Parte II – Superman secondo Bryan Singer
Il successo dei film sui supereroi Marvel (e non solo, basta pensare al Batman di Burton e oltre) riporta all’attenzione cinematografica anche il re dei supereroi. Ma i problemi e le indecisioni sono tante, le circostanze cambiano continuamente e le ipotesi si accavallano. C’è stato un periodo in cui pareva certo un progetto con Nicolas Cage nel ruolo dell’Uomo d’Acciaio (vi lascio immaginare: il regista avrebbe dovuto essere Tim Burton, comunque). Alla fine, dopo circa dieci anni di “development hell”, gli sforzi si coagulano grazie al nome garanzia di Bryan Singer, che ha ottenuto un grande successo con la versione filmica degli X-Men.
Singer si pone in una linea di continuità con la serie precedente, quella con Christopher Reeve, al punto da recuperarne anche la contagiosa sigla musicale di John Williams, oltre a qualche riflesso di Marlon Brando nel ruolo di Jor-El. Quello che cambia in primo luogo è il tono, al passo – almeno così si pensa – con i nuovi tempi. Perché trasformare un supereroe solare e positivo come Superman, portatore di valori morali conclamati («truth, justice and the american way», va be’…), in qualcosa di cupo e tormentato? La risposta sta appunto nei tempi, che ormai non consentono più alcuna speranza, evidentemente, nemmeno nei supereroi, che devono essere tutti amletici, problematici e pieni di dubbi. Questo nei casi migliori: negli altri sono psicopatici, farabutti, esibizionisti (e ti credo, con quel profluvio di calzamaglie attillate) e via dicendo. Come ho già detto, continuo a preferire L’Uomo Mascherato. Ma comunque prendiamo quel che viene.
Il film si chiama Superman Returns (2006) perché non solo Superman torna nei cinema, ma anche perché torna e basta. Infatti, nel film Superman (Brandon Routh) – e anche Clark Kent, strana coincidenza su cui Lois Lane dovrebbe avere (ma non ce l’ha) l’intuito femminile di indagare – è stato via cinque anni senza dir niente a nessuno, se non forse alla sua mamma adottiva. Il motivo dell’assenza è stato un viaggio nello spazio a vedere i resti di Krypton: non si sa mai, nel caso si fosse salvato qualcosa. Ma a questo punto mi faccio una domanda: se i resti di Krypton non sono altro in sostanza che un consistente ammasso di kryptonite di vari colori com’è che Superman può andare a visitarli? Forse li ha visitati da molto lontano? E se è così ha davvero visto ciò che gli serviva? A ogni modo, Superman ritorna e salva un aereo che sta precipitando con lo shuttle che doveva lanciare. La causa è uno strano black-out che ha colpito una consistente area degli Stati Uniti. A bordo dell’aereo c’è Lois Lane (Kate Bosworth) che, nel frattempo, amareggiata ed esacerbata per la fuga di Superman, si è sposata con il nipote di Perry White, anch’egli giornalista, e ha fatto (apparentemente) con lui un pargoletto asmatico ora sui quattro anni.
Luthor (Kevin Spacey), uscito di galera perché Superman non è andato a testimoniare (era fuori sede, come abbiamo visto), ha un piano criminale e c’è lui dietro al black-out. Il suo piano è quello di creare un nuovo continente grazie al potere dei cristalli kryptoniani opportunamente trafugati nella Fortezza della Solitudine di Superman. La creazione del continente causerebbe la distruzione di gran parte del Nord America, ma questo è un dettaglio che, lungi dal preoccupare Luthor, in fondo lo stimola. Lois Lane scopre assai facilmente che c’è Luthor dietro il complotto e questo è già un dettaglio che appare poco credibile: come può un giornalista con solo qualche telefonata scoprire una cosa del genere quando, si presume, polizia e FBI stanno tentando inutilmente di farlo da giorni? Secondo dettaglio poco credibile: può una madre, sia pure giornalista, introdursi di nascosto nella casa-barca del presunto responsabile del black-out in compagnia del figlio quattrenne, mettendone a repentaglio l’incolumità? Terzo dettaglio poco credibile: può un criminale feroce e incallito perdersi dietro la sonata al pianoforte del suddetto figlio quattrenne al punto da accompagnarlo a quattro mani perdendo di vista la mamma giornalista – Lois Lane, per chi si fosse perso nel mio eloquio – che sta tentando di chiedere aiuto via fax? Lo so, anche il fatto che Lois sia tenuta prigioniera accanto a un fax non è proprio credibile, ma sorvoliamo. In ogni caso, dal punto di vista spettacolare, l’insidia creata da Luthor ha il suo impatto visuale e anche una certa credibilità come minaccia perché il nuovo continente kryptoniano creato è alla kryptonite e rappresenta quindi una zona di particolare rischio e sofferenza per Superman. L’intreccio mélo però – con quel salmone lesso del marito di Lois – interagisce poco efficacemente con la parte puramente d’azione, per non parlare del piccoletto figlio di non si sa bene chi (o meglio, a un certo punto si capisce bene di chi sia figlio, ma resta comunque un dettaglio da feuilleton), piuttosto indisponente come capita spesso ai bambini nei film quando sono utilizzati per creare pathos.
