Giancarlo Berardi, nato a Genova il 15 novembre 1949, debutta nel fumetto collaborando, tra l’altro, alle serie di “Tarzan”, “Silvestro” e “Diabolik”. Dopo la laurea, si dedica completamente ai comics e realizza testi per “Il Piccolo Ranger”, e le storie “Terra maledetta” e “Wyatt Doyle”, pubblicate sulla “Collana Rodeo”. “Tiki”, la sua prima serie in tandem con il disegnatore Ivo Milazzo, è del 1976, seguita, nel 1977, da Ken Parker, il suo personaggio di maggior successo, esportato in tredici Paesi nel mondo. Dello stesso anno è “Welcome to Springville”, a cui partecipa anche il disegnatore Renzo Calegari. Seguono poi “L’Uomo delle Filippine” e il detective Marvin. Nel 1986 sceneggia alcuni episodi di “Sherlock Holmes”, illustrati da Giorgio Trevisan. Quindi scrive “Oklahoma!”, una storia fuori-serie di Tex, un episodio di Nick Raider (il numero 18: “Mosaico per un delitto”) e i racconti brevi raccolti in “Fantasticheria” e “Luci e ombre”. Dopo aver dato l’avvio a “Tom’s Bar” e a “Giuli Bai & Co.”, nel 1989, è tra i fondatori della Parker Editore che, oltre a ristampare i vecchi episodi del personaggio, ne produce di nuovi per “Ken Parker Magazine”. La stessa formula viene continuata dalla Sergio Bonelli Editore fino al 1996; dopodiché la serie torna al formato «bonelliano», con cadenza semestrale, e chiude nel gennaio 1998. Dall’ottobre dello stesso anno, Berardi è autore e curatore di Julia, un nuovo mensile della Sergio Bonelli Editore. Tra i numerosissimi riconoscimenti assegnatigli, ricordiamo il Premio Oesterheld, il Premio Internacional Barcelona de Comics, l’Haxtur e lo Yellow Kid. (dal sito della Sergio Bonelli Editore)
Buongiorno Berardi. Grazie per la disponibilità. Partiamo dal pretesto dell’intervista.
Nel nuovo numero attualmente in edicola (Julia 174, Cadavere in trasferta), Julia incontra un nuovo personaggio con il quale avrà una relazione. Senza entrare nei dettagli narrativi, come verrà gestita questa nuova fase? Più volte abbiamo letto delle difficoltà organizzative per sviluppare una continuity serrata nella serie. Sarà una relazione sfumata o avrà impatti più importanti sull’impostazione generale?
Nelle mie intenzioni, dovrebbe essere una relazione importante e duratura. Ma non si può mai sapere. A volte le logiche dei personaggi sfuggono a quelle degli autori. Nel passato, avevo affiancato a Julia altri partner, che si sono rivelati inadeguati. Io stesso me ne sono accorto nel dipanarsi delle vicende. Evidentemente, avevo scelto le persone sbagliate. Stavolta, vorrei riuscire a portare Julia in Italia, nelle città che amo maggiormente: Genova, Milano, Napoli, Roma…
Chi è Ettore Cambiaso?
Ettore Cambiaso è un commissario-capo, in forza alla questura di Genova, con un padre genovese e una madre napoletana, divorziati da anni. Lui stesso è separato dalla moglie e ha una figlia adolescente. Ha seguito i corsi investigativi della CIA, a Langley, e parla un ottimo inglese. Càpita spesso negli States per lavoro – con inevitabili deviazioni a Garden City – e quando torna in patria, comunica con Julia attraverso telefono e Skype.
Dopo i tanti anni di esperienza nel racconto seriale, e in particolare in Bonelli, che idea si è fatto del rapporto tra continuity e storie autoconclusive? Se pensiamo al personaggio di Myrna, è evidente che lei e i suoi collaboratori state cercando di fare qualcosa di nuovo nel mix di questi due aspetti?
