Riccardo Mannelli, un realista emozionale

Riccardo Mannelli, un realista emozionale

Ospite dell'edizione 2012 di Komikazen, Riccardo Mannelli è uno dei maggiori autori satirici e dei migliori disegnatori italiani. Ha collaborato con le principali riviste di settore e con i principali quotidiani nazionali. Un appassionato, critico, talentuoso realista emozionale.

Pistoiese, classe 1955, Mannelli è uno dei più grandi disegnatori satirici italiani. Attivo fin dagli anni settanta, si muove tra la sua produzione pittorica e la sua attività in campo editoriale. Ha collaborato con i principali periodici satirici italiani (Il Male, della cui cooperativa è stato tra i fondatori, Cuore, Boxer, Humor, Satyricon di Repubblica), con riviste a fumetti come Linus e Alter Linus, e con giornali e riviste come L’Europeo, la Stampa, Il Messaggero, Lotta continua, il  Manifesto. Attualmente collabora con La Repubblica e Il Fatto Quotidiano.
Dal 1995 coordina il Dipartimento di Illustrazione all’Istituto Europeo di Design, dove insegna Anatomia e Disegno dal vero. Ha pubblicato numerosi libri, tra i quali: “Nicaragua”, “Chilometri di chili”, “Eccetto me e la mia scimmia”, “Saldi di fine millennio” e “Carni Scelte”.

www. komikazenfestival. org/komikazen-2012/ospiti/riccardo-mannelli

La tua visione della realtà sembra muoversi su due binari paralleli: l’estremo realismo (direi quasi fotografico) della rappresentazione dei corpi umani e l’implicita visione grottesca innescata da questa stessa pratica. Come ti relazioni a e come gestisci questi due aspetti del tuo stile?
L’estremo realismo quasi fotografico di cui parli non mi riguarda, semmai ho una natura espressionista, io non mi sono mai lasciato sedurre da una fotografia, ho bisogno di vedere con i miei occhi, ho una sorta di sguardo tattile. E una voracità emotiva. La fotografia la uso come supporto di memoria e molto spesso la reinterpreto e la stravolgo completamente. Una foto che ho scattato da troppo tempo non mi dice più niente, non mi porta più l’odore, il suono, il senso tattile di una persona o di un luogo. Mi interessa tutto quello che è umano, è una splendida ossessione. Sono curioso di vite, di vissuti (sono stato un divoratore di biografie).
Io non ho uno stile, nel senso che non me ne sono mai costruito uno; io disegno come mi viene, di getto, senza impostare e soprattutto quasi sempre senza una idea precisa. Se quello che sto disegnando prende una strada sarcastica o grottesca mi lascio trasportare da questa intuizione emotiva, se viceversa prende forma un’altra intuizione il lavoro può assumere
un altro carattere, magari melanconico o struggente. Sono emozioni, non puoi (non devi) cercare di controllarle, rischi il cinismo. Io lavoro sulle emozioni reali, perché so che è tutto quello che ci interessa di una vita. Puoi dire che sono un realista emozionale.

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La tua ricerca per il realismo mi sembra rivelare anche un punto di vista volto alla ricerca della bellezza nel “brutto”, della normalità nel bizzarro. Penso a certe pagine viste su Animals, per esempio. Insomma, si tratta, come sembra, di un profondo amore per le persone, per i corpi quanto per gli animi? Da dove nasce?
Il “brutto” (e il “bello”) sono concetti così sdruccioli, labili e legati ai condizionamenti di un epoca, dei quali non mi importa niente. Antropologicamente sono più interessanti: per migliaia di anni nelle società primordiali, ma anche in altre epoche, erano sinonimi di “sano” e “malato”, cioè concetti legati alla funzionalità, alla affidabilità che garantiva la continuazione della specie. Nella nostra società contemporanea sono tra quelli che usa questi termini solo per definire una persona nella sua interezza, non solo per l’aspetto estetico: posso dire “una brutta persona” o una “bella persona”, non per dare un giudizio moralistico ma per definire il mio territorio etico. Sono opinioni, per me necessarie, perché ognuno riesca a definirsi in una dimensione umana, a costruirsi una educazione sentimentale. Certo che amo gli esseri umani, lo considero prima di tutto un mio piacere-dovere solidale di appartenenza alla specie. Sai le milionate di volte in cui mi hanno rinfacciato una mia presunta “cattiveria” nel ritrarre certe persone o situazioni… ecco, ne ho sempre sorriso; io lo so quanta passione, attenzione, rispetto ci vogliono per fare un ritratto. Un ritratto non può mai nascere da una intenzione “cattiva”. Anche il ritratto più impietoso e devastante non è mai uno schiaffo o un calcio in bocca. Semmai è una carezza commiserevole.

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Sei uno dei pochi a riuscire a trattare il nudo senza risultare mai volgare, eppure senza nascondere nulla. In un immaginario che sottolinea invece spesso proprio la volgarità, l’uso del corpo per secondi fini, la perfezione costruita a colpi di bisturi, la tua è una scelta che potremmo definire politica?
Bravo. Se per politica si intende la definizione dei comportamenti umani stigmatizzandone pregi e difetti. Secondo me ogni artista ha un ruolo politico in questo senso. Non a caso nei secoli abbiamo assistito sempre al tentativo di ingabbiare, imbrigliare o addirittura eliminare la produzione artistica e gli artisti stessi. L’artista è di gran lunga la figura umana che più preoccupa e spaventa ogni Potere, perché è imprevedibile, perché indaga territori ambigui e li rivela, è lontano anni luce dalle ipocrite “certezze” su cui ogni Potere costruisce se stesso.
Quanto al lavoro sul corpo, sul nudo, devo dirti che non l’ho mai vissuto in senso “ideologico”. Per me una persona è una persona, che sia nuda o vestita o come gli pare è poco più che un dettaglio. E non avendo pregiudizi ideologico-moralistici tendo a rappresentare un organo sessuale alla stessa stregua di qualsiasi altra parte del corpo. Un corpo è sempre interessante perché è sempre onesto, a prescindere dalla “testa” di chi lo porta in giro per il pianeta. Un corpo è sempre sincero e racconta sempre la verità a prescindere dall’uso che ne fa il proprietario. A me affascina mettere in evidenza il racconto del corpo, di qualsiasi corpo.