Ogni tanto ritorna il sottotesto messianico con Jor-El che sembra aver mandato Superman sulla Terra per salvare i terrestri. Questo però è un travisamento populista melodrammatico della realtà dei fatti come, con tutta semplicità e notevole efficacia narrativa, erano stati presentati nel fumetto sin dall’inizio. Superman non è un Salvatore, ma semmai un salvato. In sostanza, è un immigrato giunto sulla Terra per salvarsi da una situazione disastrosa nel paese d’origine, come un qualunque profugo. Jor-El l’ha mandato via per salvarlo, non perché salvasse altri. Solo che adesso le cose semplici e logiche non bastano più e bisogna complicarle con aloni mistici di dubbia congruità. Inoltre, un’altra cosa mi sfugge: se Superman è tale perché è capitato su un sistema solare con un sole giallo ed è per questo che ha i suoi super poteri, com’è che li mantiene ovunque vada? Poiché è stato via cinque anni per vedere i resti di Krypton, questi resti erano dentro o fuori il sistema solare? Se erano dentro, è credibile che solo Superman e non un milione di astronomi terrestri li abbiano visti? Peraltro, è comunque interessante che Superman si renda conto della globalità della sua missione e della responsabilità che gli dà l’avere i super poteri: questo richiama in parte la premessa di Superman IV, anche se non arriva al punto da riprenderne lo spunto totalitario.
Singer cerca di fondere diverse anime, ma non ci riesce del tutto. C’è l’anima da action-movie con alcune sequenze di notevole efficacia (come il salvataggio dell’aereo). Poi c’è quella da mélo con il curioso triangolo-quadrilatero (per la doppia identità di Superman) composto da Lois, il marito amareggiato dalla sua evidente infatuazione per Superman, Superman stesso (gelosino) e Clark Kent, lo sfigato di turno. Quindi c’è la commedia, con Luthor, che Spacey interpreta come un Gene Hackman incattivito, ma comunque sempre accompagnato da partner un tantino sul comico. Diversamente da Hackman, Spacey riesce però a mantenere un grado di credibile minacciosità che lo rende un cattivo ragionevolmente insidioso. La parte finale è la meno convincente proprio per il difficile amalgama tra i vari registri narrativi. Il melodramma prende il sopravvento con l’inutile indulgere sulla possibile morte di Superman, un’evenienza che si sa bene non potrebbe verificarsi in quel contesto. Inoltre, altrettanto indigesto è l’insistere sul sub-plot con il bambino il cui rapporto con Superman appare più da lacrima-movie che da film di supereroi.
Brandon Routh (“memorabile” anche come Dylan Dog) è un Superman solo relativamente carismatico, con un’aria un po’ troppo da furbetto, mentre come Clark Kent è meno goffo e pasticcione di Christopher Reeve, ma sostanzialmente incolore. Difficile capire perché un direttore di giornale dovrebbe dare un posto a una nullità come lui. Kate Bosworth è forse la più bella tra le Lois Lane del grande schermo (Teri Hatcher a parte, quindi), ma il suo ruolo e la sua recitazione sono troppo da soap-opera per convincere del tutto. Parker Posey è una partner di Luthor fin troppo caricaturale e priva di vero significato narrativo se non come malinteso “comic relief”. Frank Langella è un Perry White meramente funzionale, con ben poco da fare, mentre James Marsden è un classico “magazine husband” di pura facciata. Interessante da notare la presenza di Noel Neill, la vecchia Lois Lane dei serial, in un piccolo ruolo.