Come feci anni fa con Ken Parker, anche in Julia ho deciso di ideare delle miniserie all’interno del filone principale. In particolare, quella di Myrna, l’assassina seriale, e quella di Tim, il ladro con cui la criminologa ha avuto una breve relazione. Molto drammatica la prima, decisamente giallo-rosa la seconda. Per non parlare dell’Almanacco, dove la protagonista frequenta ancora l’università e ha una personalità in formazione. Il più grande pericolo per un narratore è la noia. Mi piace variare registro, alternando generi e sottogeneri, spesso mischiandoli tra loro.
In alcune serie, è stato introdotto il concetto televisivo delle stagioni, che offrono l’opportunità di rinnovare le premesse di base della serie. Non avete mai pensato di utilizzare una modalità simile per Julia? O più in generale, di rinnovare drasticamente le premesse e il cast dei personaggi?
Cambiare premesse e personaggi significa realizzare una nuova serie. In televisione si fa perché gli attori non rinnovano i contratti, o per tentare una sferzata di novità su temi ormai sfruttati ad oltranza. A me sembra che Julia abbia ancora tanto da dire. E, comunque, saranno i lettori a decretarne la fine.
Qual è in questo senso il giusto mix tra le esigenze diciamo così più “rassicuranti” (elementi fissi e ripetitivi della serie) e quelle più “rivoluzionarie” (nuove premesse, nuovi personaggi, ecc.), sia dal punto di vista del lettore che da quello altrettanto importante dell’autore e della sua creatività?
È lo stesso mix che vale nella vita. Ogni novità, se valida, parte sempre con una radice nel passato. Fatto salvo l’impianto di base, in Julia, ogni episodio presenta uno o più protagonisti inediti. Ritengo che questo sia importante per i lettori, ma lo è soprattutto per me, che odio ripetermi.
Quali sono a suo avviso i limiti ed i vantaggi di una narrazione seriale rispetto ad altri formati editoriali?
Il vantaggio è la continuità. La possibilità di approfondire i personaggi e di offrire ai lettori una “commedia umana” più articolata e avvincente.
A distanza di tanti anni dall’esordio della serie, ha sviluppato una sua teoria sul perché del successo di Julia (al di là dell’evidente cura e qualità con cui è realizzata)? E riesce ad immaginare e descriverci un lettore tipo?
Nel mio mestiere sono necessari un po’ di talento, una quantità di lavoro imponente e un briciolo di fortuna. Il lettore medio di Julia è abbastanza identificabile. Tra i venticinque e i quarant’anni, cultura medio-alta, sognatore, sensibile, amante degli animali e della natura, buon cittadino. Al sessanta per cento, di sesso femminile.
A proposito del successo di Julia tra le lettrici, si tratta di un caso piuttosto raro in casa Bonelli. Ha senso secondo lei interrogarsi oggi all’interno della casa editrice su come cercare di bissare questo risultato, sperimentando nuove strade narrative e ricercando di intercettare nuove esigenze?
Il seguito che Julia ha fra le lettrici è dovuto al fatto che, fisicamente e caratterialmente, rappresenta un modello per le giovani donne. La sua preparazione professionale, la solitudine, le difficoltà sentimentali, l’amore per la nonna e per la gatta, la stesura di un diario, il ricorso alla psicanalisi, sono tutte caratteristiche che riflettono la realtà di molte donne e ne agevolano il processo d’identificazione.
Le operazioni editoriali decise a tavolino raramente sortiscono risultati apprezzabili. Sarebbe troppo facile. Come preparare una torta. Un pizzico di Tex, una parte di Dylan Dog, due dosi di Julia… È una questione di sensibilità e d’intuito. O ce l’hai o non ce l’hai.
