltre alla forma, andava posta molta attenzione sul significato che si voleva esprimere. In King City abbiamo goduto di più libertà nell’adattamento di battute e giochi di parole perché più fini a se stessi e non legati al significato generale: la difficoltà stava nel rendere meglio possibile in italiano quei calembour.
Per quel che riguarda la resa grafica della traduzione, va detto che il letterista ha lavorato da solo, ovviamente supportato da alcune indicazioni che io gli ho fornito, come per esempio la dimensione dei caratteri, quando fosse necessario variarla, etc. Nel caso di King City in particolare, queste mie note sono state molte di più rispetto alla media, dato il lettering particolare dell’opera.
Alla fine, lavorando comunque come una specie di catena di montaggio, io non ho il controllo sul lavoro del letterista (ed è giusto così: in genere sono professionisti bravissimi). Solo da poco posso vedere la bozza finale delle tavole tradotte e letterate, ma non c’erano problemi, data la bravura dei proofreader, step successivo della catena che in Panini porta ad avere tre livelli di bozze finali prima di andare in stampa.
Comunque, su King City il lavoro di Ram Studio che si è occupato del lettering è stato veramente eccellente.

Un altro fumetto di cui hai supervisionato l’edizione italiana è Southern Bastards. Mi dicevi che è una storia che da lettore ti ha molto colpito, perché?
Mi ha colpito in primis perché è molto viscerale: l’ambientazione così forte e caratterizzata della storia fa trasparire chiaramente come sia Jason Aaron sia Jason Latour provengano da quelle zone del sud degli USA che stanno raccontando.
L’altro aspetto interessante è lo sviluppo della narrazione, che sembra andare avanti fino a un punto morto che pare non avere via d’uscita, se non quella “canonica” e scontata, mentre poi Aaron si inventa una soluzione “tangenziale” che apre tutta una serie di sviluppi narrativi interessanti. Un meccanismo che se ben applicato, funziona sempre.
A questo vanno aggiunti gli splendidi disegni di Latour che credo abbia fatto un lavoro eccezionale.

Southern-BastardsAbbiamo detto che tu hai vissuto in prima persona la critica e lo scrivere di fumetto: oggi che non te ne occupi più, che sguardo hai sulla critica di fumetto italiana? Secondo il tuo punto di vista ci sono delle colpe o degli errori da imputare a chi oggi scrive di fumetto soprattutto sul web, visto soprattutto come spesso molti autori si dimostrino quasi infastiditi dagli articoli o dalla recensioni che li riguardano o che parlano di fumetti da loro scritti, se i termini nei quali se ne parla non sono quelli della lode sperticata?
È un argomento enorme, questo! Credo che i fattori principali da considerare siano fondamentalmente due. Il primo è il fatto che quello italiano è un movimento fumettistico fortemente autoreferenziale, che si parla addosso perché alla fine tutti quelli che lavorano nel fumetto in Italia si conoscono tra loro e quindi si instaurano logiche che possono essere paragonate a quelle del piccolo paese.
Detto questo, in una situazione economica e commerciale come quella attuale, dove i grossi numeri li fanno solo poche pubblicazioni e tutte le altre sopravvivono con molti più problemi, io credo che ci possa anche essere un altro aspetto, quello della “paura” degli autori verso il mondo della critica, perché in certi casi cento copie vendute in più o in meno possono fare tutta la differenza del mondo.
In questo senso, tentare di “neutralizzare” la critica con polemiche, flame sui social media e metodi simili potrebbe essere sintomo di un disagio da parte degli autori nel rilevare che esiste un potere da parte di chi, recensendo un fumetto, può cambiarne le sorti.
Il secondo aspetto è che in Italia, pur essendoci alcune voci critiche molto interessanti, in generale il movimento si appiattisce più sulla ricerca del click, della condivisione e della popolarità sul web e questo ha tutta una serie di ricadute negative. La prima è quella che, per produrre tanto, non si allevano come si dovrebbe i nuovi critici. Spesso le recensioni dei “nuovi” sono eccessivamente traballanti non solo dal punto di vista della scrittura, ma anche proprio a livello critico.
Aggiungo poi che secondo me esiste un grosso equivoco che si trascina da anni e che né gli autori né gli addetti ai lavori hanno mai fatto niente per chiarire. In Italia ci sono stati e ci sono dei siti che fanno soprattutto informazione e un poco di critica e siti che invece fanno soprattutto critica e un po’ di informazione. E invece critica e informazione vengono messe erroneamente sullo stesso piano. Non fraintendermi, fare informazione è un lavoro assolutamente meritorio e apprezzabile, ma certo non è critica. E invece è capitato che certe operazioni d’informazione siano state fatte passare come critica quando non lo erano per niente. Questo aspetto secondo me andrebbe chiarito, visto che continua a permanere una ambiguità di fondo.
Chiudo il discorso rispondendoti che gli errori a posteriori sono facili da rilevare, ma avendo fatto parte per tanto tempo del movimento so bene che non è sempre semplice trovare collaboratori preparati: talvolta si deve scendere a compromessi. Come ho detto prima, ragazzi giovani con buone potenzialità a volte devono “correre” per la necessità di mandare on line un pezzo e rischiano di bruciarsi.
Io al lavoro che faccio adesso ci sono arrivato assolutamente per caso (altrimenti non avrei aspettato di avere oltre 40 anni per farlo!), ma secondo me chi fa critica deve sempre stare molto ben attento a eliminare ogni velleità di utilizzare la collaborazione con le varie realtà, soprattutto del web, come porta d’ingresso per il mondo del fumetto professionistico. Capisco che non sia sempre facile, ma questa dovrebbe essere una priorità perché se a livello personale può anche portare benefici, a livello di movimento generale non fa certo bene.