Il tuo stile sembra distante dal genere satirico, spesso caratterizzato piuttosto da un segno stilizzato, estremizzato; il tuo ritmo è lontano dai tempi comici della battuta al fulmicotone; la tua è più una forma di ironia, a volte amara, a volte lieve. Ti definisci un autore di satira oppure no?
Quando faccio satira mi definisco un autore satirico. Uno dei pochissimi che esistano al mondo (tre? quattro?). Il battutismo appartiene a un altro genere, il comico, dignitosissimo (può essere di altissima qualità) ma un altra cosa rispetto alla satira.

Come è cambiato l’umorismo e la satira in relazione ai tempi recenti rispetto ai tuoi inizi, con l’attualità politica che scivola nel grottesco per costume, linguaggio e atteggiamenti? Più facile, più difficile?
Non è cambiato nulla. Esistono come sempre lavori di grande interesse e qualità, lavori così-così e lavori pessimi. Ma sono opinioni personali, ogni tipo di espressione artistico-creativa ha diritto di esistere.
C’è stata solo nel tempo una sorta di fagocitazione del termine “satira” da parte dei media che piano piano l’hanno assimilato all’umorismo e alla comicità, snaturandola. La satira deve aprirti il cervello, è portatrice di bellezza e disagio, di crudezze ed illuminazioni, di racconto “altro”, o di altra prospettiva, non alternativa ma spesso antitetica al sistema mediatico. La satira scombussola, sennò non è. Il “facce ride” (con annesso lancio di gatto morto) non può riguardare i contenuti satirici.
Oggi non è né più facile né più difficile: è soltanto inutile insistere a sbertucciare il cosiddetto potere con patetiche parodie, pelosissime caricature e compiacenti volgarità più o meno comiche. E come tutte le cose inutili, diventa dannoso. La risata (di sessantottina memoria) ha finito per seppellirci tutti.

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Venendo a Nicaragua, come nacque questo racconto? I disegni vennero fatti sul posto o solo successivamente?
Nicaragua nacque come progetto seriale, nel senso che la mia intenzione all’epoca era quella di raccontare diversi luoghi e situazioni del mondo; almeno luoghi e situazioni che io ritenevo emblematici per il racconto del contemporaneo. Poi le cose andarono in un altro modo. Nessuno capì e volle sposare il progetto, anzi ebbi pure parecchie ostilità da affrontare oltre all’ostracismo della quasi totalità dei media, e non potendomi permettere autoproduzioni (per i viaggi, la stampa etc…) Nicaragua rimase un unicum.
Cominciai a ridimensionare i miei propositi e a proporre ai giornali e alle riviste (per campare, visto che l’unica risorsa economica che ho è il mio lavoro) piccoli reportages disegnati, anche per le strade e le cose italiane, politiche e non. Ma anche queste miei proposte non trovavano spazi, tutti mi chiedevano vignette-vignette fumetti-fumetti caricature-caricature. . . “ma tu che sei così bravo, ma che vai cercando?
Poi con gli anni, neanche troppi, e la mia testardaggine sono riuscito a imporre il mio metodo di racconto satirico, grazie anche al successo di pubblico.
Io sono sempre andato in giro con quaderno e macchina fotografica, prendendo schizzi dal vero e foto di supporto, per elaborare tutto al rientro in studio. Anche per Nicaragua fu così, tranne che per le paginette di cronache dal vero che appaiono in fondo al volume, che feci direttamente sul posto per inviarle (in maniera avventurosa, visti i tempi e le tecnologie disponibili) al Manifesto con cui avevo fatto l’accordo.
Altre volte, rimanendo più tempo “inviato”, mi è capitato di lavorare in stanze di albergo o altri luoghi di fortuna… ma c’erano già i fax e l’invio alle redazioni era un po’ più sicuro.

Sei tornato recentemente sui tuoi passi? Oggi i tuoi disegni racconterebbero un paese molto diverso da allora, e perché? Inoltre, il tuo modo di vedere le stesse situazioni e realtà, quanto credi sia cambiato?
Credo che ci sia un momento giusto per fare ogni cosa. E per me il momento giusto è quando sento una urgenza. Adesso la mia urgenza è rivolta all’approfondimento e alla composizione pittorica. Ogni percorso artistico ha una sua logica, anche imperscrutabile. Non è questione di tempi anagrafici o storici più o meno cambiati, è una questione di interessi personali, di ritmo interiore.
Non ho interesse in questo momento a riprendere quel tipo di racconto: l’ho già fatto, quando certe cose mi muovevano le budella. Se non mi accade questo lascio perdere. Anche perché nel frattempo le dinamiche sociali, culturali politico-economiche del nostro mondo occidentale (e in particolare italiano) sono in una fase di così profondo stallo che rischierei di ripetere le stesse cose di vent’anni fa (come accade a molti, quasi tutti quelli che continuano a occuparsi di attualità).
La satira è vita vissuta, non è un mestiere. Detto questo… mai dire mai.

 

Nell’ambito dell’ottava edizione di Komikazen, Mannelli esporrà alcune tavole tratte da Nicaragua (Giorgio Sestili Editore, 1985)

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