Ammetto di aver apprezzato Julia nel tempo (qui si può leggere una mia riflessione dopo i 100 numeri della serie). Ho faticato ad accettare l’impianto della serie, e ad entrare nel meccanismo seriale che ha predisposto. Credo, nel mio caso, si sia trattato di un problema di comprensione e di superamento di certe aspettative (Berardi, Ken Parker, ecc. ecc.). Oggi sono affascinato dalla sua capacità di fondere argomenti crudi e forti della nostra quotidianità con tematiche e meccanismi più tipicamente di genere. Di solito, quali di questi elementi danno il via alla scrittura di una nuova storia?
Molti lettori hanno vissuto la nascita di Julia come un tradimento verso Ken Parker. Nonostante siano entrambi figli miei. Ken è stato chiuso per scarsità di vendite, non per volontà dell’autore. Quando Julia si è affacciata alla mia mente, mi sono reso conto che non potevo raccontarla con lo stesso stile usato per il fratello maggiore. La realtà metropolitana è molto lontana dalla silente poesia delle Grandi Pianure. Mi serviva una forma di scrittura più densa, che rendesse lo sproloquio e il rumore continuo di una città. Poche scene mute, poca azione, ma tanta tensione, anche verbale. Ho scelto una struttura rappresentativa semplice – sei vignette uguali a pagina divise in tre strisce – per permettere al lettore di concentrarsi sulla storia e sulla recitazione dei personaggi, senza perdersi in sterili grafismi.
Le scelte di fondo, però, sono sempre le stesse. Anche in KP usavo la Storia del West per raccontare le piccole storie quotidiane di quel periodo. Il genere è solo una metafora, un fondale teatrale.
E quindi, gli spunti per una nuova storia, di solito, da dove nascono? Dall’attualità? Dalla cronaca? Le è successo in Julia di aver sviluppato una storia a partire da uno spunto strettamente tecnico/narrativo? Riesce a farci qualche esempio per capire da quali ragionamenti nascono le storie della serie?
L’idea per una storia è sempre casuale. Di solito cerco un’atmosfera. Certe giornate uggiose, per esempio, mi suscitano pensieri in “tonalità minore”. Oppure posso essere colpito da una persona, mentre faccio colazione al bar. Gli esseri umani portano le loro vicende scritte in viso. Basta avere occhi per saperle leggere. Francamente, dopo quarant’anni di esperienza, sono in grado di realizzare un soggetto partendo da qualsiasi cosa: una foglia, una frase, un titolo di giornale. Anche un fatto di cronaca, certo, ma non è mai l’avvenimento ad attirare il mio interesse. Il mio campo d’indagine è l’essere umano. Perciò, parto sempre dal personaggio. Voglio sapere tutto su di lui: chi è, come si chiama – il nome è importante – quanti anni ha, da dove viene, che studi ha fatto, com’era la sua famiglia d’origine, che traumi ha avuto, quali successi… Tutto questo mi aiuta anche ad immaginare l’aspetto fisico. Poi, quando mi è del tutto familiare, lo ficco in una situazione buffa o drammatica, e so perfettamente come si comporterà.
Una caratteristica molto chiara di Julia è la scelta dell’impostazione stilistica dei disegni. C’è una ricerca fortissima di omogeneità e coerenza visiva interna alla serie (mi viene in mente una chiara eccezione nel caso delle storie disegnate da Trevisan). La compattezza stilistica rappresenta una scelta molto in controtendenza rispetto alle precedenti esperienze in Ken Parker. Come mai rinunciare o ridurre in buona parte lo stile più autoriale e personale dei disegnatori in favore di questa compattezza?