Il film è dedicato con amore e rispetto a Christopher e Dana Reeve. E su questo siamo tutti d’accordo.
Parte III – L’uomo d’acciaio
Superman Returns non ha l’esito commerciale sperato1 e perciò, invece di un seguito, genera un reboot. Quando non si parte bene, in particolare nel caso dei film sui supereroi, si cerca di partire di nuovo da zero. Questo fa Zack Snyder, regista di non particolare autorialità ma di buona efficienza: suo è L’alba dei morti viventi (accettabile remake di Zombi di Romero), oltre ai fumettistici 300 e Watchmen. Il suo L’uomo d’acciaio (2013) prova quindi a raccontarci di nuovo tutto e noi dobbiamo far finta di non sapere niente. Singer aveva aggirato il problema riallacciandosi alla vecchia serie (peraltro finita da una ventina d’anni e questo forse è stato un problema) e dando per scontato che il pubblico sapesse chi è Superman. Snyder, invece, preferisce venire incontro anche ai neofiti e riparte dall’inizio.
Sul pianeta Krypton è vietato mettere al mondo i figli in modo naturale. Bisogna seguire un particolare protocollo che – tramite il cosiddetto Codice – perfeziona il patrimonio genetico dei nascituri in modo da determinarne il destino e il ruolo sociale. L’eminente scienziato Jor-El (Russell Crowe) fa invece nascere in modo naturale suo figlio Kal-El, in dispregio a leggi che non condivide. Sapendo inoltre che lo sfruttamento intensivo delle fonti energetiche ha reso instabile il pianeta rendendolo prossimo alla distruzione, Jor-El chiede al Consiglio il Codice (genetico) per salvare la razza kryptoniana e farla sopravvivere in altri pianeti più ospitali. Il crudele generale Zod (Michael Shannon), però, prende per sé il potere esautorando il Consiglio con la forza, stufo degli interminabili – secondo lui – dibattiti che hanno condotto il pianeta alla fine. Imprigionato da Zod, Jor-El si libera e, mentre il pianeta collassa, si impadronisce del Codice, carica Kal-El a bordo di una navicella spaziale e lo manda nello spazio verso il pianeta individuato come più adatto, la Terra. Zod, furente, uccide Jor-El, ma ormai è tardi per fermare la navicella. Catturato dalle forze lealiste, Zod è condannato alla Zona Fantasma, ma giura vendetta a Lara, moglie di Jor-El: troverà Kal-El ovunque sia finito.
Giunto sulla Terra, Kal-El viene adottato dai coniugi Jonathan (Kevin Costner) e Martha Kent (Diane Lane), con il nome di Clark. Sperimenta presto la propria diversità e la difficoltà di conviverci, in un mondo che aborra e teme le diversità. Intelligentemente, la parte giovanile della vita di Clark Kent viene mostrata attraverso una struttura narrativa episodica a flashback che consente di velocizzare il racconto (anche se non quanto l’assai più sbrigativo primo episodio a fumetti di Superman non facesse). Snyder cerca di non enfatizzare il dramma per non trasformarlo in melodramma, però insiste molto sul tema della diversità e della difficoltà di sopportarne il peso. Ciò è in linea con la visione marveliana del supereroismo, per cui a grandi poteri corrispondono grandi responsabilità (e grandi problemi personali). Scompare sempre più la visione positiva e, certo, semplicistica che ha accompagnato Superman nei primi decenni fumettistici e anche in quelli sul grande e piccolo schermo almeno sino alla tetralogia con Reeve, dove essere Superman non era un problema, semmai un privilegio. Ora, tutto è cupo e tutto è sfiga. Per cui anche essere Superman non è che una faticaccia capitata tra capo e collo a un povero ragazzo che avrebbe preferito starsene per i fatti suoi.
