Leggi qui la prima parte.
4. L’ULTIMA SPIAGGIA
Alla fine è lo stesso corpo di Sawako che si ribella, quando, pur disperatamente, la ragazza tenta di andare a scuola. Un fenomeno che, come l’ijime, nel Giappone delle etichette ha avuto i suoi nomi: tōkōkyohi e futōkō, ovvero “rifiuto scolastico”. Anche sul futōkō sono fioccati studi e opinioni, mentre il numero degli studenti che non riescono ad andare a scuola si è moltiplicato con gli anni: attualmente il Ministero dell’Istruzione conteggia più di 130.000 studenti che rimangono assenti da scuola più di trenta giorni, sei volte tanto rispetto a vent’anni prima. Il futōkō non è una fuga ribellistica dalla scuola, di studenti che scappano per unirsi ai più o meno violenti branchi di strada, tra moto, vandalismo e piccola delinquenza. Lo studente che cade nel futōkō vorrebbe andare a scuola, ma non ci riesce, e l’unico suo rifugio è la propria cameretta. Inutile dire che molti casi sono legati all’ijime. Inutile dire che, di nuovo, gli esperti preferiscono parlare di scarsa responsabilità dei giovani, della loro eccessiva debolezza.
Ijime e futōkō come marchî d’infamia, tanto che molte scuole, in un clima d’omertà, preferiscono negare la presenza di ijime tra le loro mura, piuttosto che combatterla. Da parte della vittima, ammettere l’ijime è dichiarare il proprio fallimento sociale, ammetterlo a se stessi e agli altri, esporsi al rischio di ulteriori colpevolizzazioni. Sawako attende sino all’ultimo, e solo quando è impossibile negare ammette con sua madre: “I miei compagni di classe mi perseguitano”. Per certi versi è persino fortunata a riuscire, pur se con grandi difficoltà, a riannodare un rapporto di comprensione e fiducia con la madre. Ma mentre Sawako esce di casa, ecco la vicina che la addita come cattivo esempio alla propria bambina: “Ha smesso andare a scuola perché non vuole più studiare. Stai attenta a non diventare come quella ragazza“. Chi si ferma è perduto.
Sawako non fa la fine di molti altri studenti, annientati dall’ijime, che a una vita inutile e insopportabile preferiscono la morte. Vitamin propone un sbocco positivo, ma rifiuta qualunque compromesso. La sua è una risposta netta e coraggiosa, che respinge ogni conciliazione con l’ipocrisia di una scuola e di una società che proclamano i valori del gruppo solo per legittimare la logica della sopraffazione e inculcare una socializzazione totalizzante. Sawako, e l’autrice con lei, non vede più alcuna possibilità di salvezza nella scuola giapponese in quanto sistema. Ma la strada che Sawako trova in sé stessa è solo un esempio. Così scrive l’autrice stessa nella postfazione: “Penso che, quando ci troviamo nella più profonda disperazione, c’é sempre qualcosa in grado di donarci la luce. Puo’ essere un amico o un insegnante, possono essere la musica o i libri… Per ognuno è qualcosa di diverso“.
5. TRADURRE LA VIOLENZA
Torniamo un attimo a Mars. Verso l’inizio, ecco un professore che cerca di vendicarsi di Kashino Rei, imponendogli un esercizio che il ragazzo non dovrebbe saper risolvere. Di fronte alla scena Asō Kira si chiede: “Non posso crederci… ma questo non sarà mica… un dispetto?” (Volume I, p. 67). Un dispetto: in giapponese, ijime. Dispetti, molestie, persecuzioni, maltrattamenti… non è facile, per traduttori e adattatori, rendere in italiano la parola ijime. Non tanto e non solo per una questione di significato, ma soprattutto perché il termine ijime, in giapponese, è un termine ormai fortemente radicato nell’immaginario collettivo, dotato di un impatto immediato e violento, che spesso nelle nostre edizioni non può essere mantenuto, e viene così diluito tra termini diversi, molto più neutri e molto meno forti.
A dire il vero, in italiano esisterebbe un vocabolo analogo a ijime: “bullismo”, ripreso dall’inglese “bullying“. Ma non funziona del tutto, perché fa pensare al bullo come al prepotente della classe, o ai giovani teppisti con le catene e non a quello che è il fenomeno, una violenza collettiva interna alla struttura del gruppo, dove i “colpevoli” possono essere gli studenti più normali, o la classe intera, come raccontato in Vitamin. Da notare tra l’altro che in Italia il termine “bullismo” genera non poca confusione, e a volte viene usato per etichettare qualunque comportamento irregolare tra le mura scolastiche.
Spesso é dunque davvero difficile rendere nelle edizioni italiane dei manga le particolarità dell’ijime, e il rischio dei fraintendimenti è alto. Ne La villa dell’acqua (Mizu no yakata), fumetto di Obana Miho, il protagonista quattordicenne Suzuhara Hiroto, vittima dell’ijime, lo vediamo seduto al suo banco, da solo: “Divenni vittima di maltrattamenti [ijime] che si inasprivano ogni giorno di più. Era un vero inferno”. La scena rischia di ingannare: con “maltrattamenti” si pensa automaticamente ad azioni concrete, ad esempio i momenti in cui Hiroto viene picchiato dai compagni. Invece, è proprio quella scena in cui se ne sta seduto al banco a leggere, quella è l’ijime. è difficile coglierlo senza sapere che una forma di ijime consiste proprio nell’escludere totalmente dalla vita di classe un proprio compagno; nessuno (a volte insegnanti compresi) rivolge più e in nessun caso la parola alla vittima, come se non esistesse. Una condanna alla solitudine totale, perché in Giappone la scuola occupa quasi tutto il tempo giornaliero degli studenti.