Alcuni commentatori scindono il fumetto in due, come se testo e disegno fossero entità separate. In realtà, ognuno per la sua parte, concorrono a formare un unicum, finalizzato a raccontare una storia. In questa prospettiva, ci dev’essere un amalgama d’intenti e una coerenza stilistica. Julia è un fumetto noir, di taglio psicologico, in cui l’atmosfera è la vera protagonista. Come rendere tutto questo avendo a disposizione solo il bianco e nero tipico della casa editrice, se non con un tratto realistico dal sapore vagamente espressionista? I miei illustratori non rinunciano a nulla. Anzi, vengono continuamente stimolati ed aiutati ad esprimersi al massimo delle loro possibilità. E, infatti, basta intendersi un po’ di disegno per capire che ognuno di loro possiede uno stile personale e inconfondibile. La serialità ha le sue regole. Si possono interpretare ma non stravolgere. Chissà se qualcuno ha mai chiesto a Hitckock perché si ostinava a mantenere il suo stile? Nella serie di telefilm, per esempio, ne avrebbe potuto realizzare uno con la fotografia solarizzata, un altro a cartoni animati, e un altro ancora – assolutamente geniale – riducendo e ingrandendo le figure a caso…
Credo che la lettura di Julia metta in effetti in luce la grande consapevolezza tecnico/narrativa che lei e i suoi preziosi collaboratori avete ormai maturato in anni di lavoro. È naturale quindi pensare a questa scelta stilistica, e alla coerenza che ciò comporta. Eppure, mi viene da pensare che non solo spesso questo non avviene in altre serie Bonelli (dove lo stile dei disegnatori e l’impostazione delle tavole è più differenziato), ma non avveniva neppure su Ken Parker in modo così marcato. Sbaglio? Da questo punto di vista mi sembra una scelta forte che forse merita qualche parola in più.
Ogni serie e ogni autore presentano le loro specifiche. Julia è diversa dalle altre, il che non significa che sia migliore o peggiore. Semplicemente rispecchia il mio modo d’intendere la vita e la mia idea di professionalità. Quanto a Chemako, il suo limite è stato proprio quello di subire troppe interpretazioni e troppo differenziate. Abbiamo avuto un Ken col naso da Pinocchio, uno grasso e rubizzo come un salumiere, un altro spilungone e secco come un salice piangente, per non citare le varie parrucche che s’è trovato in testa!… Era il mio primo personaggio e alcune ingenuità oggi mi suscitano tenerezza. Ma ho fatto tesoro dell’esperienza, e Julia è nata con una consapevolezza maggiore.
D’altra parte, certo, nella coerenza stilistica emergono in modo chiaro le caratteristiche individuali dei singoli disegnatori. Ammiro da tempo per es. l’intelligenza espressiva di Laura Zuccheri, che finalmente sta avendo anche in Francia importanti riconoscimenti, così come il lavoro di altri autori (il veterano Antinori, Michelazzo, Piccoli…). Credo che la sfida creativa che il vostro lavoro pone loro sia assolutamente importante. Per certi versi più difficile che un lavoro con impostazioni stilistiche meno definite. Cosa ne pensa?
È così, senza dubbio. So di chiedere molto ai miei collaboratori. Ma so di dargli anche molto. Siamo in contatto continuo via telefono, fax e Skype. Non concepisco lo sceneggiatore che spedisce il suo lavoro alla redazione affinché lo smisti al primo disegnatore libero. Le storie di Julia nascono “personalizzate”, seguendo le caratteristiche del singolo illustratore. Molti di loro erano poco più che ragazzini, quando hanno iniziato a lavorare con me. Li ho aiutati a crescere, fornendogli la mia esperienza e suggerendo i fumetti, i romanzi, i film, gli illustratori, i pittori, i fotografi che ogni narratore deve avere nel proprio bagaglio per svolgere il proprio mestiere. Non sono interessato al bel disegno fine a se stesso, sono interessato al disegno che racconta. E le due cose non sempre vanno d’accordo. Constatare che i miei ragazzi sono diventati grandi professionisti, apprezzati nel mondo, è una grande soddisfazione per me.
Quindi, come lavorate con i disegnatori? Quali sono le indicazioni e quale lo sforzo che viene chiesto loro? E come avviene la scelta stessa dei disegnatori?