Lois Lane (Amy Adams), giornalista del Daily Planet, è in Canada per seguire uno strano avvenimento: è stato rinvenuto un misterioso oggetto sott’acqua, circondato da ghiacci vecchi di oltre 20.000 anni. Clark, giunto anche lui sin lì sulle tracce del medesimo oggetto, scopre che si tratta di una nave spaziale kryptoniana contenente la storia del suo pianeta, tramandatagli direttamente dal babbo Jor-El (che compare come ologramma: non è che prendi un attore come Russell Crowe per fargli fare due minuti di film). Nell’operazione, Clark trova il tempo di salvare la vita all’improvvida Lois. Ma è l’ologramma di Jor-El a dare le risposte giuste a Clark, inclusa quella su quale sarà il suo compito: guidare i terrestri e dare loro speranza (il costume è compreso nel concetto). Lois, tenace e già vincitrice del Pulitzer, scopre chi è veramente Clark Kent, ma questi le chiede di tenere segreta la verità sulla sua forza, perché altrimenti sarebbe un guaio. Già il suo padre adottivo è morto per proteggere quel segreto. Questo è un punto interessante che rivisita totalmente le origini di Superman: Lois sa che Clark è un supereroe ancora prima che Superman si sia palesato con il suo costume. Un aspetto, questo, che tende al realismo e mette fine a quella ridda di equivoci poco credibili sull’impossibilità, per Lois e gli altri, di cogliere le similitudini tra Clark e Superman: il massimo, come abbiamo visto, si ha in Superman Returns, quando Superman e Clark restano entrambi via per cinque anni e nessuno collega i due fatti.
Clark vorrebbe ancora restare nascosto, vivendo nella fattoria con la mamma, ma il suo passato viene a stanarlo: il Generale Zod arriva con una nave spaziale e la ferma intenzione di ricevere in consegna Kal-El entro 24 ore altrimenti distruggerà la Terra. Perciò, Superman deve alla fine entrare in azione, proprio a 33 anni, anche perché è evidente che Zod, per dirla come nei western, parla con lingua doppia (o, se preferite, biforcuta).
La natura messianica di Superman non viene mai messa in evidenza quanto in questo film. A lungo Clark resta nascosto tra gli uomini ed emerge solo quando è un uomo maturo (non c’è spazio per Superboy in questo “universo”) e lo fa per dare guida e speranza agli uomini, che senza di lui sarebbero perduti. Il film si prende quindi molto sul serio ed evita ogni concessione alla commedia per perseguire una linea quanto più realistica e drammatica.
Ogni cosa è raccontata prendendo il tempo ritenuto giusto, senza fretta. Il ritmo è piuttosto languido e i concetti ripetuti perché entrino bene in testa. Il problema principale è che Superman, come personaggio, è piuttosto conosciuto, mentre un reboot come questo comporta la necessità di raccontare di nuovo tutto, origini comprese. Questo viene fatto senza troppe scorciatoie e perciò si arriva comodamente a occupare la prima ora di film con cose ben note, se non ai più, a molti.
Nella seconda parte il film vive sullo scontro tra kryptoniani e l’azione è mantenuta a un buon livello di tensione ed efficacia. Resta un po’ difficile da accettare il fatto che una persona morta, come Jor-El, sia in grado di manifestarsi quando serve come se fosse vivo e perfettamente interagente, sia pure a livello fantasmatico, con le persone reali, ma questo in fondo accadeva, in misura minore, anche nel ciclo con Reeve (prima il babbo e poi la mamma di Superman si manifestavano e rispondevano alle domande del loro superfigliolo) e una volta afferrato il concetto lo si può ritenere acquisito, narrativamente, anche e soprattutto se vogliamo inserirlo nel più ampio contesto della visione salvifica e messianica di Superman, nella quale Jor-El figurerebbe quale figura divina paterna.
Un punto debole della storia è che, a meno che io non sia stato distratto, non spiega perché mai Zod abbia voluto portare anche Lois nella sua astronave. Dal punto di vista narrativo è uno snodo importante perché è proprio la presenza di Lois (con la micro-S) a permettere a Jor-El di rivelarle il segreto per battere i kryptoniani e a liberarla perché torni a terra. Se Lois non fosse salita sull’astronave questo non sarebbe stato possibile. Chiaramente, Zod potrebbe essere stato interessato ad avere Lois con lui perché sa che lei è importante per Superman, ma è un motivo un po’ debole: avrebbe potuto prenderla in qualsiasi (altro) momento.
