Il gusto del cloro è stato un fumetto che ha suscitato pareri contrastanti. Qualcuno ha esaltato la costruzione grafica e narrativa di quella non-storia, la gestione dei silenzi e delle inquadrature; altri hanno sottolineato una vacuità di contenuti, un non-narrare per pagine e pagine affascinanti quanto vuote, trovando in Vivès un bravissimo virtuosista ma dallo stile freddo, distaccato, quasi noioso.
Le apparizioni successive su ANIMAls non hanno aiutato a cambiare opinione, anche per la lontananza di genere e stile, men che meno scoprire la futura possibile trasposizione a fumetti a opera dello stesso Vivès di un romanzo di Federico Moccia.
Ma questo nuovo volume, edito anch’esso come Il gusto del cloro da Black Velvet, lascia intravedere qualcosa di più da parte di questo autore; soprattutto un’idea di fumetto, una ricerca, un percorso.
Dopo Nei miei occhi, non è azzardato individuare la chiave del suo essere fumettista nell’esplorazione del fumetto come linguaggio, nei suoi limiti e nei suoi componenti grafici di base: linea-colore-vignetta-closure-inquadratura. Vivès sembra ripartire dal fumetto come se venisse esplorato per la prima volta, quasi fosse un terreno vergine e non un’arte con un secolo e più di storia.
Un compito non così arrogante come sembrerebbe, perché di territori sconosciuti tra le vignette e le nuvolette ce ne sono ancora, e ben vengano gli esploratori dell’ignoto.
Come ne “Il gusto del cloro” il gioco di Vivès era ricreare il senso di ovattamento di una piscina, dell’immersione nell’acqua, dei silenzi, la percezione molle del tempo, con Nei miei occhi l’autore esplora il rapporto tra due persone vissuto attraverso lo sguardo di una delle due, sottolineando così la percezione che questa ha dell’altra e del mondo attorno. Anche in quest’opera, come nella precedente, la storia è semplice, banale, scontata: un ragazzo incontra una ragazza, e ne nasce un rapporto affettivo non ben definito e destinato a non durare nel tempo.
Quello che dona unicità all’opera è la sua struttura. Tutto il fumetto è disegnato come fosse in presa diretta dagli occhi del protagonista, come se il lettore avesse un posto in prima fila all’interno della sua testa, in una serie di piani sequenza in prima persona. Le vignette stesse non hanno contorni netti, ma sono sfumate e hanno spesso forma ovale; l’attenzione è per le persone, le cose, mentre gli sfondi sono meno distinti, appaiono lontani e secondari nel peso della vicenda.
A rendere ancora più forte il senso di astrazione del lettore è la totale assenza del parlato del protagonista, un metodo che rafforza la prospettiva in prima persona della narrazione. Come fosse il lettore stesso il protagonista, e come tale non “sentisse” le proprie parole, le proprie orecchie ascoltassero solamente suoni e parole del mondo esterno, di chi gli sta intorno. Si crea così una situazione decisamente curiosa di dialoghi tronchi, dove sono espresse solo le frasi di una delle due parti, lasciano al lettore il compito di riempire con le proprie parole quel che manca allo scambio di battute; chiaro l’intento di Vivès di costringere questi a entrare nel fumetto in presa diretta, a mettersi in gioco completando il lavoro dell’autore.
È altrettanto interessante il lavoro di Vivès sulla percezione: la vista e l’udito non vengono rappresentati come sensi precisi, capaci di registrare in maniera meccanica il mondo attorno, ma invece influenzati dall’interesse e dall’umore.
Esempio chiarissimo in questo senso le pagine dalla 28 alla 31: mentre il protagonista è insieme alla ragazza, incontrano due amici di lei con i quali questa si intrattiene a chiacchierare, ignorando e isolando per un poco lui (e il lettore). Il segno, prima chiaro e sottile, si fa più spesso e perde in dettagli, sfumando e diventando confuso, distante. È chiaro il tentativo di rappresentare il senso di estraniamento che tutti abbiamo vissuto in situazioni più o meno simili, quando con la mente cerchiamo di allontanarci da una situazione che non ci interessa o che anzi ci disturba, e lo sguardo si fissa quasi nel nulla, osservando ma non vedendo quanto ha davanti.
Altro elemento fondamentale in Nei miei occhi quanto ne Il gusto del cloro è il tempo e la sua rappresentazione; Vivès gioca con il susseguirsi delle vignette, rallentando il movimento di camera (per usare una terminologia cinematografica), soffermandosi sui dettagli e allungando il tempo di lettura. Anche qui si può citare una sequenza, tra tutte, da pagina 62 a pagina 69, con una lunga ascesa per le scale del condominio e l’ingresso nella casa di lei attraverso una porta rossa.
Arrivato alla fine di quest’opera, al di là del giudizio sulle sue precedenti prove, si può quindi apprezzare una ricerca tecnica e narrativa che questo autore, ancora giovane, ha deciso di intraprendere. Un percorso che passa e passerà attraverso risultati più o meno convincenti, o magari incompleti, ma comunque coerenti con un’idea di fumetto in divenire.
Vivès, come dicevamo sopra, sembra un po’ esploratore, un po’ avventuriero in territori poco o per nulla noti, un po’ archeologo che risale alle basi del mezzo ma anche alle influenze del cinema classico – non è un caso la scelta di descrivere alcune sue scelte narrative con terminologie cinematografiche.
Chiudendo Nei miei occhi non si può far meno di restare con la curiosità di scoprire quale sarà il prossimo passo di questo autore, domandandosi se riuscirà a donare un tocco personale e autoriale anche a una storia di Moccia.
Abbiamo parlato di:
Nei miei occhi
Bastien Vivès
Traduzione di Fabrizio Iacona
Black Velvet, 2010
136 pagine, brossurato, colore – 18,0€
ISBN: 978-88-96197-36-3
Riferimenti:
Black Velvet Editore: www.blackvelveteditrice.com
Il blog di Bastien Vivès: bastienvives.blogspot.com