Il disegno realistico e una buona padronanza del bianco e nero sono le qualità necessarie per entrare nello staff di Julia. Le sceneggiature, molto dettagliate, vengono fornite agli illustratori in forma di layout. Dopodiché, il disegnatore mi sottopone la matita della pagina, seguita dal ripasso a china. Ci concentriamo molto sulla fluidità dei movimenti e sull’espressività recitativa.
Mi è davvero impossibile non chiederle un aneddoto in merito al lavoro con Sergio Toppi. Come è avvenuta la collaborazione per il n. 11 di Julia?
In quel periodo, Toppi aveva poco lavoro. Fu Bonelli a suggerirmelo. Ne fui onorato, perché avevo amato molto i suoi disegni e lo consideravo uno dei miei maestri, tra i pochi che hanno reso il fumetto un fatto culturale. Essendo nato come illustratore puro, aveva difficoltà a seguire la sequenza tipica di Julia, così, ci accordammo che Mantero e io gli avremmo fornito il layout di tutta la storia. L’umiltà di questo grande artista – già avanti con gli anni – era solo paragonabile alla sua grandezza professionale. Più volte mi mostrò le sue bellissime tavole dichiarandosi insoddisfatto e pronto a rifarle, se glielo chiedevo. Che grande lezione. Fu un vero signore, nella vita e nel lavoro.
Una domanda di fantasia (pensare a queste cose allunga la vita, come si dice): se Julia dovesse chiudere, per qualunque ragione, come finirebbe? Quale idea utilizzerebbe oggi? Ci ha mai pensato seriamente?
Ho una visione abbastanza realistica dell’esistenza. Nulla è per sempre, e tutto muta. Sono pronto a cambiare serie e persino lavoro. Se Julia dovesse chiudere, studierei qualcosa di nuovo, ispirata all’attualità del momento. Ma è inutile pensarci adesso: nel giro di poco, sarebbe già un’idea superata.
Non ha mai avuto in questi anni il desiderio di realizzare qualche altra cosa? Non per forza un nuovo seriale, ma una delle tante possibilità che ci sono attualmente in Bonelli (romanzi, un numero unico per le Storie, una mini-serie, ecc.)?
Un albo a fumetti di centoventisei pagine richiede mediamente un paio di mesi di scrittura, uno o due anni per i disegni, più la copertina, i redazionali, il lettering e la revisione finale. Un’enormità, se si pensa che, una volta editato, rimarrà in edicola poche settimane. In seguito, salvo improbabili ristampe, finirà nell’oblio. Certi sfizi me li sono già tolti nel passato. Oggi preferisco dedicarmi a progetti con una continuità.
Dal punto di vista del linguaggio (sia visivo che testuale) Julia è una delle serie più mature dell’editore milanese. Un approccio piuttosto crudo nei termini e nei disegni (soprattutto con Myrna nei dintorni) rispetto allo standard Bonelli, tra l’altro non mediato come in altri casi da elementi fantastici (come nel caso dell’Horror o della fantascienza, per capirci). È stata una scelta semplice o discussa in redazione?
Julia nacque come serie noir. Ne parlai a Bonelli – che non era un lettore del genere – il quale mi disse: “Fai come vuoi, io mi fido di te”. Un bel complimento e una bella responsabilità. Infatti, dopo qualche numero, spaventato dalla crudezza del linguaggio e delle storie, Sergio mi chiese di attenuare i contenuti, perché non desiderava eccezioni alla sua filosofia editoriale. Sono un professionista, così mi adattai, ampliando la parte di commedia, che peraltro mi diverte molto. Myrna rimase l’unica sopravvissuta della primigenia impostazione. Finché, qualche anno fa, l’editore volle sospenderla del tutto. Solo recentemente ho avuto il nulla osta da Mauro Marcheselli per continuarne le storie.