Superman non viene mai chiamato così se non quando manca poco più di mezz’ora alla fine (e sono i soldati a battezzarlo così) e il tema della doppia identità viene totalmente bypassato. Il che non è nemmeno un male, soprattutto se vogliamo tener fede alla visione messianica. Il messia rivelato non mantiene una identità segreta. Le cose, inoltre, non sono mai facili per Superman: ogni vittoria è da conquistarsi con fatica, con difficoltà. Anche la fiducia e l’appoggio dei terrestri non sono scontati. Il consenso e la semplicità d’azione che caratterizzavano il Superman dei serial, dei telefilm e dei primi film sono lontani. Tutto va conquistato attraverso sofferenza e spirito di sacrificio.
Lo scontro conclusivo tra Zod e Superman ricorda un po’ quelli classici dei film di mostri giapponesi con gli umani a guardare preoccupati i due superesseri mentre devastano la città per lunghi minuti: spettacolarmente c’è il fascino della distruzione incontrollata, ma dal punto di vista drammatico trapela qua e là un po’ di stanchezza e di monotonia. Che poi alla fine vinca Superman è più conseguente a una petizione di principio che alla realtà dei fatti. Che infine poi Clark Kent si rimaterializzi e cominci a lavorare al Daily Planet come giornalista, proprio nelle ultime immagini, è più una strizzata d’occhio alla tradizione che una svolta credibile. Lo sguardo tra lui e Lois fortunatamente è più complice che di cordiale neutralità tra estranei.
Gli effetti speciali sono sontuosi e garantiscono uno spettacolo di prima qualità. La quantità di distruzioni è imponente e mantenuta su un buon livello di realismo, stile film catastrofico. La lotta finale è, alla vecchia maniera, risolta prevalentemente a sganassoni tra superesseri, ma resa in modo tale da essere verosimile quanto più possibile. Il look alieno sa un po’ già visto, ma alcuni dettagli sono esteticamente interessanti, come i velivoli a forma di moscone. Zack Snyder è interessato soprattutto a mantenere il pathos del racconto, a non lasciare mai che le digressioni debordino e rovinino la compattezza drammatica degli eventi. E, soprattutto, a evitare come la peste che tocchi di commedia possano ridurre l’impatto degli avvenimenti. Un atteggiamento, quindi, del tutto diverso da quello di Lester e, in fondo, anche da quello di Donner che, pur privilegiando la magniloquenza (evitata, per quanto possibile, da Snyder), apriva a larghi brani di commedia, se non proprio di “comic relief”.
Henry Cavill è un Superman decisamente più adatto al ruolo di Brandon Routh, che sembrava un fotomodello un po’ narcisistico. Cavill ha un’aria più virile e decisa, più rispondente al Superman dei fumetti e anche a quello che siamo stati abituati a vedere al cinema e in televisione. Diane Lane e Kevin Costner formano una coppia di coniugi Kent di lusso e recitano le loro parti con piena adesione, dando credibilità e umanità ai loro personaggi. Michael Shannon è un Generale Zod che aspira ad altezze quasi shakespeariane, di figura tragica: tormentato per aver ucciso Jor-El, crede comunque d’essere nel giusto anche nello sterminare la razza umana. Una figura tipica dei fumetti di supereroi, ma che Shannon dipinge senza enfasi, cercando di renderne i tratti psicologici e l’umanità (se così si può dire), con una recitazione quasi sempre sottotono. Ben diverso, quindi, dallo Zod di Terence Stamp, freddo e monodimensionale: efficace anch’esso, in un certo senso, ma a un livello più basilare e semplicistico. Amy Adams è una Lois Lane carina, dagli occhi brillanti e dalla determinazione incrollabile. Perry White è interpretato da un Laurence Fishburne sempre bravo, ma che sembra essersi gonfiato come un pallone.
Co-prodotto da Christopher Nolan e scritto da lui e da David S. Goyer, il pedigree del film è quindi garantito. Il successo arriva e gli incassi2 fanno pensare che questo possa essere l’inizio di una nuova serie. Vedremo.
L’incasso lordo mondiale è di circa 391 milioni di dollari, ma il budget è di ben 270 milioni di dollari: tenete presente che degli incassi lordi alla produzione resta in genere meno della metà ↩
Al momento in cui scrivo, l’incasso lordo mondiale è intorno ai 650 milioni di dollari lordi, a fronte di un budget di 225 milioni ↩