american flaggDomanda che rivolgo sempre a tutti: consiglia ai nostri lettori uno o più fumetti per te imprescindibili.
Questa era una domanda che noi facevamo sempre su Rorschach e Comics Code e tutti si bloccavano sempre: oggi tocca a me! Io ti dico American Flagg di Howard Chaykin di cui vorrei vedere un’edizione italiana degna della qualità di quell’opera, perché lo considero un fumetto molto importante, più importante di molti fumetti dello stesso periodo che vengono celebrati molto di più, quantomeno in Italia.
Quindi il mio consiglio è di recuperare e leggersi almeno i primi venti numeri in originale della serie che sono tutt’oggi ancora all’avanguardia per quel che riguarda la narrazione. E poi un consiglio Panini: l’omnibus di Zenith, che ha una storia e un’edizione bellissime.

A fine estate uscirà per Becco Giallo una biografia a fumetti su Tupac Shakur, uno dei protagonisti del movimento hip hop, da te sceneggiata. Ci racconti come è nato questo progetto, come si è concretizzato in una biografia a fumetti e perché la scelta è caduta proprio su un personaggio come Tupac?
L’idea è arrivata dal disegnatore della storia, Paolo Gallina, un ragazzo veramente bravo che secondo me nei prossimi anni farà parlare molto di sé (guardatevi che cos’ha fatto sul libro!). Quest’anno saranno venti anni dalla morte del seminale rapper e quindi abbiamo pensato di celebrarne l’eredità, non solo musicale ma anche storica, con un fumetto che potesse interessare un editore come Becco Giallo, specializzato in biografie impegnate. L’idea e la sfida erano di fare però qualcosa che fosse fruibile anche da un pubblico diverso da quello di Becco Giallo, come quello degli amanti della musica rap, che Piskor ha saputo così ben toccare.
Con Paolo abbiamo ragionato di che cosa volevamo raccontare e come, e abbiamo stilato un “piano di battaglia” che è stato apprezzato da Federico e Guido di Becco Giallo e ci siamo mossi per trasformare una vita pienissima come quella di Shakur, che ci ha lasciato a soli 25 anni, in un fumetto di dimensioni “umane”. Il risultato sono 120 pagine circa che sintetizzano una quantità di avvenimenti pazzeschi (per esempio, non tutti sanno che Shakur avrebbe dovuto essere uno Jedi in Star Wars!)
Credo che alla fine ce l’abbiamo fatta, utilizzando delle tecniche tutte nostre, comprese di alcuni “campionamenti” di altri fumetti in un contesto diverso.
Col prezioso aiuto di Alberto Polita, fiancheggiatore d’eccezione, ora siamo arrivati in fondo, e non vedo l’ora di vedere quale sarà il responso del pubblico, dato che è una storia alla quale tengo in particolare. Dita incrociate!

 Grazie mille per questa splendida chiacchierata, Antonio. A presto!

Intervista realizzata dal vivo tra i mesi di gennaio, maggio e giugno 2016

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