Qual è il lavoro di redazione che accompagna la realizzazione di un numero di Julia? Come lavorate di concerto lei, Lorenzo Calza, Maurizio Mantero e la redazione di via Buonarroti?
Quando ho in mente una nuova storia, la racconto a Lorenzo o a Maurizio, cercando di delineare personaggi e atmosfere. Parlarne a voce alta con un interlocutore esperto mi chiarisce le idee. Poi, i miei coautori mi sottopongono una prima stesura di sceneggiatura, da finalizzare, a cui si accompagna la regia in forma di layout. Seguono ripetuti interventi e limature, e alla fine le tavole vengono spedite a Milano, all’attenzione di Savina Bonomi, che cura la fase del lettering e corregge le bozze, prima di passarle al direttore editoriale. Nel frattempo, io mi occupo della posta e illustro la copertina a Cristiano Spadoni.
Quali sono i suoi interessi principali, attualmente, come uomo e autore di fumetti?
Impiego parte del mio tempo per informarmi sugli avvenimenti del mondo. Lo considero un dovere professionale e civico. Mantenere Julia su uno standard soddisfacente assorbe buona parte delle mie energie. Poi c’è la vita familiare. Il resto lo spalmo sulle mie passioni: cinema, letteratura, storia, musica. Sono un musicante sfortunato. Dopo anni di registrazioni, un’alluvione s’è portata via tutte le mie canzoni. Il prossimo mese ricomincio da capo. Stavolta ho scelto uno studio in collina.
Qualche passione fumettistica attuale?
Sono legato affettivamente alla mia Casa editrice, per cui seguo con attenzione le nuove proposte bonelliane. L’attuale dirigenza ha messo sul fuoco parecchie iniziative. Spero che, in tanto fervore, esca il personaggio del futuro. L’opera di un giovane, inevitabilmente.
Come vede la scena fumettistica italiana di questi anni?
Povera, come l’epoca storica in cui stiamo vivendo. Ci sono poche idee, per lo più mediate dalla televisione, o da qualche vecchia serie di genere, riproposte pedissequamente. Un buon romanzo, un buon film, un buon fumetto, devono raccontare la realtà del proprio tempo. Ken Parker si fece interprete del post-sessantotto, Dylan Dog degli anni Ottanta, Julia del passaggio al nuovo secolo. Il mondo sta vivendo una crisi senza precedenti, mi piacerebbe che qualcuno la raccontasse anche a fumetti.
Ringraziamo Giancarlo Berardi per la disponibilità.
Intervista rilasciata via mail a Marzo 2013.
Davide Occhicone
15 Marzo 2013 a 22:09
E’ interessante leggere l’ultima risposta del gentilissimo Berardi e quanto dettoci da Neal Adams nell’intervista esclusiva rilasciataci…
Riportiamo il pezzo che sembra convergere con quanto detto da Berardi, anche se parte da una considerazione sullo stato del “mondo del fumetto” decisamente diversa…
“In questo momento l’economia sta attraversando un periodo difficile. Penso che dovremmo scrivere e realizzare più cose sul mondo dell’economia, imparare qualcosa di più su questo argomento e inserirne nei fumetti.
Possiamo fare degli sforzi per conto dello sviluppo della cultura rendendo queste cose più chiare a chi ci legge… ma senza schierarsi o essere aggressivi, solo spiegando i vari modi in cui le compagnie fanno soldi. Voglio dire, non lo facciamo ancora abbastanza.”
Tratto da qui: https://www.lospaziobianco.it/66019-intervistando-neal-adams-parte-3
E’ quindi forte in autori maturi così importanti in questo settore, a quanto pare, la voglia di sensibilizzare sia gli editori che gli autori a parlare di quel che ci accade oggi, ai problemi nuovi e grandi che stiamo affrontando in tutti i campi. E, detto da maestri del fumetto seriale (seppur d’autore), è uno spunto di riflessione molto interessante. Soprattutto per i detrattori del genere…