6. SORVEGLIARE E PUNIRE
Vitamin si apre con l’inizio dell’anno scolastico. Tutti gli studenti si devono sottoporre al controllo di abbigliamento e capigliature. Una studentessa viene rimproverata, li ha troppo lunghi: “Devono esserci più di cinque millimetri dalle sopracciglia“. Non è un’esagerazione dell’autrice. è vero che in Giappone non tutte le scuole sono uguali, ci sono quelle più libere e quelle più severe. Molte pero’ sono quelle dove liste di regole minuziose controllano praticamente quasi ogni aspetto degli studenti: la lunghezza dei capelli, delle gonne, il colore dei calzini, in alcuni casi anche il lato su cui va portata la borsa coi libri. Trasgredire le regole si traduce in voti più bassi, voti più bassi in minori possibilità di accedere a scuole ritenute prestigiose, e, in futuro, a impieghi di alto livello. Ed è proprio per contrastare l’ijime che sono stati aumentati i poteri degli insegnanti di giudicare la condotta degli studenti, e farla incidere di più sui voti finali. In teoria uno strumento per combattere gli studenti violenti, molto più spesso un sistema impugnato dalla scuola per controllare chi si oppone alle regole.
Paradossalmente sono proprio le misure che vorrebbero eliminare l’ijime che, alla fine, aumentano la pressione sugli studenti. Ad esempio viene consigliato ai professori di stazionare sull’ingresso della scuola, per accogliere amichevolmente gli studenti, mostrare loro vicinanza e disponibilità. In Vitamin vediamo appunto gli studenti che arrivano a scuola, e sul cancello trovano il professore; che pero’ non sembra troppo amichevole, piuttosto controlla che tutto segua le regole: “Hai il primo bottone slacciato! Chiudi bene la giacca! “, dice a uno studente, che prontamente ubbidisce. Si tratta dello stesso insegnante che ha liquidato come un’inezia l’ijime subìta dalla protagonista. Ma la realtà supera la fantasia, e di molto. Nel 1990 il Giappone fu sconvolto dal caso della quindicenne Ishida Ryōko, morta schiacciata dal pesante cancello scolastico, chiuso da un’insegnante fanatico della puntualità: la ragazza stava entrando in ritardo.
Sono le stesse famiglie a delegare alla scuola l’intera vita degli studenti, dal comportamento individuale sino alla gestione del proprio tempo libero. Lo studio occupa quasi tutta la giornata, cui poi si aggiungono le attività ricreative o sportive, sempre svolte all’interno dell’edificio scolastico (i “circoli” o “club” che tanto spesso si vedono anche nei fumetti). Non è esagerato definire la maggior parte delle scuole giapponesi come vere e proprie “istituzioni totali”, molto più vicine a una caserma militare che non alle nostre scuole. E forse a questo punto non servono più chissà quali astruse teorie sociopsicologiche per immaginare l’origine dell’ijime: nelle caserme nasce il nonnismo, ed è quindi ovvio cosa possa prodursi in scuole simili a caserme. Carichi di studio molto più pesanti che all’estero, fatti di un nozionismo spesso sterile, fitte sessioni di esami, l’incubo di fallire e non avere seconde possibilità, e soprattutto un controllo totale da parte degli insegnanti: è questo il brodo di coltura dove nasce l’ijime, forse nient’altro che una replica interna al gruppo di quelle pressioni esterne che gli studenti sperimentano giorno dopo giorno.
In Giappone di ijime si parla sin dall’inizio degli anni Ottanta, così anche in Scandinava e nei paesi anglosassoni (soprattutto Gran Bretagna e Australia). In Italia si è dovuto aspettare la fine degli anni novanta per avere qualche studio sul “bullismo” nelle nostre scuole. Nel 1971 il sociologo Ivan Illich lanciava l’utopica proposta di “descolarizzare” la società. La Storia è andata dalla parte opposta. Qualche mese fa in Gran Bretagna c’é chi ha proposto una riforma dell’orario, tanto che gli studenti potrebbero arrivare a trascorrere anche dieci ore al giorno dentro la scuola, non necessariamente per studio. Più o meno quel che avviene in Giappone; un modello verso cui, un passo alla volta, sta andando anche l’Italia. Molti genitori inglesi si sono dichiarati favorevoli alla proposta, anche e soprattutto perché, si dice, la scuola potrà controllare i figli, e tenerli lontani dai “pericoli della strada”. Nobile intento, ma chi li difenderà da se stessi, e dai pericoli della scuola?
Riferimenti
Voce di Wikipedia sull’ijime – it.wikipedia.org/wiki/ijime
Questo articolo è presente anche su www.geocities.com/yupa1989/hakobune.html
Mars – 15 numeri pubblicati nella collana Amici della Star comics dal 1999 al 2003
Vitamin – Manga Superstar #7, Panini/Planet Manga 2005- euro4,00
La villa dell’acqua – Dynamic Italia, 2003 – 4,40euro